Le urne accoglieranno al voto quasi 150 milioni di elettori che si sono, a volte con serie difficoltà, registrate per scegliere il presidente (familiarmente indicato come POTUS); 35 senatori (che resteranno in carica sei anni); i rappresentanti di 86 delle 99 camere legislative- Senato e Camera dei rappresentanti- dei singoli Stati che costituiscono l’Unione; 11 Governatori.
Oltre 95 milioni di elettori registrati hanno già votato tramite il voto postale o l’early voting, un sistema che consente il voto anticipato, espresso personalmente in un seggio diverso dal proprio, subito inserito nel sistema ma tabulato nell’Election Day.
La chiusura dei seggi avverrà a seconda dei vari e differenti fusi orari.
Si vota sempre il martedì, quindi la data novembrina è mobile, perché così fu deciso dal Congresso nel 1848 per uniformare il giorno fra tutti gli Stati membri che a partire dal 1788 l’avevano invece scelta individualmente senza sincronizzarsi con gli altri membri della Confederazione.
Il voto scelto per il martedì fu dovuto alla volontà di adeguarsi allo “spirito” della Costituzione americana che stabilì i valori e le libertà, individuali e collettive, posti alla base di una Repubblica non di una democrazia, termine ben conosciuto ma mai espresso nella Carta.
I padri fondatori, i framers (ed i loro successori), nella totale segretezza che circondò i loro lavori nell’estate del 1787 si richiamarono piuttosto che alla ellenica demokratía, che aveva il torto di ricordare un governo pericolosamente diretto da uno sconosciuto e incompetente “popolo”, alla mitica civiltà romana e preferirono che gli Stati confederati fossero guidati da illuminati rappresentanti delle élites che amministrassero temporaneamente il potere senza lasciarsi guidare da comprensibili quanto deprecate passioni. La politica appannaggio di un censo elettorale passivo ed attivo fu il primo scrupolo dei framers; ecco perché sin da subito il presidente doveva essere indicato da un collegio elettorale, sostanzialmente anonimo, inserendo un diaframma tra la umoralità delle masse e il razionale perseguimento del pubblico interesse.
Ha riportato Dario Fabbri, un attento ed originale studioso della geopolitica statunitense (1), che il delegato per il Maryland alla Convenzione di Philadelphia, James McHenry scrisse nei suoi appunti che “al termine dell’assemblea la signora Powel, che fuori dalla Independence Hall attendeva notizie, si rivolse a Benjamin Franklin per sapere quale forma costituzionale avrebbero assunto gli Stati Uniti d’America. «Dottore, che cosa avremo allora? Una repubblica o una monarchia?» chiese con trepidazione. Voltatosi di scatto, Franklin la fulminò con una risposta smaccatamente paternalistica: «Avremo una repubblica, signora, se sarete in grado di mantenerla».
I framers erano persuasi che fosse possibile evitare le violenze che sconvolgevano l’Europa ed allontanare lo spettro della dittatura che identificavano nel monarca britannico Giorgio III, Re di Hannover, di Gran Bretagna ed Irlanda (2), una figura peraltro complessa, caleidoscopica, non facilmente etichettabile.
Il voto il martedì fu espressamente studiato per allontanare i lavoratori dalle urne, favorendo l’influenza economica di oligarchie capaci di imporre candidature facilmente dipendenti dai loro sostenitori.
A duecentotrent’anni e passa dalla Convenzione è evidente il disallineamento tra il disegno istituzionale dei fondatori, che è rimasto, e quello dei valori alla base dell’eccezionalismo statunitense, ed è questa la ragione profonda della crisi interna, che si riflette sullo stato del mondo ma che non sembra al momento incrinare il suo status di prima potenza planetaria.
I fondatori non previdero, né avrebbero potuto leggere il futuro all’interno del vaso che contiene l’inarrestabile evoluzione del dono sapienzale dell’uomo. Così se il vero perno del potere è il Congresso, il topos utopico dove si amalgamano in sintesi gli interessi degli Stati e delle imprese, degli oligarchi e dei cittadini, il Presidente si è collocato al centro del sistema politico federale attribuendosi de facto poteri non previsti dalla Costituzione, soprattutto per la necessità- nel mondo cangiante- di semplificare non soltanto i meccanismi della amministrazione ma anche quelli derivanti dal continuo stato di belligeranza che ha vissuto nei secoli la nazione.
