“Refrattario ad ogni tipo di repressione: una definizione che potrebbe riassumere il senso di una vita, o comunque la molla di tante scelte politiche”. E’ una delle tante descrizioni che Fabio Martini – giornalista di vaglia, notista politico de “La Stampa” e scrittore – fa nel suo articolato e dettagliatissimo libro su Bettino Craxi, “Controvento” (ed. Rubettino).
Se del segretario del Psi si è ricominciato a parlare in questi giorni, non lo si deve tanto all’anniversario dei 20 anni dalla sua morte, ma anche al film “Hammamet”. E il dibattito, oggi come allora, si è diviso in guelfi e ghibellini: ladro capo dei ladroni o martire di un giustizialismo dissennato. Fabio Martini, per nostra fortuna, non cade in questa trappola e ci porge un ritratto di Craxi pacato, equilibrato e senza sconti. Con una serie di aneddoti sconosciuti ai più (Craxi che a 24 anni va da solo in treno in Cina per vedere come è il socialismo realizzato e ne rimane fortemente deluso; Craxi in delegazione ufficiale a Praga che non si ferma a parlare con i funzionari di partito, ma va tra la gente a vedere come si viveva nel paradiso comunista e scopre che è una dittatura). Il libro è pieno di testimonianze e citazioni, frutto di una ricerca attenta.
Con una serie di particolari, oscurati o inediti, della vicenda politica e umana di Craxi. Il no a Cuccia (deus incontrastato dell’allora salotto buono della finanza italiana, Mediobanca, uno “che poteva”) quando gli propone l’appoggio dei poteri forti; i soldi che da ai movimenti di liberazione dalle dittature (anche quelli delle tangenti, e lo hanno saputo in pochi); una task force segreta per liberare Moro; il piano riservato, offertogli sottobanco, affinché si curasse in Italia e che rifiuta dicendo: “Torno solo da uomo libero”. E in questa frase ci si ritrova tutto il suo orgoglio, fino all’arroganza.
Un orgoglio che lo spingerà a diventare un socialista anticomunista, in nome dell’autonomia del Psi e contro la subalternità di quest’ultimo verso i “cugini” del Pci. I quali non lo perdonarono mai e gli lanciano una sfrenata campagna contro.
C’è il Craxi di Sigonella come quello del taglio della scala mobile, quello del nuovo concordato con la Chiesa, come quello della crescita economica al 4 per cento (anche a costo di far crescere di parecchio il deficit statale). Martini ci racconta anche del Craxi che stima gli intellettuali ma li allontana se non ne condivide le posizioni politiche “così come contrastava l’ultimo segretario di federazione o potente cacicco di periferia” con una reattività – osserva Martini – che sconfinò spesso nell’arroganza.
Un’attività profonda nella politica e nell’azione di governo che gli fa perdere di vista quello che succede nel partito. Quando tornerà a Via del Corso troverà – dice Martini – un partito “disossato”: “ogni istanza di dibattito era soffocata, in tutta Italia aveva preso spazio il partito degli assessori con tutto quello che ne sarebbe conseguito non appena la magistratura si sarebbe messa alla ricerca del malaffare: bastò cercare per trovare”.
Lui non si arricchì personalmente ma lasciò che altri lo facessero, rimase indifferente al rampantismo che ha contrassegnato gli anni 80, fino a diventare una identificazione semplicistica. Ma lui guardava oltre. “La molla di Craxi – lo riconoscerà nel 1996 Gerardo D’Ambrosio, procuratore aggiunto di Milano – non era l’arricchimento, ma la politica”. Una politica che, partendo da Proudhon e arrivando a Carlo Rosselli “si propone – scrive Martini – in contrapposizione a quella statalista, collettivista e liberticida della tradizione giacobina e leninista”, diventato segretario, Craxi innovò a modo suo il linguaggio della politica distaccandosi dell’ormai antico e paludato parlare dei democristiani ma senza mai essere un demagogo. Così come non fu mai un populista, non abbracciava i suoi fans, non metteva felpe, non raccontava barzellette in pubblico”.
C’è una cosa che Fabio Martini mette bene in luce quasi all’inizio del libro: la lunga gavetta di Craxi dall’iscrizione (a 17 anni) al Psi fino alla segreteria generale, 24 anni dopo. Un percorso che va da consigliere comunale, assessore, segretario cittadino, deputato. Un percorso lungo il quale non sconfinò mai nella demagogia e nel populismo.
“Una scuola di democrazia e di libertà”, scrive Martini citando Ugo Intini.
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