Quando, una decina di giorni orsono, “Moondo” allarmò i suoi lettori, descrivendo il
ruolo indebolito della Germania presidente di turno per un semestre del Consiglio, ma
certamente potenza egemone ed essenziale alla soluzione di qualsiasi crisi
continentale e mondiale, qualche voce – autorevole e degna di attenzione- ha
dissentito, specialmente attorno al ruolo ed al peso che la Cancelliera è o sarebbe in
grado di esercitare.
Forse è bene ricordare che i Trattati hanno disegnato per la presidenza semestrale
della UE poteri diversi da quelli del passato.
Con il trattato di Lisbona del 2009 quasi tutti i settori (incluso il bilancio) sono entrati nell’ambito della procedura di co-decisione (ribattezzata “procedura legislativa
ordinaria”), che ha aumentato in una certa misura il potere del Parlamento; il
Consiglio dei ministri ha adottato il voto a maggioranza qualificata e il Consigli europeo è stato costituito in un’istituzione distinta con un presidente permanente. La
Corte di giustizia ha avuto alcune ridenominazioni e adeguamenti minori. Inoltre, la
Banca Centrale è diventata un’istituzione completa.
La Commissione europea è stata pensata come “esecutivo” dell’Unione, cioè come
organo che propone le Leggi e, quando approvate, le gestisce.
Il Parlamento dà la fiducia al Presidente ed ai singoli membri della Commissione, sostanziando il diritto dei cittadini elettori ad interpretare, con la maggioranza
espressa dalle elezioni, l’assenso o il diniego alla proposta che gli viene sottoposta
per la nomina del presidente della Commissione; nel Parlamento si proteggono i
diritti dei cittadini e vengono approvate le Leggi proposte dalla Commissione.
Il Consiglio Europeo, che ogni due anni elegge il suo Presidente, è formato dai
rappresentanti degli Stati membri e, naturalmente, della Commissione. Tra gli altri
poteri- valuta, in ultima istanza, l’approvazione delle Leggi proposte dalla
Commissione e votate dal Parlamento.
Queste tre istituzioni sono molto importanti e se lavorano assieme l’Unione funziona
bene a vantaggio di tutti.
La mancata approvazione di una Costituzione Europea ha aumentato a dismisura i
poteri degli Stati nazionali sicché, a mo’ d’esempio, è sufficiente che il Consiglio non
metta all’ordine del giorno il voto su Leggi proposte dalla Commissione e votate dal
Parlamento perché queste non vengano applicate.
La percezione oramai diffusa nell’opinione degli Stati e dei popoli è che la guida
semestrale del Consiglio dei ministri abbia trasformato quest’Istituto in una
temporanea presidenza dei vertici dei capi di Stato e di Governo e delle riunioni dei
ministri competenti per area di discussione (spesso, molto più di quel che si immagini, ai vertici ministeriali non partecipano i ministri ma i Rappresentanti permanenti degli stati, cioè gli ambasciatori).
Questa percezione muta quando il semestre è guidato da uno dei paesi fondatori
classificato come “grande”, segnatamente la Francia, l’Italia e soprattutto la
Germania, alla quale è riconosciuta una leadership politica strettamente correlata al
ruolo economico e strategico che esprime nel sistema geopolitico.
Absit iniura verbis quindi se si osa dichiarare che il successo o il fallimento dei
propositi, oramai studiati da mesi, per superare la più grave crisi economica e sociale
che ha investito il mondo, si afferma che le spalle della Germania, a guida Merkel,
hanno spesso mostrato insofferenza alla assunzione degli oneri che la realtà impone.
È forse rischioso, certamente insidioso, a poche ore dall’apertura del vertice europeo
e si e no a 48 ore dalla sua conclusione, avventurarsi in pronostici che, in modo netto,
delineino le conclusioni di un processo politico e di sistema assai complesso. Reputo
però che gli analisti del giorno dopo corrano maggiori insidie, fra queste quella di
dover spiegare a posteriori ciò che non si è compreso precedentemente con le parole
di quei governanti che hanno interessi non sempre pubblicamente espressi.
