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Debito e patrimoniale: cosa serve davvero all’Italia

Sortite come “cancellazione del debito” e “imposta patrimoniale”, nei giorni scorsi, hanno messo in agitazione l’opinione pubblica italiana, fortunatamente senza corrispondenza sui mercati finanziari. Per quale ragione un esito tanto diverso?

La storia della cancellazione del debito è partita dal Presidente del parlamento europeo, l’on. Sassoli del Pd, come proposta per alleviare la situazione generale verificatasi in Europa per effetto della spesa pubblica cresciuta per far fronte alla pandemia sanitaria. In quella proposta è stata vista una tacita allusione, non smentita, al debito pubblico italiano. L’idea è vissuta lo spazio di un mattino, poiché subito dopo il presidente della Banca centrale europea, la signora Lagarde, ha sentenziato che l’ipotesi non poteva essere nemmeno presa in considerazione, non essendo prevista dai trattati europei. I mercati finanziari, dal canto loro, non l’hanno neanche registrata. Ma si può essere certi che qualche campanello d’allarme è risuonato nelle cancellerie dei cosiddetti “paesi frugali”.

L’ipotesi di imposta patrimoniale è, invece, apparsa e resa leggibile in un documento parlamentare italiano, grazie ad un emendamento messo lì di soppiatto da esponenti della sinistra (Leu ed anche Pd) in vista del dibattito e dell’approvazione del disegno di legge per lo scostamento di bilancio. In questo caso, è immediatamente insorta l’opposizione di centrodestra, parlando di “regalo di natale” pronto per essere propinato agli italiani. Pure in questo caso i mercati hanno lasciato andare, essendo la proposta più vicina alla dabbenaggine che alla possibilità di realizzarla.

Tuttavia, le due idee, al di là della loro estemporaneità, toccano problemi veri e consistenti della realtà economico finanziaria italiana. Il debito pubblico nazionale  viaggia verso lidi pericolosi, e si prevede che quest’anno supererà il 160 per cento del prodotto lordo, mentre la spesa pubblica per sanità, ristori, cassa integrazione, reddito di cittadinanza e via discorrendo continua a correre. Il debito accumulato pesa e la crisi economica sta producendo un’inevitabile riduzione del gettito fiscale. La crisi sta comportando un ampliamento degli squilibri tra territori e tra gruppi sociali, ad essa si aggiunge l’eterna rincorsa all’evasione fiscale che, valutano, intorno ed oltre i 120 miliardi di euro su base annua.

Dinanzi ad un quadro siffatto, le idee di intervenire sono logiche e giustificate. Ma, tutto sta a concepire iniziative serie e praticabili, partendo da un presupposto essenziale, che l’Italia, la sua economia il suo sistema finanziario, il suo stesso sistema sociale, sono profondamente connessi nella Comunità Europea e, con essa, inserita nella globalizzazione mondiale. Insomma, le autarchie, comprese quelle monetarie e finanziarie non esistono più. Parlando della sola moneta, l’Euro, è da un ventennio fuori dalle possibilità di manovra (o peggio di giostra) dei governi nazionali.  

In passato, quando il sistema economico non aveva le dimensioni mondiali che ha oggi, e ciascun paese poteva individuare aggiustamenti locali, anzitutto tramite le manovre monetarie, stampando o ritirando carta moneta, e così agendo su tassi di interesse, livello dei consumi e andamento dell’inflazione, le soluzioni erano, seppur difficili, possibili.

Si veda il caso italiano, che poi è quello che maggiormente interessa e di cui, in fin dei conti, anche qui si sta parlando. Anche qui le due ipotesi di lavoro – debito e patrimoniale – vanno distinte.

Un primo “consolidamento” del debito pubblico venne fatto nel 1906 dal governo Giolitti, che lo rese irredimibile mediante trasformazione nella Rendita 5%, successivamente ridotta al 3,5%. Un titolo “irredimibile” non ha scadenza, ossia il capitale che esso rappresenta non verrà mai rimborsato, si pagheranno solo gli interessi. 

L’operazione fa accolta favorevolmente, erano quelli i tempi in cui la lira italiana faceva aggio sull’oro, nel senso che veniva accettata in pagamento preferendola all’oro. 

Con la prima guerra mondiale il debito pubblico era nuovamente cresciuto e  divenuto fuori controllo. Così, nel 1926, con un decreto legge, Mussolini varò il “Prestito del Littorio”, resosi necessario per evitare effetti collaterali dovuti alla “rivalutazione della lira”, la famosa “Quota 90”, che stabiliva la parità con la sterlina inglese nella misura di 1 a 90, dove 1 sta per la sterlina e 90 per la lira. 

Nel caso del “Prestito del Littorio”, la conversione del debito fluttuante in “consolidato”, e quindi reso irredimibile, si rese necessaria per evitare l’effetto deflattivo dovuto al maggior valore attribuito alla lira, e così si ebbe la trasformazione forzosa di 15 miliardi di debito pubblico (1 miliardo con scadenza annuale, il resto con scadenza a 7 anni)  in debito consolidato a lungo termine (30 anni) che venne elevato a 27,5 miliardi di lire al tasso del 3,5%.

