Il Veneto è stata una delle prime regioni ad essere investita dall’epidemia: il focolaio di Vò Euganeo è stato identificato insieme a quello lombardo di Codogno e nella regione il 24 febbraio risultavano già 33 casi riconosciuti (il 14% del totale nazionale), che la collocavano seconda in questa triste graduatoria alle spalle solamente della Lombardia (172 casi, 75%) e prima dell’Emilia Romagna (18 casi, 8%).
A distanza di un paio di settimane (l’11 marzo data dell’adozione generalizzata del lockdown) la situazione appariva diversa: su 12.462 casi rilevati in quel momento in Italia, 7.280 (58%) erano localizzati in Lombardia, ma al secondo posto (con 1.739 pari ala14%) si collocava l’Emilia Romagna, che aveva nettamente scavalcato il Veneto (1.023 casi, pari all’8%). Anche considerando i decessi “rilevati” si potevano osservare decise differenze: i tre quarti degli 827 morti registrati risultavano ascrivibili alla Lombardia (con un rapporto decessi/contagi dell’8,5%), il 14% all’Emilia Romagna (con un rapporto decessi/contagi del 6,5%) e solo il 4% al Veneto (29 morti, con un rapporto decessi/contagi che non superava il 2,8%).
Al 21 marzo, giorno di picco “ufficiale” della diffusione del contagio (flusso “ufficiale” di 6.557 nuovi casi) e che può essere considerato convenzionalmente il momento in cui gli effetti del lockdown cominciano concretamente a manifestarsi, la distribuzione dei 53.578 casi fino a quel momento rilevati vedeva al primo posto la Lombardia (45%), al secondo l’Emilia Romagna (13%) e al terzo ancora il Veneto (con il 9%) seguito da vicino dal Piemonte (con il 7%). Se però si considerano i decessi a tale data le quote, e la graduatoria, cambiano notevolmente: la Lombardia risultava sempre largamente prima con 3.095 decessi rilevati (pari al 64% dei 4.825 complessivi e con un rapporto decessi/contagi del 12,1%), l’Emilia Romagna si confermava, anche da questo punto di vista, al secondo posto (con 715 decessi cumulati pari al 15% del totale e un rapporto decessi/contagi del 10,7%) mentre al terzo posto si collocava il Piemonte che (con 238 decessi pari al 5% del totale e un rapporto decessi/contagi del 6,3%) aveva scavalcato il Veneto (dove i decessi erano 146, pari al 3% del totale e con un rapporto decessi/contagi limitato al 3,2%).
Il 21 aprile, ad un mese di distanza, la situazione si presenta ancora diversa. In termini di numerosità assoluta dei contagi rilevati la Lombardia è ancora largamente prima con 60.314 casi (37% del totale) seguita dall’ Emilia Romagna 23.092 (13%) che è stata quasi raggiunta dal Piemonte 21.955 (12%) mentre il Veneto rimane quarto con 16.404 casi rilevati pari al 9%. Se però si standardizzano i dati rispetto alla dimensione demografica calcolando i contagi per 100.000 abitanti il quadro cambia: in cima alla graduatoria troviamo infatti la piccola Valle d’Aosta (869,8 casi ogni 100.000, l’abitanti) che supera la Lombardia (675,2) quasi raggiunta dalla P.A. di Trento (667,9); l’Emilia Romagna è quarta con 517,8 casi seguita a breve distanza dal Piemonte (504,0); il Veneto è molto distante (334,4 casi rilevati ogni 100.000 abitanti nonostante sia la regione che in proporzione ha effettuato più test), preceduta dalla P.A. di Bolzano (453,7) e anche da regioni non coinvolte nella primissima ondata come Liguria (436,2) e Marche (385,3).
Considerando i decessi la differenza di andamenti emerge ancora più nettamente. In termini assoluti è, ovviamente, ancora prima la Lombardia con 12.579 morti ufficialmente registrati al 21 aprile (il 51% del totale) che corrispondono a una incidenza di 125 casi ogni 100.000 abitanti e a un rapporto decessi/contagi del 18,1%. In termini di incidenza la seconda posizione è occupata dalla piccola Valle d’Aosta mentre l’Emilia Romagna si conferma terza sia in termini assoluti (3.147) che di incidenza (70,6 ogni 100.000 abitanti) con una rapporto decessi/contagi del 12,8%. Nella graduatoria per incidenza dei decessi su 100.000 ab. Si trovano poi un gruppo di regioni con valori non molto dissimili che include la P.A. di Trento (69,5), la Liguria (63,8), il Piemonte (57,0), le Marche (54,7) e la P.A. di Bolzano (47,3). Il Veneto, dove i decessi registrati sono 1.1.54, presenta invece un’incidenza nettamente inferiore (23,5) e assimilabile a quella di regioni molto più lontane dall’epicentro iniziale come Friuli Venezia Giulia (19,8), Toscana (18,4) e perfino Abruzzo (20,7). In veneto si riscontra inoltre un rapporto decessi/contagi del 6,2%, valore basso e vicino a quello di Molise (5,8%), Lazio (5,7%) e Basilicata (5,6%); solo l’Umbria (3,9%) presenta un valore del rapporto significativamente inferiore.