Il paradigma indiscusso del Commander in chief, che impone la sua agenda alle Forze armate, sul fronte interno e con esclusiva competenza negli affari esteri è una straordinaria leggenda sul piano dottrinale ed assai equivocamente accettata nella prassi.
Non si contano i casi nei quali il Congresso ha bocciato le iniziative presidenziali, rivolgendosi anche direttamente a stati esteri diffidandoli dal dare ascolto alla Casa Bianca, fra tutte ha fatto testo la lettera inviata da 47 senatori all’ayatollah Khamenei per diffidarlo dal dare ascolto al presidente Obama, e sempre durante la presidenza di questi la decisione dello speaker della Camera John Boehner di dare la parola al Congresso al primo ministro israeliano Netanyahu, che si espresse contro l’Amministrazione. Senza contare i poteri ispettivi e di conferma delle nomine negli incarichi pubblici, il Congresso ha dalla sua l’arma potentissima di decidere la spesa.
Nel corso dell’ultimo secolo soltanto due presidenti sono sfuggiti alla tagliola del bilanciamento dei poteri: Lyndon B. Johnson e Ronald Reagan. Il primo impose la costruzione della Grande società per aiutare le classi meno abbienti e più emarginate, difendere le rivendicazioni del movimento per i diritti civili degli afro-americani, aumentare la spesa pubblica a favore dell’istruzione pubblica, agevolare lo sviluppo urbano e rurale ampliando la rete dei servizi di pubblica utilità. Questa guerra contro la povertà gli fu permessa perché il partito democratico, anche a seguito della tragedia nazionale provocata dall’assassinio di John F. Kennedy, conquistò una maggioranza superiore al 60% al Congresso.
Ronald Reagan impose la sua politica economica (supply-side o anche Reaganomics) tagliando il 25% dell’imposta sul reddito, riducendo i tassi di interesse, aumentando le spese militari ed assieme a queste il deficit ed il debito, ma è ricordato anche per la “Guerra all’impero del Male” (il comunismo) grazie alla nuova Strategic defense initiative, più conosciuta come Guerre stellari, che in verità non si realizzò mai ma aprì le porte alla grande innovazione tecnologica che ha modificato la vita del pianeta e disegnato la nuova globalizzazione dei mercati.
Ronald Reagan non godette della grande maggioranza congressuale ma di un costante consenso popolare superiore al 70%. È questa la seconda possibilità di un presidente per superare indenne l’imposizione costituzionale del partenariato governativo col Congresso. Fuori da queste due strade l’azione di tutti i presidenti, anche quelli eletti per due mandati consecutivi, è stata necessariamente intrecciata ai compromessi richiesti dal Congresso. Il che apre alla penultima considerazione generale.
La vulgata ha imposto in una sorta di effetto cinematografico una perenne cospirazione lobbistica bloccata da coraggiose denunce della stampa o da singoli cittadini partecipanti ad organizzazioni no-profit dedite al bene universale, o anche a qualche, raro, esponente parlamentare. In Europa, particolarmente in Italia si è poi diffusa l’idea che il controllo sulle lobby sia particolarmente efficace per le leggi che regolamentano il sistema: dall’obbligo di essere iscritti ad un particolare registro alla trasparente dichiarazione dei versamenti “solidali” alle casse dei partiti, degli eletti, dei candidati.
In realtà le leggi sono tranquillamente disattese perché la mancata osservanza alla pubblica iscrizione nell’elenco professionale è punita con una blanda sanzione amministrativa, e per quanto riguarda il sostegno economico esso è aggirato grazie a codicilli vari che ne annullano l’efficacia.
Qualcosa sul tema potrebbe dirla Obama che raccolse addirittura un miliardo di dollari per la sua campagna elettorale e che difficilmente potrebbe dichiarare di non essere stato grato ai suoi sostenitori.
Attualmente a Washington vivono e prosperano oltre 120.000 lobbisti, essendone dichiarati poco più di 12.000!
Ed il bello, si fa per dire, che senza i lobbisti le Camere si fermerebbero perché sono gli unici in grado di organizzare papers, analisi, testi legislativi. Essi non agiscono individualmente, fanno parte di vere e proprie imprese, guidate da ex parlamentari, ex membri dell’Amministrazione politica, ex alti ufficiali delle Forze armate, ex membri del gabinetto presidenziale (a proposito il vero capo dell’esecutivo è il responsabile della “macchina” presidenziale, il capo di gabinetto del presidente, un uomo normalmente sconosciuto ai più). Questi super esperti, che chiamano a collaborare con loro di volta in volta interi think tank o singole personalità accademiche, sono al servizio delle grandi imprese e del sistema finanziario, in fin dei conti quella oligarchia, scevra da passioni, voluta dalla Costituzione.