In queste due settimane non si sono ancora potuti intravvedere miglioramenti
sostanziali ad un destino critico che sembra scivolare inesorabilmente su un piano
inclinato da interessi contraddittori.
Restano evidenti i rischi concreti che saranno provocati dal mancato conseguimento
degli attesi sviluppi di un piano europeo di ricostruzione, sviluppo economico e
sociale dell’Unione Europea e, soprattutto, per la modalità con la quale l’attuale
Presidente del Consiglio UE, Michel, pensa, assieme alla cancelliera Merkel, che sia
possibile trovare una mediazione, tecnicamente “anti statuaria”, su un piano di
compromesso che riduce la taglia del bilancio messo a disposizione degli Stati per il
loro sostentamento alla crisi e apre ad un controllo degli Stati nazionali sull’uso dei
fondi, contrariamente alla lettera ed allo spirito dei Trattati che affidano questo
compito alla Commissione ed al Parlamento.
Non sono certamente minuzie le particolarità che Merkel e Michel hanno introdotto
sul tavolo della trattativa. Riservare il 30% dei fondi comunitari alla transizione
climatica è certamente una scelta “pesante” alla quale molti, compreso chi scrive, può
guardare con interesse. È chiaro che la proposta Michel di diminuire il plafond
ipotizzato per il Recovery Fund non risolve ma aggrava, soprattutto dopo il vertice
franco-tedesco, il debito istituzionale e politico della UE e mette Merkel in difficoltà.
Una difficoltà che, a giudicare dai resoconti ufficiali dell’incontro Merkel –Conte,
rischia di dover essere superata con un pesante impegno politico: non diminuire il
tetto ipotizzato ed ancora in discussione: 750 milioni per il Recovery Fund, 500 per
sovvenzioni e 250 per prestiti, derivanti da fondi propri e dalla emissione di un Bund europeo, da aggiungersi ai 540 già decisi (240 per gli Stati- MES-, 200 per le imprese
–BEI-, 100 per i lavoratori- SURE-), ma modificando regole di controllo e
destinazione dei fondi, sia dei nuovi che di quelli già in esecuzione.
È ridondante, ora, commentare il complicato sistema che è allo studio ovvero
l’introduzione di imporre contributi sulla plastica, sul carbonio alle frontiere, una
tassa digitale, riforme del meccanismo di scambio delle quote di emissione; si può
osservare che il compromesso proposto, ad esempio, a fronte di difficilmente celeri
imposizioni fiscali mantiene invece facilmente in vita gli antiquati rebate dei quali
godono cinque stati (frugali o furbi secondo i punti di vista), che sarebbero gratificati
per circa cinque miliardi dall’annullamento degli sconti, oramai indebitamenti
percepiti, sulle somme che dovrebbero essere versate all’Unione, per di più – come
proposto dalla Commissione- senza alcuna progressiva riduzione del loro ammontare.
Non si tratta qui di minuzie. Il concetto di rebate fu il leitmotiv della politica europea
thacheriana, che era parzialmente giustificata dalla esclusione della Gran Bretagna da
una serie di ripartizioni, a cominciare da quella dei fondi europei per l’agricoltura,
che all’epoca rappresentavano il 25% del bilancio della Commissione: con un colpo
solo il semestre germanico, piuttosto che agevolare l’edificazione di una Unione
moderna e contemporanea ai bisogni presenti, riuscirebbe a tornare al passato ed a
rinfocolare i superati lamenti che accompagnarono le campagne proBrexit.
