Il valore simbolico è rimasto intatto, ma la giornata della donna è diventata ormai, purtroppo, una festa consumistica. Mimose e cioccolatini, pubblicità e qualsiasi prodotto da reclamizzare viene legato all’8 marzo. Allora forse è giusto ricordare il ruolo delle donne nel momento più difficile che un paese possa attraversare: la guerra.
Una estenuante battaglia, durante il secondo conflitto mondiale, combattuta giorno per giorno nelle case, nelle città, nelle campagne. Contro la fame, contro le bombe, contro i pidocchi e le malattie, contro chi voleva strappare – e ha strappato – i loro figli, fratelli, mariti, fidanzati, papà.
Tutte insieme, migliaia e migliaia di mogli, madri, sorelle, fidanzate, figlie. Un esercito femminile che non solo ha sostituito gli uomini nei loro lavori, ma ha tirato avanti le famiglie, ha nascosto i suoi maschi, oppure gli alleati arrivati clandestinamente nelle città, gli ebrei, i partigiani. Alcune – poche – hanno imbracciato le armi . Diverse hanno fatto la staffetta. Claudio Fracassi, nel suo libro “La battaglia di Roma” cita per esempio – tra le tante – Maria Teresa Regard (medaglia d’argento per la resistenza), Fulvia Trozzi, Marisa Musu, Adele Maria Jemolo come instancabili staffette “appena uscite dalla scuola che si stavano battendo per difendere Roma”. Per loro la battaglia di Porta San Paolo, alla quale parteciparono, “segnò l’inizio di una nuova vita”.
Di una nuova vita parla anche Miriam Mafai nel suo libro “Pane Nero”. Molte delle donne da lei intervistate , buttano lì un “però in fondo è stato bello”. Forse perché – nota la Mafai – sia pure tra le tensioni e le difficoltà della vita quotidiana, ognuna di loro dovette imparare a decidere da sola, senza la tutela di padri, mariti, fidanzati. Forse perché “ognuna di noi divenne , nel pericolo e nella miseria, più padrona di se stessa”.
Pericolo e miseria sono stati i nemici principali. Le donne hanno combattuto ogni giorno contro la fame che attanagliava gli italiani soprattutto dopo l’8 settembre. E se qualcuna molto ricca o connivente con i tedeschi e i fascisti, è riuscita a strapparsi di dosso quell’orco, in quell’esercito di disperate, c’erano tutte. Dalle operaie alle impiegate; dalle contadine alle contesse e alle cameriere. Con un unico imperativo: portare a casa il cibo. Con l’astuzia o con la violenza, se necessario. Ma anche questa fu resistenza.
A Roma, i mesi dell’occupazione nazista furono spietati. Si mangiava tutto quello che era appena appena commestibile. Si faceva la fila per le cipolle, le rape, i broccoli. Il pane, poco, era solo nero. Quello bianco, un miraggio riservato per lo più alla mensa dei tedeschi e dei fascisti.
Dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944, i nazisti si incattiviscono, se possibile, ancora di più. Non basta la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, ogni italiano è un nemico: deve essere colpito. Così, per ordine diretto del generale Maeltzer, la razione di pane dei romani viene ridotta dai già miseri 150 a 100 grammi al giorno. Oltretutto è pane nero, spesso ammuffito. Non solo. A metà aprile, a causa delle difficoltà dei trasporti e dei sabotaggi dei partigiani, la distribuzione ufficiale subisce un’ulteriore diminuzione. Circolano 50.000 carte per il pane falsificate e ingenti quantità di farina vengono vendute di contrabbando dagli addetti alla distribuzione.
Le donne romane, esasperate, si ribellano. A volte sono i gruppi femminili della Resistenza a organizzare la protesta. Ma il più delle volte, spontaneamente, con il passaparola di quartiere in quartiere, le casalinghe si ritrovano in strada – bambini al seguito – per assaltare i forni, saccheggiare camion, fronteggiare gli occupanti, armate solo delle sporte da riempire di qualsiasi genere alimentare trovato. La rivolta dilaga nelle borgate popolari, ma anche nei quartieri della piccola e media borghesia, obbligando i nazifascisti a scortare i convogli e presidiare i punti di distribuzione.