Una oligarchia che si scontra con un’altra oligarchia che viene sinteticamente descritta come deep state, lo stato profondo, che in verità non è un governo segreto, criptocratico della nazione, una specie di governo invisibile (shadow government). Piuttosto che uno Stato dentro lo Stato, un imperium in imperio, il deep state è più semplicemente la sintesi dell’amalgama imposta costituzionalmente dagli attori chiamati a far rispettare i checks an balances, si tratti della Federal Reserve, piuttosto che della FBI, delle Forze armateche delle Poste, della CIA e dei diplomatici del Dipartimento di Stato ed altro ancora. Strutture chiamate a dare fisionomia e concretezza alle indicazioni che Congresso e Presidenza inviano, indicazioni alle quali sovente non mancano suggerimenti migliorativi o come accade critici (la vicenda che coinvolge sulla epidemia Covid Antony Fauci, da oltre tre decenni direttore dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive, e la Casa Bianca, ne è plastica descrizione).
Non sarebbe completa una analisi del voto se non ci ponessimo, sempre nell’ambito della carta Costituzionale americana, il significato del peso, voluto, prima dei framers e poi, alla fine della guerra civile americana, secondo la definizione nota negli Stati Uniti, del voto ponderato dei piccoli stati che risulta superiore a quello dei grandi stati per la designazione dei grandi elettori. Il voto premia soprattutto quello degli stati che soltanto negli anni 50 dello scorso secolo trovarono una ufficiale definizione in Mid West.
Gli storici che indagano sulle origini della guerra civile, non casualmente definita guerra di secessione in Europa, non concordano oramai sul fatto che questa fu causata dall’eclatante conflitto ideologico provocato dallo schiavismo, che invece viene considerato come catalizzatore della dichiarazione di secessione- spinta dalla inusitata richiesta avanzata dal nazionalismo bianco meridionale (“White Southerners”) di un “diritto” alla esportazione della schiavitù; allo stesso tempo non si attribuisce più agli Stati del nord il rifiuto della pratica schiavista per la preservazione dell’unità nazionale all’ombra dei principi costituzionali.(3)
Fu Henry Wilson, vice presidente di Ulysses Grant (4) a dare il via alla interpretazione etica della guerra combattuta per preservare l’unità nazionale contro la violenza del potere negriero.
Il revisionismo storiografico guidato da James Garfield Randall e da Avery Craven (5) sostenne che le condizioni di vita dei lavoratori schiavi non erano significativamente peggiori di quelle della forza lavoro e della manodopora salariata del Nord e che lo schiavismo si avviava naturalmente sulla strada della estinzione e, come insisté lo storico italiano Raimondo Luraghi, si trattò dello scontro tra due nazioni separate nettamente da una storia culturale e da uno stile di vita tipico di due nazioni distinte. Oggi la moderna storiografia attribuisce alla crisi economica del 1857 la ragione aggiuntiva della guerra civile, tra il Nord che in piena rivoluzione industriale rivendicava politiche protezioniste all’interno del mercato unico confederale e la politica liberale e scambista degli stati agricoli del Sud, permeati da usi e costumi decisamente più “britannici” di quelli di altri Stati, già chiamati al confronto con forti movimenti migratori.
Gli stati intermedi, in alcuni casi i territori non ancora Stati, tra il sud ed il nord, divennero fondamentali nella guerra e nel post guerra.
Quando il governatorato della Carolina del Nord nel dicembre del 1860 dichiarò la propria separazione dalla Confederazione, la maggioranza del paese, di origine tedesca, naturalmente maggioranza anche delle forze armate di quello stato, si rifiutarono di accettare la decisione del potere politico e dichiararono fedeltà all’Unione. Al comando del maggiore Robert Anderson, un ufficiale ex schiavista proveniente dal Kentucky, furono svuotate le armerie e fu preso il controllo di Fort Sumter, all’ingresso della baia di Charleston controllando ingressi ed uscite marittime. (6)
È da allora che tra i grandi laghi e le pianure occidentali, tra i monti Appalachi e la valle del Mississippi si sviluppò il cuore della potenza che nacque sognando la realizzazione del mito della città sulla collina, caratteristica dell’eccezionalismo missionario dell’espansionismo americano. Qui si affermò un modello culturale dominante che superò l’individualismo neo inglese e attorno ad una maggioranza etnica di origine tedesca seppe amalgamare una prima etnia nazionale, stanziale e non in eterno movimento, aggregante di altre etnie che rimasero minoritarie. Il compromesso sul sistema elettorale raggiunto nel 1868 con il XII, XIII e XIV emendamento, che fissò nuovi numeri per organizzare la Camera dei Rappresentanti e il collegio dei grandi elettori, premiò il Midwest, anche per la costituzionalizzazione del voto dei così detti tre quinti, ovvero il calcolo dei voti degli afro americani il cui numero era calcolato con un peso di tre quinti sul numero dei dichiarati, rimanendo chiaro che non avevano diritto ad esercitare il voto.
