Si erano preparati gli uccelli, e non solo loro, ma soprattutto loro, a rivivere una nuova bella stagione di cieli limpidi e aria respirabile come quella che li aveva condotti a frotte nei cieli di Napoli. Era da poco cominciata la primavera e sembrava che, come in decenni ormai passati, potessero fermarsi da queste parti nelle annuali migrazioni.
Le rondini cercavano i sottotetti dove avevano lasciato nidi da ripopolare. Ma, si sa, una rondine non fa primavera, e così è stato per molto tempo. I cieli primaverili non avevano più le caratteristiche di una volta. Sino ai passati marzo e aprile quando, in sovrumani silenzi e profondissima quiete, le cose sono di nuovo cambiate: quasi nessuno per le strade e, soprattutto niente più automobili che scaricassero porcherie in cielo.
Il tutto a causa di una epidemia, progressivamente diventata pandemia, pare provocata da uno di loro – i pipistrelli – e dalla umana (forse inumana) abitudine di mangiarli crudi. E di una pandemia che, limitati i movimenti degli umani, ha ridato agli ambienti le loro originarie caratteristiche di vivibilità: per aria e acqua, soprattutto.
Bene gli uccelli si son detti, (cinguettati, forse devo dire più correttamente), se le cose stanno così a Napoli ci rifermeremo di nuovo. Infatti le cose stavano proprio così. Cioè nelle condizioni che avevano costretto a bloccare la mobilità (e non solo) nella città e in molti dei dintorni. Di conseguenza gli uccelli, e non solo loro, si aspettavano nuovi blocchi della mobilità (e non solo) e tranquille giornate in cielo e in riva al mare.
Già, proprio in riva al mare. Perché è qui, lungo la famosa via Caracciolo, che si sono affollati sugli scogli e dovunque potessero ancora posare le stanche membra, non solo i soliti gabbiani, anche un po’ prepotenti, che la fanno da padrone in città (specialmente quando e dove hanno rifiuti tra i quali “pescare” il loro occorrente). Non solo i gabbiani, dicevo, ma pettirossi, codirossi, luì piccoli, ballerine…
Il problema è che guardandosi intorno, questi uccelli, si sono accorti che la situazione non era come se l’aspettavano. Sapevano, cioè, che dopo l’uscita dal confinamento la popolazione aveva ripreso a inquinare aria, acqua e suolo. Ma sapevano anche che la pandemia aveva ricominciato a contagiare le persone pure in questa città e nella sua regione. Quindi immaginavano che, come era accaduto nella prima fase, le autorità avrebbero bloccato di nuovo le attività in tutta Italia e loro sarebbero tornati ad appropriarsi della loro aria.
È su questo che speravano nella loro sosta sul mare di Napoli.
Ma non è successo niente di tutto questo. A Napoli e dintorni le chiusure sono state più permissive; le speranze sono andate deluse e gli uccelli se ne stanno preoccupati a guardare. Confidando, però, sulla voce che si era sparsa tra loro. Cioè che un umano che governa questo territorio riuscisse a insistere tanto da far richiudere tutto di nuovo anche a Napoli e nella sua regione.
Anche i pesci, che, però, non parlano, avevano alimentato la speranza di rivivere in un mare più e meglio salato, ma anche qui c’è stata delusione. Perché le cose non sono cambiate. Soprattutto in un tratto del golfo di Napoli tra Torre Annunziata e Castellammare di Stabia, dove arriva l’acqua che chiamano dolce, ma in realtà è molto amara, di un piccolo fiume che si chiama Sarno. Anche lui aveva vissuto una stagione serena in quei mesi passati. Ma è bastato un giorno di riapertura di case e attività umane, il 5 maggio, per far tornare tutto come prima: inquinato e maleodorante.
Perciò il Sarno aveva capito come vanno le cose e ha continuato a trasportare veleni e porcherie varie lungo il suo breve corso e a sversali nel golfo. La preoccupazione maggiore deriva dai livelli dell’Escherichia Coli, che, come dicono i magistrati inquirenti «si tratta di uno degli elementi di pressione ambientale, caratteristico della contaminazione fecale, proveniente dagli scarichi igienici delle abitazioni e degli opifici industriali». Probabilmente, molto probabilmente, per la mancanza o inattività delle reti fognarie.
Niente di meno? – si chiedono i pesci – ma il Sarno è inquinato da decenni e se ne accorgono solo ora che gli esseri umani sversano in mare le loro personali porcherie? E, così ragionando, se ne sono andati in altri lidi, lontani dalla foce del fiume dove pure avevano sguazzato felici per un paio di mesi.
Mentre scrivo, le quotidiane notizie sul numero di contagiati in Campania come nel resto d’Italia riferiscono di un loro continuo aumento. Tanto che se la tendenza continuasse con queste modalità non sarebbe da escludere un più rigoroso blocco delle attività umane. Dovunque e per tutto il tempo necessario a registrare un calo dei contagiati e delle vittime.
Questa è la speranza di uccelli e pesci.
La nostra, di esseri umani, è che la pandemia finisca, come è avvenuto per tutte le pandemie della storia. Ma non può bastare per risanarci se non riusciamo a spiegare a uccelli, pesci, piante, frutta e verdura, con i fatti e non con parole che non capirebbero, che teniamo molto alla pacifica (e salutare) convivenza con loro.
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