L’arrivo della Thatcher alla guida del Regno Unito nel ’79 e quello di Reagan alla guida degli USA nell’’80 segnarono un cambiamento epocale del modello economico occidentale. La dottrina keynesiana, che guidò il prodigioso sviluppo economico nel secondo dopoguerra, fu contestata nei suoi assunti fondamentali, prendendo a modello gli insegnamenti della dottrina cosiddetta “monetarista”, propugnata dagli economisti della Scuola di Chicago, che guadagnarono la ribalta nel dibattito economico internazionale.
Si trattava in sostanza del recupero, in chiave moderna, dei vecchi insegnamenti liberisti degli economisti cosiddetti neoclassici del secolo precedente, tant’è che la nuova dottrina venne ribattezzata anche come neo-liberista. Punto centrale era il ruolo dello Stato nel modello economico capitalistico: fondamentale, secondo Keynes, per correggere gli squilibri strutturali del mercato, in primis la disoccupazione; assolutamente deleterio perché controproducente, per i monetaristi, secondo cui il mercato, se lasciato a se stesso (Laissez faire), in condizioni di libera concorrenza, è in grado di raggiungere “naturalmente” (Mano invisibile), se non addirittura “scientificamente” (Aspettative razionali degli operatori), gli equilibri di massima efficienza non solo per tutti i suoi attori privati, ma anche per la collettività, svolgendo quindi un ruolo eminentemente pubblico.
E come la dottrina keynesiana partì dal mondo anglo-sassone e conquistò ben presto l’Europa, così avvenne per la dottrina neo-liberista, che è stata il modello di riferimento per la costruzione dell’Unione Europea: dalla privatizzazione di tutte le aziende pubbliche, ai parametri del trattato di Maastricht; dall’impossibilità degli aiuti di Stato alle aziende, alla necessità di legiferare per rendere il mercato il più concorrenziale possibile; dallo statuto della BCE, al più recente Fiscal Compact. Tutto è stato concepito per estromettere in ogni modo l’azione pubblica dai meccanismi (privati) di funzionamento del mercato.
Il punto è che la dottrina neo-liberista ha conquistato in Europa soprattutto le élites del capitalismo tedesco, tanto che sembrava costruita su misura per le sue esigenze: moneta stabile internamente (bassa inflazione) e forte esternamente (per prodotti manifatturieri che competono in gran parte sulla qualità e non sui prezzi), bilancio pubblico poco indebitato e quindi con deficit tendente all’equilibrio, politiche economiche esclusivamente dal lato dell’offerta per rendere più competitive le aziende tedesche sui mercati internazionali.
Una costruzione dell’Unione Europea tutta mirata alle esigenze del capitalismo tedesco ha inevitabilmente portato, da un lato a una posizione sempre più egemonica dell’economia tedesca all’interno dell’Unione Europea, dall’altro a una crescita di potenza – economica e conseguentemente politica – della Germania a livello globale e infine, last but not least, a un surplus strutturale della bilancia commerciale della Germania – e dell’Unione Europea – nei confronti degli USA.
Tre situazioni decisamente invise all’asse Washington-Londra, il quale ovviamente non può tollerare qualsiasi insidia alla sua posizione di dominio globale (sia che venga dalla Cina, sia che venga dall’Europa germano-centrica), vede come fumo agli occhi l’inevitabile scenario di un continente europeo di nuovo asservito alla politica di potenza tedesca e, last but not least, considera sempre più come insostenibile il proprio deficit strutturale della bilancia commerciale verso l’Euro-Germania.
E’ il motivo per il quale la Germania è diventata una issue di politica estera per gli Stati Uniti (seppur di secondo piano rispetto alla Cina) almeno dalla fine del decennio scorso e da allora sono iniziate le politiche americane di contrasto ai suoi progetti egemonici. Tra queste quella più efficace è stata senza dubbio l’operazione Mario Draghi. Economista di altissimo profilo di scuola keynesiana (allievo di Federico Caffè a Roma e di Franco Modigliani al MIT) e molto legato alle élites finanziarie anglo-americane – tanto da occupare la vice-presidenza della prestigiosa Goldman Sachs in Europa – la sua elezione alla presidenza della BCE fu fortemente sponsorizzata – per non dire imposta – dall’asse Washington-Londra.