Riservare, poi, 5 miliardi per indennizzare “i paesi più colpiti dall’uscita del Regno
Unito”, cioè la solita Olanda ed altri piccoli paesi che si affacciano sul Mare del
Nord, così come modificare la chiave di ripartizione del Fondo per la Ripresa apre (o
chiude) un altro interessante capitolo. Una idea di base del compromesso targato
Merkel e Michel, in un primo periodo progetta la ripartizione basandosi su
popolazione, PIL pro capite e tassi di disoccupazione 2015-2019 e poi tra due anni
sostituisce il criterio di disoccupazione sull’andamento del PIL 2020-2021; nel
contempo anticipa le quote di rimborso al 2026 anziché al 2028, lasciando arbitro
delle valutazioni e delle loro conseguenze il Consiglio degli Stati, anziché
Commissione e Parlamento. Si rimette così, con la violenza del potere e del bisogno,
nelle mani della Germania, come dei suoi alleati, un potere che i Trattati non le
affidano e che, comunque, non merita perché Berlino non accetta le responsabilità
politiche che sono connesse al suo ruolo nel sistema non soltanto europeo.
E quindi sì, Angela Merkel si avvia a perdere il suo ruolo nella Storia se l’Unione, nel
momento più grave della debolezza che esprime il sistema mondiale, non riesce,
nonostante le più favorevoli tra le occasioni, a ridare un’anima ed una speranza al
continente.
Occorre ridare alla UE una necessaria coesione politica continentale per bloccare una
disgregazione dell’Ordine mondiale multilaterale, finora esistente ma sempre più in
difficoltà dinnanzi ai rischi che corre l’equilibrio planetario tra stati e società ineguali, per superare, con molta fatica, le immaginabili conseguenze catastrofiche della prima Guerra Fredda del mondo interconnesso, scatenata dal conflitto ideologico e tecnologico tra Cina ed USA, accompagnata da quelli che sono più che spiragli di guerra calda nel Mediterraneo ed in Iran e dalla normalizzazione di Hong Kong e dalla militarizzazione del Mar Cinese meridionale, alla quale Washington contrappone manovre militari navali per riaffermare la sua supremazia negli Oceani.
Ridurre il successo o meno della manovra europea alla sopravvivenza delle sorti
economiche suggerite dai diversi tipi di sovranismo nazionale, così come erano prima
dell’esplosione della crisi del libero scambio assoluto, sulla base della difesa di
supposte identità ed interessi particolari, non è più possibile, a causa delle singolarità
della crisi che il pianeta vive, anzi, l’esperienza ci suggerisce che ogni politica è oggi
influente soltanto se propone soluzioni che accompagnino l’accomodamento dei
problemi immediati anche per modelli planetari dello sviluppo, fondati su valori
pacificamente riconosciuti come universali, al fine di ridurre , prima di eliminarli, le
tensioni inegualitarie e climatiche che l’unilateralismo si è dimostrato incapace di
affrontare e risolvere (Covid docet).
Superando le piccole e distorte valutazioni sui bisogni, necessità, possibilità di
impegno e probabilità di successo di piccoli e poco dignitosi paesi, come l’Olanda,
senza proporre assieme ai fondi necessari per la ricostruzione una proposta, anche
unilaterale dell’Europa, perché giustizia sociale, riduzione delle ineguaglianze,
preservazione del pianeta siano considerati beni pubblici globali è un errore esiziale.
L’Europa, che nel bene come nel male, è stata per millenni e specialmente dall’alto
medioevo all’inizio del processo di decolonizzazione un punto di riferimento
essenziale per l’Ordine mondiale, oggi è scomparsa dal radar dei grandi protagonisti
politi ci; può e deve avere il coraggio di proporre una civiltà del consenso attorno alla
centralità dell’uomo e dei suoi interessi nel mondo trasformato dai Big Data; della
democrazia nella società complessa- assai diversa da quella che le grandi Rivoluzioni
e la Carta di San Francisco hanno disegnato-; della Pace che è l’architrave della vita e
del benessere al quale, nelle attuali condizioni, si oppongono distruzioni di massa sia
a causa di guerre che per l’implosione del pianeta.
Pretendere tutto assieme e subito non sarebbe soltanto intellettualmente banale,
sarebbe assurdo: tutto deve essere inventato.
Ricordare la necessità di impegnare l’Europa per restituire alla economia
continentale, alimentata dallo sviluppo dei singoli paesi, la possibilità di non
procurare danno alle nazioni che meno sono stati toccate dalla crisi, come ha
ricordato la cancelliera Merkel nelle sue dichiarazioni ed interviste, è sintomo di
debolezza dinnanzi all’elettorato tedesco ed è anche povertà di visione.
