Luigi Di Maio non è certamente uno sciocco: non ha una grande conoscenza dell’arte di governo ma finora ha dimostrato di avere senso politico sufficiente per arrivare, da venditore di bibite alla stadio San Paolo di Napoli, ad essere il leader di un movimento politico (un tempo) molto robusto, oltre che Ministro e vice Presidente del Consiglio.
Il fiuto lo ha abbandonato quando ha scelto di governare con un personaggio come Salvini, un politico cinico a vocazione autoritaria, senza altro obiettivo che quello della ricerca e gestione del potere. Il leader della Lega ha subito scelto il suo terreno di gioco preferito: raccontare favole agli italiani suscitando la loro simpatia per “Cappuccetto Rosso” e “Biancaneve” (leggi diminuzione delle tasse e vita dura per i migranti) è riuscito perfettamente nel suo intento, ha aumentato il suo repertorio favolistico aggiungendovi la “Bella addormentata nel bosco” (leggi il mutamento dei contenuti della comunità Europea all’insegna dell’interesse nazionale). Forte del consenso elettorale ottenuto ha dichiarato specificatamente di voler imporre la sua linea politica al governo a cui partecipa su un piano di (formale) parità con i pentastellati.
Logica avrebbe voluto che a questo punto i cinque stelle uscissero dall’alleanza di governo magari accogliendo i suggerimenti dall’alto per un governo definito tecnico ma con la stessa attuale maggioranza parlamentare in modo da prendere (anche se magari solo formalmente) le distanze dalla linea politica del governo stesso.
Non ha potuto farlo: deputati e senatori pentastellati, dinanzi alla prospettiva di una crisi di governo cui potrebbero seguire elezioni che lascerebbero a casa molti di loro dato il prevedibile peggior risultato rispetto a quello conseguito alle elezioni dell’anno scorso, gli hanno riconfermato la loro fiducia come capo politico, sottintendendo con ciò la loro volontà di lasciare invariato il quadro di riferimento governativo.
La conseguenza è che ora il prode Giggino si trova a dover dire di si a tutte le richieste dell’alleato Salvini, anche a quelle che vanno in senso diametralmente opposto rispetto al programma originale del suo movimento, confidando solo che il Presidente Conte riesca ad attenuarne la rivulenza.
In questo modo, mentre Salvini mette le mani avanti avvertendo i suoi elettori che cambiare l’Europa è per lui solo un tentativo di cui non garantisce il successo, dimenticando di indicare le conseguenze degli atti dal fallimento della sua azione, Di Maio è costretto a prendere sempre più le distanze dal suo disilluso elettorato.
Deputati e senatori pentastellati, decidendo in base ai loro calcoli personali (molti hanno acquistato una casa a Roma e debbono pagare il mutuo, 12.000,00 euro al mese sono un sogno per piccoli impiegati, artigiani, semioccupati) decidendo per la continuazione dell’attuale esperienza di governo hanno optato per il loro suicido politico. Di Maio dovrà solo gestire questa castrazione chimica: alla fine sarà costretto ad assumersi le responsabilità del fallimento e griderà ai quattro venti che è servito per la causa comune. Poveraccio…
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