L’Emblema della Repubblica Italiana è caratterizzato da tre elementi:
Che cosa, se non lo stesso emblema della Repubblica, rappresenta il punto più alto, più sintetico e più efficace della comunicazione istituzionale?
Dal 5 maggio 1948, quando con decreto legislativo firmato da Enrico De Nicola veniva assunto l’attuale complesso emblema, tutti gli italiani sanno che, accanto al tricolore, c’è un segno grafico che li unisce indistintamente. Certo, un segno né essenziale né moderno.
Una stella, una ruota dentata, un ramo di quercia, un ramo di ulivo e un nastro con incise le parole Repubblica Italiana. Un segno di pace, di lavoro, di cammino illuminato verso il futuro e di legittime ambizioni alla concordia e al progresso. Con l’aperta dichiarazione dell’identità costituzionale stessa dello Stato.
Quando fu creato, questo emblema (che, come è noto, poi dà vita a sigilli e a simboli attraverso cui esso viene utilizzato) dovette fare i conti con il clima un po’ concitato degli avvenimenti che precedettero l’avvento della Repubblica. E dovette altresì fare i conti con la cultura simbolica del tempo e con la necessità di esprimere – a livello grafico – un fattore di novità e contemporaneamente un fattore di tradizione. La fine delle ostilità, la Costituzione scritta per tutti gli italiani, il programma di ricostruzione, questo richiedevano.
Non fu un atto arbitrario. Non fu un ufficio tecnico dello Stato a predisporre un elaborato ordinato dal Governo. Fu bandito un concorso, parteciparono 341 candidati che produssero quasi 637 elaborati che costituiscono oggi una straordinaria testimonianza non solo della cultura grafica del tempo ma anche di una molteplice interpretazione – sia pure nella concisione sintetica di pochissimi centimetri quadrati – del rapporto tra ideali, attese e speranze di una società mutata. E che stava per affrontare ancora più grandi mutamenti.
Vinse, in quel tempo, un professore di Torre Pellice, di cultura e religione valdese, nato il 12 febbraio 1885, docente per 40 anni in un liceo artistico di Roma, morto nel 1963: il professor Paolo Paschetto.
Secondo alcune testimonianze, a selezione ultimata e a progetto scelto, si ritenne di riaprire ancora per qualche tempo il concorso. Altre cento idee affluirono a Roma e a conclusione di questa seconda selezione la proposta “a più codici” del professor Paschetto si confermò vincitrice”.
Il primo bozzetto vincitore del concorso rispondeva ad una tematizzazione precisa imposta dalla Commissione: “Una cinta turrita che abbia forma di corona”, circondata da una ghirlanda di fronde della flora italiana. In basso, la rappresentazione del mare, in alto, la stella d’Italia d’oro; infine, le parole UNITÀ e LIBERTÀ”.
Una volta risultato vincente il bozzetto (che già in quella fase incontrava commenti ironici e il soprannome di “tinozza”) ci si orientò al secondo lancio del concorso di idee (con bando radiofonico) che con altri sviluppi grafici portò nuovamente Paolo Paschetto a prevalere ma con altra elaborazione.
Il bozzetto, con ritocchi apportati in Assemblea Costituente e con qualche contrasto, venne poi definitivamente approvato. Per 40 anni a nessuno venne in mente di procedere a revisioni, variazioni o modernizzazioni dell’emblema.
L’idea di un nuovo simbolo visuale maturò al Quirinale, quando era Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nell’ambito delle iniziative previste per la celebrazione del 40° anniversario della Repubblica.
Fu elaborato un concorso di idee per chiedere – in modo non indiscriminato – al Paese di fare proposte grafiche rappresentative della cultura interpretativa del nostro tempo.
Per queste ragioni il presidente del Consiglio dei Ministri incaricò una commissione di esperti a costituirsi in organo giudicante. Da una parte esponenti della creatività, dall’altra esponenti dell’Amministrazione.
Sotto la presidenza di Giuliano Amato (allora sottosegretario di Stato alla Presidenza), infatti, si riunirono su questo argomento alcuni grandi artisti italiani (come Aligi Sassu ed Emilio Greco), alcuni talenti della grafica e della pubblicità (come Bruno Munari e Armando Testa), esponenti dell’architettura (come Paolo Portoghesi) o della ricerca semiologica (come Umberto Eco).
Insieme a loro, i rappresentanti delle principali istituzioni dello Stato. Si trattava di compiere un approfondimento sull’identità del soggetto da rappresentare. E poi di compiere una valutazione dell’obiettivo fondamentale che un simbolo comunque costituisce: quello di associare alla qualità estetica l’immagine migliore del soggetto rappresentato. “L’Italia allo specchio”, insomma. Al tempo si parlò di “una buona occasione per riesaminare, in forma né retorica né paludata, la voglia del Paese di rappresentarsi modernamente ed efficacemente”.
Arrivarono 200 elaborati di gruppi professionali (che per rendere le cose difficili contenevano anche l’araldica). Poi – scartato ed esposto tutto ciò che Umberto Eco chiamava “la cultura simbolica vagante del Paese” – ci si rese conto che quella cultura vagava poco e vagava soprattutto nel riproporre simboli antichi, già visti e rivisti per lo più nella grafica storica dei nostri comuni: torri, torrioni, castelli, un po’ di aquile, alberi, alberelli e qualche astro.
Chi qui scrive prese il carico di quell’inventario “critico” che portò la commissione a non produrre un vincitore, a esporre comunque all’Archivio dello Stato tutte le realizzazioni (con un certo interesse di indagine) e a chiudere così, un po’ mestamente, l’unico (fallito) tentativo di modernizzazione fatto su quell’emblema.
L’emblema è dunque un “segno dei tempi” che ha aperto interrogativi sulla tenuta grafica e simbolica. Tenuta che è stata oggetto anche di discussioni circa l’inno nazionale. L’identità “costituzionale” – che appartiene, nelle sue discontinuità, alla Repubblica – può sostenere anche un’estetica che ha i tempi, appunto, della Repubblica. Quanto ai simboli, la discussione verte sulla pertinenza di ciascuno dei simboli compresi nell’emblema nel patrimonio identitario collettivo contemporaneo. Tolta la “stella” che è un archetipo di luminosità senza tempo, non ponendosi un problema rilevante circa i simboli arborei che hanno continuità anche ambientale, resterebbe in discussione (in questo terzo millennio) solo la ruota dentata.
La domanda è se passerebbe un ipotetico referendum la proposta di sostituirla con un computer o con un telefonino. E la risposta è che, se così fosse, cascherebbe l’intero impianto contestuale. Argomento affrontato con esito negativo nell’esperimento del 1986. Come nel caso delle parole in latino nella liturgia della Chiesa, allo stato parrebbe ancora prevalere l’inerzialità simbolica, anche se magari poco compresa.
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