L’effetto ottenuto fu la sottrazione dal mercato di una massa enorme di denaro e titoli mobiliari. 

L’operazione fu accettata, grazie al clima politico favorevole al regime fascista, che dava una percezione positiva a sostegno del “salvataggio della lira”.

Ricordati questi antefatti, chiunque pensi alla “cancellazione del debito” o ad una “imposta patrimoniale” deve porsi davanti ad uno scenario estremamente complesso, che coinvolge aspetti nazionali e internazionali. Vale a dire le condizioni utili e necessarie per impostare almeno la ricerca delle vie possibili. Dove “l’almeno” equivale al “quasi impossibile”, dovendosi partire dalla non più esistente “Sovranità monetaria”, (stampa di biglietti, banca) che è oramai di esclusiva competenza dell’Unione Europea tramite la Bce e i suoi sistemi di controllo.

Oltre questo ostacolo, che può essere superato in un unico modo, cioè  uscendo dall’Unione, come ha fatto il Regno Unito, o quantomeno uscire dall’unione monetaria, vale a dire abbandono dell’Euro e ritorno alla Lira, ci sono condizioni esaustive che non possono essere disconosciute.

La storia insegna che la prima condizione essenziale è costituita dal “consenso politico”.

In Italia, oggi questo consenso non esiste. Per ottenerlo dovrebbero presentarsi situazioni ben più disastrose di quella che si sta vivendo con la pandemia, tipo le guerre e le distruzioni che esse comportano, alle quali si può far fronte solo trovando un’intesa politica di popolo e forze rappresentative che non appare possibile, e benché meno auspicabile se costretti a raggiungerla per quelle necessità.

Scartata l’ipotesi della “cancellazione del debito” per le ragioni prima dette, e  potendosi procedere al suo consolidamento, vale a dire rendendolo “irredimibile”,  affrontando i mercati finanziari dai quali SOLO dipende la possibilità di agire.

Solo  la fantasia, al limite dell’inconsapevolezza (ma si dovrebbe recitare “follia”) può condurre a ritenere che i mercati sopporterebbero e reggerebbero un botta siffatta: 160 e più miliardi di euro che da un momento all’altro diventano inesigibili. Si ammetta pure che un politico nostrano, con un colpo di genio persuasivo, convinca milioni di italiani ad accettare una tale proposta, e per giunta correre a donare “oro alla Patria”, c’è  da pensare a quel che farebbe la parte estera, rappresentata dai Fondi, che detiene qualcosa intorno al 35 per cento del debito italiano.  

Il primo dovrebbe ringraziare il prof. Basaglia che lottò per la chiusura dei manicomi, i secondi ne solleciterebbero la riapertura per rinchiudervi il governo italiano nella sua globalità.

Un approccio diverso vale per l’idea di applicare un’imposta patrimoniale, che ha un suo valore morale avvertito da ampie fasce della popolazione italiana, si pensi a chi le condizioni generali hanno impedito negli ultimi 2 o 3 decenni di salire la scala sociale, si pensi soprattutto a chi in questi mesi è rimasto disoccupato, a chi non vede prospettive di lavoro, si pensi alle famiglie prossime o sotto il livello di povertà, si pensi alle centinaia e migliaia di giovani ai quali è oggi preclusa la scuola e il timore che il futuro sarà ancora più duro ed incerto, i giovani e le generazioni che verranno che dovranno farsi carico dell’enorme massa di debiti che gli viene lasciata.  

Anche questa del consolidamento del debto è follia e di forma più grave, perché il passo che si è preso non induce ad immaginare che il rientro dal debito possa avvenire gradualmente con avanzi annuali di bilancio. Non ci si prenda in giro, noi stessi e con gli altri.

Questo è il vero enorme problema che dovrà essere affrontato per evitare un default, il fallimento dell’Italia. Altro che troika europea, altro che le condizioni poste dal prestito europeo del Mes!!!

Che piaccia o no, le risorse per fronteggiare l’eccesso di debito pubblico stanno solo nella ricchezza privata ed è lì che prima o poi, necessariamente si dovrà attingere.  Farlo comporterà più di uno scontro politico duro e prolungato, comporterà uno scontro sociale forte, comporterà capire che si è già con un piede nel baratro e servirà l’impegno e l’aiuto di tutti per evitare che il Paese finisca nel precipizio.

Ma la situazione non si affronta con i sotterfugi di una certa sinistra, che denota solo rancore sociale e metodi da sorcio di granaio. Con quegli emendamenti non si va da alcuna parte, si inaspriscono  solo posizioni politiche già tese, si cerca di rompere il minimo di intesa con l’opposizione che in questo momento difficile è essenziale. 

Se si vuole andare in quella direzione, e ci si deve andare, il percorso è lungo e difficile, serve ricostruire la credibilità della politica, serve costruire un progetto accettabile per l’Italia, serve smetterla con le chiacchiere e i giochetti di “transatlantico”, serve determinare le condizioni per un nuovo patto costituzionale.  Servono quelle tante riforme sempre promesse e mai realizzate. 

Serve un gruppo dirigente, politico e no, che non si scorge all’orizzonte.

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Gianfranco Salomone

Giornalista - Già Direttore Generale Ministero del Lavoro

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