Il Veneto è riuscito a ottenere questi eccellenti risultati perché ha avuto la fortuna di avere medici che hanno fatto i medici (essendo stati messi in condizione di curare in modo appropriato le persone), scienziati che hanno fatto gli scienziati (studiando seriamente cosa stava succedendo e traendone indicazioni), organizzatori che hanno fatto gli organizzatori (rendendo operative le indicazioni degli scienziati e consentendo ai medici di lavorare al meglio) e politici che hanno fatto i politici (ascoltando gli scienziati e assumendosi la responsabilità delle decisioni conseguenti).
Andrea Crisanti, professore di microbiologia all’Universita di Padova è la figura centrale di questo successo. Crisanti ha fatto lo scienziato perché, contrariamente alle autorità sanitarie nazionali e a tanti suoi colleghi, non ha creduto a scatola chiusa alla tesi cinese secondo cui gli asintomatici non erano contagiosi e a chiesto a Zaia di effettuare, subito, una sperimentazione sul campo realizzando tamponi in misura massiccia a tutti coloro che erano venuti in contatto con i “positivi” e non solo ai “sintomatici” come, seguendo le indicazioni nazionali, si è fatto (e si continua in gran parte a fare) nel resto d’Italia.
Il governatore (come ha raccontato lo stesso scienziato) gli ha dato fiducia investendo sulla capacità di fare test e sulla gestione territoriale, tanto che i dati indicano che all’11 marzo nel Veneto erano stati già effettuati 21.400 tamponi (436 ogni 100.000 abitanti, contro i 255 della Lombardia e i 149 dell’Emilia Romagna). Ciò ha consentito al sistema sanitario veneto di individuare, fin dall’inizio, una quota molto elevata di portatori del contagio facendo ampio ricorso all’isolamento domiciliare e riducendo la pressione sulle strutture ospedaliere che nel frattempo erano state “blindate” grazie alla presenza di una efficace medicina territoriale (sempre all’11 marzo la quota degli ospedalizzati sugli “attualmente positivi” era del 35,1% nel Veneto contro il 76,6% della Lombardia, il 53,5% dell’Emilia Romagna e addirittura l’82,1% del Piemonte).
Tutto ciò rende il prof. Crisanti uno dei pochi esperti che vale la pena di ascoltare anche quando indica i pilastri di una strategia di superamento della condizione attuale: “Punto primo: non si potrà prescindere dalla distribuzione su larga scala di dispositivi di sicurezza, dalle mascherine ai guanti e così via. Il secondo aspetto indispensabile è il rafforzamento della medicina del territorio e dei servizi sul territorio, a partire dai servizi di diagnosi, senza dimenticare il monitoraggio dei luoghi di lavoro. Ultimo aspetto non meno importante: occorrerà accettare di rinunciare in parte alla propria privacy per garantire il tracciamento elettronico dei contatti nel caso di soggetti infetti” (intervista a Business Insider).
Il primo pilastro indica una condizione preliminare, valida in particolare in quanto applicata ai luoghi di maggiore e più letale contagio: gli ospedali, le strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali, i luoghi ad alta intensità di contatto (negozi, mezzi di trasporto collettivi, luoghi di lavoro etc.); “proteggetevi” e “state distanti” sono parlo d’ordine assai più efficienti della ipocrita (e socialmente devastante) “state a casa” che è diventata negli ultimi due mesi una sorta di religione di stato.
Il secondo pilastro è quello fondamentale. Non solo il caso del Veneto ma anche quello di altre regioni (Toscana, Umbria, Friuli V.G., marche) che hanno adottato in un secondo momento strategie simili dimostrano che esiste una chiara correlazione: più tamponi si fanno (e quindi più portatori vengono isolati) minori sono i decessi (perché minori e meglio gestiti sono i contagi) (vedi grafico). Eppure a tutt’oggi non si riesce a capire se vi siano o meno in corso di realizzazione iniziative nazionali che incrementino la capacità di effettuare quotidianamente tamponi in vista del 4 maggio portandola dalle attuali 60.000 unità (di cui quasi 10.000 in Veneto) ad almeno 200.000.
Infine è a queste condizioni, e solo a queste condizioni, che il tracciamento elettronico dei contatti assume un senso e lo scambio (che va comunque attentamente regolato) tra la riduzione della privacy e l’aumento della libertà di movimento può essere accettato. Se non viene implementato (su tutto il territorio nazionale) l’aumento della capacità di effettuare test in modo tempestivo e se non viene implementato un modello di gestione dei positivi che ne garantisca l’isolamento assistito, il tracciamento digitale da solo non risolve nulla, anzi rischia di generare caos e nuove privazioni sociali.
Ciò che un po’ colpisce, a due mesi dalla conclamata rilevazione dell’epidemia, è che le autorità sanitarie nazionali (e in gran parte anche le autorità politiche) continuino sostanzialmente a non riconoscere l’evidenza del modello veneto (basato s scelte diverse da quelle da loro proposte) e a presentarsi con una supponenza che gli errori che hanno compiuto francamente non giustificano.
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