I simboli, ricordava il 25 giugno 2020, in un intervento allo IAI ( Istituto Affari
Internazionali) il professor Angelo Bolaffi, germanista e politologo di assoluto
valore, e convinto, motivato, assertore delle capacità e dei meriti conquistati nel
governo della Germania dalla Cancelliera, evidenziano la realtà per quel che è, non
per quella che è ipotizzabile: “per la prima volta la Germania presiede un semestre
europeo avendo a capo della Commissione un esponente politico tedesco: Ursula von
der Leyen. Dobbiamo ricordare che il primo e ultimo presidente della Commissione
tedesco fu Walter Hallstein nel 1958, quando la stessa Commissione fu fondata. Abbiamo adesso una presenza della Germania in toto per quanto riguarda l’Europa.
Ricorderei anche che questa è la seconda volta che la cancelliera Angela Merkel
presiede un semestre – l’ultima volta fu alla vigilia della grande crisi economica e
oggi viene dopo la grande crisi del Covid-19. Ci sono dunque delle simbologie
fortissime. È evidente che allora si trattò di salvare l’Euro e oggi si tratta di salvare il
progetto europeista in un mondo che non è più quello nel quale l’idea dell’Unione
europea nacque.”
“Moondo” aveva sottolineato le difficoltà che il semestre della Germania di Angela
Merkel è doverosamente chiamato a superare: quelle causate dalla solitudine del
nostro Continente per la crisi generata dagli Stati Uniti nel rapporto transatlantico e
quelle indotte dalla solitudine che l’Europa deve sopportare dopo il plateale
abbandono del progetto europeista di quello che ne era stato co-autore e protettore,
sempre gli Stati Uniti.
La solitudine non si addice agli Stati, figuriamoci alle sovranità super nazionali che
dovranno trovare metodi e contenuti di coesistenza che sostituiranno, più per
necessità che per opportunità, l’attuale esercizio dei poteri non più nazionalmente
definibili.
Senza il bilanciamento franco-tedesco, che oggi resiste solo formalmente, l’essenzialità tedesca appare drammaticamente insufficiente per una Europa che deve sì, come ha affermato von der Leyen, imparare l’arte del potere e la scienza della geopolitica, ma non può accedere a corsi supplementari, perché il tempo si misura anche in riferimento alle necessità, che noi tutti sentiamo incombenti, pressanti.
Pur non appartenendo a coloro che addebitano al Covid la fine di un mondo conosciuto dell’economia e che si sentono al momento orfani alla ricerca di nuovi legami, è indubbio che l’attesa di soluzioni alle molteplici crisi provocate dall’ordoliberismo, del quale proprio la Germania è stata in Europa allieva ed inflessibile maestra, è invocata in tempi brevi, possibilmente accelerati.
Spetta alla Germania e tra due semestri alla Francia, rimettere la UE sulla strada che
conduce al nuovo millennio. Purtroppo i vincoli esteri, specialmente economici, e le
fragilità interne hanno al momento declassato le possibilità di una più incidente
azione italiana. C’è da preoccuparsi a considerare il danno provocato alla politica
europea ed alla sua possibilità di interlocuzione per la pace e lo sviluppo, dei
condizionamenti alla vita delle Istituzione europee posti per il tramite degli Stati
furbetti; della difficoltà a chiudere la trattativa con il Regno Unito dopo la Brexit; ed
ancora il poco affascinante ruolo di fragile vetro nella tensione tra Cina e Stati Uniti,
la perdita di ruolo nel dialogo con la Russia, che comincia a dare segni di grave
irrequietezza sia per le fosche prospettive economiche che inquinano la sua vita
sociale e politica interna, e , nella debolezza della NATO, le accresciute
preoccupazioni di difesa ingigantite dalla scomparsa dal radar diplomatico europeo di
Mosca e della Turchia.
Le conseguenze della esplosione della diseguaglianza, causate dal consolidamento
del potere del mercato nella finanza e nella industria tecnologica, sono originate da
molteplici fattori.