Si comincia con un forno a via dei Giubbonari. Le donne sfondano la porta e prima che arrivi la polizia scappano con la borsa colma. Si continua con Borgo Pio, dove un camion di farina scortato dai fascisti viene assaltato, con una tale irruenza, che ai militi non resta che guardarlo completamente svuotato. Nella primavera ’44 nei dintorni di Porta Maggiore viene svaligiato un deposito di fave, ceci e fagioli.
Un telegramma del prefetto al capo della polizia datato 21 aprile parla di «manifestazioni alquanto vivaci da parte di donne per mancanza di pane» in un forno assaltato «con asportazione anche di denaro»; altre informative a maggio segnalano «incidenti davanti a molti forni provocati da gruppi di donne e bambini».
“Il confine tra legalità e illegalità, tra protesta antifascista e la necessità di dare soddisfazione ai bisogni più elementari , si faceva sempre più esile”, scrive Miriam Mafai . “Tutto era lecito pur di procurarsi da mangiare, pur di portare a casa le sigarette per gli uomini che vivevano da reclusi ormai da mesi”.
In questo clima disperato si verifica un episodio quasi sconosciuto, che ancora oggi, a distanza di più di 70 anni, presenta molti aspetti da chiarire. Il 7 aprile 1944 molte persone si ritrovano di fronte al mulino Tesei nel quartiere Portuense per chiedere pane e farina: lì si produceva pane destinato ai militari tedeschi. Le donne dei quartieri limitrofi (Ostiense e Garbatella) avevano scoperto che il forno panificava anche pane bianco e pensavano che probabilmente ci fossero grossi depositi di farina. I cancelli vengono sfondati e riescono ad entrare. Il direttore del forno, forse per paura o forse per pietà , le lascia fare ma i militi fascisti presenti chiedono l’aiuto dei tedeschi che arrivano quando le donne sono ancora sul posto. E bloccano la strada. Molte riescono a scappare. Dieci vengono prese. Afferrate di forza, portate sul ponte e fucilate contro la ringhiera.
Per una di loro c’è il fondato sospetto che sia stata violentata: la trovano separata dalle altre, nuda e piena di lividi. Lo stupro, un atroce classico di tutte le guerre. Cesare De Simone in un libro del 1998 “Donne senza nome” raccoglie la testimonianza del prete – padre Efisio – che ha benedetto 9 salme l’una vicina all’altra. La decima, accasciata un po’ più in là, è una ragazza “molto giovane, bella persino nell’abominio della morte. Era nuda, il corpo pieno di lividi”. I vestiti erano poco distanti e il prete cerca di ricoprirla alla meglio.
A monito della popolazione, i tedeschi ne lasciano i cadaveri sulla spalletta del Ponte di Ferro fino alla mattina dopo, quando alcuni sfasciacarrozze della zona vengono costretti a caricare le povere salme su di un camion. De Simone – 54 anni dopo – parla con uno di loro, Pericle Santini, che ricorda di aver sentito dire ad un ufficiale fascista che sarebbero state seppellite in una fossa comune al cimitero del Verano. Anche lui capisce che una è stata violentata: “l’avevano massacrata, la pelle era tutta un livido. Poi gli avevano sparato in testa, quelle belve”.
Da allora non si è mai saputo altro. Solo i nomi. Chi erano, quanti anni avevano, da dove venivano? Niente. C’è un solo documento che parla di loro, il mattinale della polizia dell’8 aprile ritrovato da De Simone. Dice che “ieri, a motivo di un assalto al forno Tesei… dieci donne, sobillatrici dei disordini, sono state fucilate sul ponte dell’Industria”.
Ultima vittima, nel maggio successivo, una madre di sei figli: Caterina Martinelli, mentre ritornava a casa con la sporta piena di pane dopo l’assalto a un forno nella borgata Tiburtino III, venne falciata da una raffica di mitra dei militari della Pai (la Polizia Africa Italiana che funge da servizio d’ordine per conto del Governo repubblichino). Cade sul marciapiede con una pagnotta nella borsa e una figlia piccola in braccio. L’immagine plastica e tremenda di una madre disperata. Anche questa è lotta per la liberazione.
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