Il Doctor del MIT non tradì certamente i suoi sponsor, cambiando strutturalmente la visione della BCE sulla politica monetaria e sostanzialmente modificando il ruolo della stessa BCE nell’ambito dell’Unione Europea. Se per statuto essa doveva esclusivamente presiedere alla stabilità interna ed esterna dell’Euro, Mario Draghi concepì per essa anche un ruolo di sostegno all’economia. Seguendo proprio l’esempio della Federal Reserve negli Stati Uniti, dove quel ruolo le è conferito per statuto. Inaugurò una nuova politica monetaria della BCE fortemente espansiva, ufficialmente per raggiungere il target di inflazione del 2% e per chiudere il più possibile gli spread intra-euro, ma nel concreto a sostegno della domanda aggregata: un vero e proprio fendente keynesiano contro le fondamenta monetariste dell’Unione Europea. Il Quantitative Easing, lanciato da Mario Draghi alla BCE – seguendo l’esempio della Fed negli Stati Uniti – non poteva che andare in rotta di collisione con le élites finanziarie tedesche con un continuo braccio di ferro tra il Governatore della BCE da una parte e il Governatore della Bundesbank e il Ministro tedesco delle Finanze dall’altra.
Non solo. Soprattutto nell’ultimo periodo del suo mandato, Mario Draghi ha sollecitato a più riprese i governi europei ad accompagnare la sua politica monetaria espansiva con una parallela politica fiscale espansiva – anche in questo caso seguendo l’esempio del governo federale americano – affinché gli effetti espansivi dell’intervento pubblico sull’inflazione e sulla domanda aggregata fossero più efficaci.
Nel frattempo, nel corso del decennio passato, la contrapposizione tra le due superpotenze, USA-UK da una parte e Cina dall’altra è diventata sempre più competitiva e la Cina ha cercato di prendere sempre maggior terreno all’asse anglo-sassone a livello globale, sia in termini di controllo delle risorse, sia in termini di espansione della sua zona d’influenza. In questo contesto è maturata una convergenza di interessi, non solo economici, ma anche geo-politici, tra la Cina e l’Euro-Germania. Sorprendente è stato all’interno di questa convergenza il percorso dell’Italia con le politiche filo-cinesi dell’area politica di Prodi e, arriviamo ai giorni nostri, con gli accordi dell’attuale governo sulla rete 5G e la cosiddetta “Via della Seta”. Sorprendente perché l’Italia è da sempre un alleato prezioso e fedele dell’asse USA-UK in una zona da sempre strategica come quella del Mar Mediterraneo, ma che lo è ancor di più negli ultimi anni, da quando il Medio Oriente e il Nord Africa sono diventati terreni di scontro tra sfere d’influenza e dove la Cina ha cercato di insidiare gli interessi vitali dell’asse USA-UK.
E arriviamo all’attualità di queste giornate convulse.
Nel momento in cui la diffusione pandemica del Covid-19 ha generato una crisi di coesione assolutamente senza precedenti nell’Europa germano-centrica e allo stesso tempo un altro passetto di allontanamento dell’Italia dalle sponde atlantiche, anche per via dei tanto propagandati aiuti sanitari cinesi e cubani… ecco che arriva il “bazooka” americano!
Per dare il colpo di grazia alla prima e per riprendersi la seconda.
Dalle pagine del britannico Financial Times, Mario Draghi, il “cavallo di Troia” degli americani in Europa, dall’alto della sua indiscussa autorevolezza del “whatever it takes… and believe me, il will be enough!” lancia la bomba della necessità impellente di una gigantesca politica fiscale europea per far fronte alla catastrofe economica generata dal Covid-19! “E’ chiaro che la risposta deve coinvolgere un rilevante incremento del debito pubblico”, “Le consistenti perdite del settore privato devono essere assorbite dal bilancio pubblico”, tra i passaggi più indicativi: è il “whatever it takes” lanciato sul debito pubblico per la salvezza del settore privato. La totale sconfessione delle teorie monetariste che da almeno un trentennio dominano incontrastate sulla scena europea.
L’America spara il suo “siluro keynesiano” contro le fondamenta neo-liberiste dell’Europa germanizzata e allo stesso tempo sembra dire all’Italia: “la sbornia asiatica (e tedesca) è finita, è ora di tornare a casa!”
Dalle “cancellerie” di Berlino (Merkel), di Francoforte (Bundesbank) e di Bruxelles (Von der Leyen), i guardiani del rigore monetarista tedesco non proferiscono parola. Il governo italiano, sentendosi protetto alle spalle, chiede a brutto muso gli Eurobond affermando con toni inconsueti: “Altrimenti faremo da soli!”. Macron dichiara di aver letto con interesse la proposta di Mario Draghi, di condividerla e appoggia ufficialmente la richiesta italiana eterodossa degli Eurobond, apponendo la sua firma vicina a quella di Conte, in un’inedita rottura dell’asse franco-tedesco.
Proprio il caso di dire “due piccioni con una fava” per gli strateghi della politica estera americana: colpo quasi mortale all’Europa monetarista germano-centrica e rinnovato consolidamento della posizione strategica italiana nel cuore del Mediterraneo a danno delle mire espansionistiche cinesi… chapeau!
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