Promettere la soluzione immediata di una crisi, che non è propriamente europea,
iniziata da decenni, inventando soluzioni emergenziali con la scusa che viviamo
nell’epoca del malcontento, dell’esclusione dei due terzi dell’umanità dal progressivo
aumento delle possibilità di usufruire di benessere e sviluppo, è una triste menzogna.
Trent’anni orsono il crollo del Muro di Berlino, simbolo di molte contraddizioni,
celebrò come definitiva la vittoria della democrazia ed il trionfo della sua bandiera,
il mercato globale.
Da sempre si contrappongono due visioni alternative del mondo simboleggiate da una
sempiterna lotta tra il bene ed il male. Fortunatamente, secondo alcuni, ha prevalso
l’istinto naturale e morale della maggior parte della società per la imperiosa
resilienza, cioè la capacità dell’uomo centro dell’universo di saper offrire fiducia, di
saper accettare i cambiamenti come capacità non di accettazione supina ma, al
contrario, di valorizzare l’ottimismo dell’intelligenza che acuisce la capacità di
cambiare punti di approccio ai problemi, con pensiero positivo, ogni volta che si
renda necessario reinterpretare la realtà ed affrontare con ottimismo il mare grande
della vita.
Il tempo passato ha anche testimoniato che perché si imponga di volta in volta il buon
frutto della morale sociale, il cui seme è stato seminato generosamente da uomini di
buona volontà, il male di tanto in tanto vince. Siccome i tempi della Storia sono a
loro volta diversi da quelli che misurano gli speciali orologi che regolano la nostra
personale vita, è capitato e capiterà che la spoliazione di capitali non stimabili, quali
la verità ed il contributo democratico delle scienze al governo del mondo, rendano
complesso il risanamento delle estreme diseguaglianze, che oggi rendono necessario
ed urgente lo studio e l’evoluzione di nuovi processi decisionali, per valorizzare le
democrazie che l’attuale sistema finanziario, mediatico, comunicativo limita e spesso
manipola.
Il filosofo Jürgen Habermas, prendendo spunto dalla crisi sanitaria globale, ha
suggerito in una intervista a Nicola Truong, che i governi debbono oggi prendere le
loro decisioni facendo riferimento alle conoscenze ed ai suggerimenti degli esperti.
Certo Habermas ha fatto riferimento al Covid, ma da tempo i suoi studi, e non
soltanto i suoi, hanno centrato il legame tra società, linguaggio, politica, inquadrato
all’interno del periodo tardo-capitalistico contemporaneo.
Avendo avuto la fortuna di studiare con Gianni Statera, che più di altri lavorò specificatamente sui movimenti studenteschi e la violenza politica, incontrai (per
conoscenza intellettuale, non direttamente) Habermas, esponente della seconda
generazione della Scuola di Francoforte. Il socio-filosofo nella sua proposta critica
strutturale, ed anche economico-politica, dell’attuale capitalismo, in una prospettiva
etica della democrazia, la rende più rivoluzionaria di quanto appaia l’estensione delle
riflessioni sulla deliberative democracy, perché intendeva la critica sociale come
unità di teoria e prassi (metodo questo certamente non sconosciuto alla scuola
marxiana) ma che richiede oggi un agire politico e conflittuale determinante per la
critica strutturale del contesto sociale. Il giovane Habermas pur risentendo di svariate
influenze filosofiche, specialmente quella di Heidegger, intendeva la filosofia come
una disciplina sia teorica che pratica, volta anche alla critica politica dell’esistente. Già all’epoca Habermas poneva al centro della società la forma razionale della
scienza e della tecnica, cardine della vita sociale.
È la crisi della razionalità la molla della disintegrazione delle istituzioni sociali,
perché questo movimento infrange l’aderenza tra le tradizioni che legittimano il
potere e quelle che indirizzano l’azione e i nuovi criteri di sistemi logici.
Il che è parte di una sistematizzazione razionale del passaggio della politica a una
vera e propria tecnica economica all’interno della quale si snoda la democrazia.