Non è qui il momento di parlare della affascinante storia della “Germania in America”, che ancora oggi rappresenta con i suoi cento milioni di appartenenti la più prospera comunità etnica della nazione americana. A questo proposito molto si è speso il già citato Diego Fabbri e la rivista Limes. (7)
Capito come l’Ohio sia divenuto lo stato simbolo del voto americano, normalmente chi perde nell’Ohio perde nel paese, resta ora da capire cosa accadrà dopo le prossime elezioni.
Per l’Europa la presidenza Trump ha significato malmostosa tempesta, perché Trump non si è “limitato” a gestire, come i suoi predecessori (garbatamente ipocriti) gli interessi americani, ma perché non ha esitato ad ammiccare a forze politiche palesemente illiberali ed a paesi membri dell’Unione apertamente “devianti” dal progetto europeo.
“Potus” non ha risparmiato sbeffeggiamenti ai principali leader europei, come ben ha potuto provare la cancelliera Merkel, mostrando freddezza nei confronti della Nato ed accondiscendenza alla Turchia ed alla Russia.
In realtà Trump ha dimostrato di non essere classificabile. Se rieletto potrebbe picconare ulteriormente la UE, premere sull’acceleratore dell’isolazionismo, sul protezionismo; però potrebbe fare esattamente il contrario e dedicare all’Europa lo stesso sistema di “deal” post ricatto che ha riservato al Nord Corea, come alla Cina.
Con Biden probabilmente perderebbe vigore il tentativo dichiarato di indebolire Berlino in primis e dopo Bruxelles con tutte le conseguenze del caso. Probabilmente si aprirebbero spiragli interessanti sull’Iran, la Nato e diminuirebbero le divergenze sul clima. Cambierebbe lo stile ed il multilateralismo tanto sbeffeggiato riprenderebbe fiato. Ma difficilmente si modificherà il concetto alla base di una super potenza in crisi interna ma saldissima al potere: America first e China, assieme a tutti gli altri pretendenti, second; anche il neo protezionismo potrebbe, come già ai tempi di Obama, restare in vigore.
Forse si penserà a ri-costituire una coalizione delle grandi democrazie del mondo ma è probabile, come già accaduto con Clinton ed Obama, che Biden, gentilmente, si guarderà bene dal sostenere l’interesse europeo e specificatamente italiano e francese nel Mediterraneo.
Queste elezioni provocheranno invece negli Usa ed a cascata nel mondo una nuova identità per gli States, diversa se vincerà l’originalismo (costituzionale) secondo la interpretazione del radicalismo repubblicana interpretata dal nazionalismo di Trump o il riaggiustamento, reso obbligatorio dalla trasformazione degli insediamenti etnici negli USA, delle regole che per oltre due secoli hanno retto il sistema. (8)
Trump ha dimostrato che quello che non è scritto (il comportamento politicamente corretto) non esiste, e che quello che è scritto, se non determina sanzioni, può essere sbeffeggiato. Preannunciando che assieme ai suoi avvocati già si appresta a contestare una eventuale sconfitta non supportata da grandi numeri per la vittoria del suo avversario, ha preannunciato che tempi nuovi dovranno essere vissuti dalla Repubblica che si volle liberale e non democratica. E tutto il mondo guarda con attenzione al nuovo “autoritarismo democratico” che potrebbe nascere. In un mondo in cui già adesso la maggior parte dei paesi non sa cosa sia la democrazia rappresentativa.
Da domani e per undici settimane saremo col fiato sospeso e torneremo a parlare della Casa Bianca.
Di seguito l’intervista all’autore dell’articolo Giuseppe Scanni – da “Nuovo Giornale Nazionale” (NdR)
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