L’Europa potrà partecipare alla rivoluzione necessaria per stabilire una vita possibile
del e nel pianeta, quando, posto l’uomo al centro dei suoi interessi, il recupero di
ragioni inter-soggettive, per il tramite del dialogo tra politici, scienziati ed opinione pubblica, troveranno un luogo d’azione comunemente accettato nella accettazione del
rapporto con una nuova e riconosciuta importanza del diritto; allora rinascerà un
medium sociale democratico e i processi comunicativi, anche nel modello della
democrazia deliberativa, saranno in condizione di fronteggiare la pretesa egemonica
della logica sistemica che attualmente (mal?)governa il mondo e che Habermas
segnalava come “colonizzazione del mondo di vita”.
La teoria dell’agire comunicativo, intesa ancora come critica sociale, rappresenta un
approdo epistemologicamente possibile del pensiero tra individuo e società.
Vale la pena citare Habermas anche per ricordare che nell’epoca passata fu lui,
assieme a papa Benedetto XVI, il protagonista di una riflessione sulla interrelazione
tra democrazia e religione, che nell’epoca attuale assume un grande interesse
speculativo, proponendo il superamento dell’atavica frattura che separa religione e
laicità (Zwischen Naturalismus und Religion, 2005; trad. it. Tra scienza e fede, 2006).
Il “Washington consensus”, descritto come democrazia e libero mercato, ed il
“Bejjng consensus”, esemplificazione dell’autoritarismo e del capitalismo di stato,
non possono divenire il limite invalicabile di una nuova (e crudele) divisione
dell’umanità.
Non esiste sovranità nazionale in grado di cooperare attivamente allo sviluppo di un
equilibrato ordine mondiale perché i confini della crisi sono ben più larghi di quelli
nazionali e senza potere non si esercita la sovranità politica.
Vi sono priorità che devono essere affrontate a breve termine, fra queste non possono
trovare posto quelle misure che furono messe in atto nel 2008 e nel 2017 e che hanno
avuto come conseguenza il taglio delle tasse ai miliardari ed alle grandi aziende
(2017), salvare Wall Street nel 2008 e, oggi, aiutare le multinazionali. Affrontare
l’emergenza sanitaria, proteggere i deboli ed i bisognosi, fornire liquidità necessaria
per evitare, lì dove sono evitabili, i fallimenti, ma non salvare, a parole magari, tutti,
col risultato inevitabile di limitare la crescita rendendo vano il dovere di mantenere i
lavoratori legati alla produzione, non a imprese decotte già enormemente indebitate –
aiutando così imprenditori che per vari motivi non hanno realizzato il loro business
ma condannando i lavoratori e indebitando inutilmente l’erario-.
Vi sono priorità essenziali e non immediate, quali il disegno di una politica, di una
scelta comunitaria solidale, che siano animatrici di energie positive all’interno
dell’Europa e faro, esempio attrattivo per il mondo.
Ecco perché Moondo scrisse che con questo semestre ottenere anche una parte
(politica) è meglio di niente, purché sia lasciata una speranza operativa all’Europa ed
al mondo.
Occorre lavorare per una nuova sovranità europea, libera dal vecchio retaggio del
dominio degli stati sugli stati e luce di progresso e benessere per i suoi cittadini e per
gli uomini del pianeta. Occorre avere una visione politica e della Storia che le spalle
di Merkel sembrano deboli a sopportare, perché molto più interessate al “rifugio” in
cui riparare la Germania dalle ostilità del mondo, già tanto compromesso dalla lunga
catena di errori sovranisti che ha legato Trump ai suoi predecessori.
Finché l’uomo è un essere che sa sperare, l’utopia è inevitabile. Chi non percepisce la
dimensione utopica nel desiderio non sa quale sia il desiderio e non potendo
realizzare l’utopia (Betriebsutopie) si affida al determinismo storico, che è il campo
d’azione dei pochi vincenti ed il cimitero dei tanti perdenti.
Per questo nutro nell’oscuro cielo che sembra sovrastarci una speranza utopica nei
fini, realista nel contingente.
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