Riceviamo e pubblichiamo: a cura di Università IULM
Osservatorio su comunicazione pubblica, public branding e trasformazione digitale
Direttore scientifico: prof. Stefano Rolando (comunicazione.pubblica@iulm.it)
Comunicazione e situazione di crisi
“Quanto appaiono lontani i giorni in cui cantare dai balconi ci tirava su il morale? O l’applauso del personale sanitario che, simile agli omaggi alle truppe, è invece un gesto vitale di gratitudine e sostegno a chi cura? Che cos’altro possiamo fare in quest’attesa demoralizzante?”. Inizia così l’editoriale di questa mattina del settimanale L’Espresso, a firma di Helena Janeczek, che ha lo scopo di sostenere che il morale e la morale sono le due facce della stessa medaglia.
Il tema è quello della richiesta di rinunciare alla libertà individuale che viene da sistemi “democratici”. E’ il tema, per i civili, della differenza sostanziale delle condizioni di guerra: là astanti passivi di una carneficina; qui atomi vivi, parte del contributo collettivo a fermare il contagio. Questo “essere parte” ritorna nei commenti, nelle opinioni, nelle letture che ci circondano. E che, appunto, costituiscono – oggi Domenica delle Palme – il ramo d’ulivo virtuale che riusciamo se vogliamo a portare a casa con scopi simbolici non secondari.
Con la durezza del contesto che ispira le sue parole, ce lo dice Mario Vargas Llosa nella citazione del giorno (segnalata da Alberto Mingardi, che l’ha tradotta). E nella giornata di oggi, domenica 5 aprile, dedicata a un rito condiviso dai cattolici, dagli ortodossi, da alcune chiese protestanti e che lega la tradizione ebraica di Sukkot (il pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme, portando un mazzetto intrecciato di palme, mirto e salice) c’è qualcosa di corale, come fosse un vento di interpretazione della vita che comincia a farsi largo nel vissuto di miliardi di esseri umani in questi giorni.
Introducendo il Domenicale (con trenta contributi in versione integrale, largamente provenienti dalla rete”) il sociologo Nadio Delai legge questi sentimenti che stanno condensando, nello svolgimento della crisi, la fine del “ciclo dell’Io”.
In questa coralità il pluralismo dei media attutisce una certa inevitabile retorica. Restituisce problemi insoluti, le disuguaglianze, i destini diversi nei punti di partenza. Insomma la crisi non profila solo il duello “salute/economia”, che resta una parte importante del dibattito. Fa emergere anche – sia sul fronte della salute, che su quello della crisi economico-occupazionale – il terzo soggetto parlante (anche quando non è parlante), quello della società. Il “noi” che emerge lì non è solo una bella favola. E’ anche un groviglio di temi da affrontare. Ma in esso conta molto il patrimonio simbolico accumulato. In questo periodo chi ragiona con i simboli ne fa ricorso. Anche qui la “comunicazione” aiuta a interpretare e quando può a spiegare (per ricordarci quanto manchi, nell’aggiornamento della cultura professionale della comunicazione, la presenza di Umberto Eco).
Macinando centinaia di articoli tutti i giorni, passando in rete i motori di ricerca sulle parole chiave di questa crisi e ascoltando un po’ di rete interpersonale, che non si limita a ondeggiare tra l’onda crescente dei dati sanitari e i termini sfuggenti della fine di un questo percorso di guerra, si è in grado di presentare alla benevolenza di chi ci legge una sorta di piccolo inventario di domande che vengono finalmente poste da chi sui giornali e in tv riprende in questi giorni la parola (come questa rassegna con modestia documenta) per riconoscere il buono che emerge nella crisi e per sperare che esso si consolidi.
Sociologia spicciola, si dirà. Demoscopia vendemmiante. Sì, ma esistono già in campo attrezzati istituti di indagine (qui sempre citati, oggi quello di YouGov in nove paesi su percezione e conseguenze della pandemia) per cogliere una maggiore verosimiglianza statistica.
Da questi sondaggi sappiamo che il punto di partenza per rianimare l’opinione pubblica è duro: la paura è ancora più forte della fiducia (32 a 15) e che l’incertezza batte ancora la speranza (52 a 38). Tuttavia da qualche giorno è apparsa una parola, forse ancora ambigua, che connota dati che salgono, ma che salgono meno. La parola è “rallentamento”. Ciò rianima il filone mediatico della crisi economica rispetto al filone mediatico della crisi sanitaria. E riduce il senso di colpa (supposto che il mondo dell’informazione da noi collochi il “senso di colpa” nella scatola degli attrezzi), dato l’evidente incalzare della paura del conto da pagare. E questo leggero moto di legittimità, mette anche in movimento uno spirito interrogativo che il giornalismo è abituato a percepire, cercando risposte per aiutare qui dati a migliorare. E’ da dove viene una certa inaspettata spinta?
Hanno ragione Alberto Mantovani, Romano Prodi e Massimo Recalcati (tutti e tre a Piazzapulita, intervistati da Corrado Formigli ieri sera sulla 7) a dire cose che si connettono tra di loro. Il primo (immunologo e direttore scientifico di Humanitas) per farci riconoscere nella cooperazione scientifica internazionale la presenza dell’Italia migliore che può tenere aperta la sfida di fondo per la salute. Il secondo (già presidente UE) per dire che la domanda di Europa adesso torna come una riposta, che non era così chiara alle recenti elezioni europee, attorno alle finalità ultime – che la crisi mette in evidenza – anche qui di un fronte possibile di salvezza. E il terzo (docente milanese, nostro collega) a dire che la lezione del lutto di tanti obbligati a casa non è perdita della libertà perché è sollecitazione di energie sopite in ordine allo spazio di solidarietà, migliorabilità, curabilità, sostenibilità.
Insomma una lezione che pone domande decisive per il “dopo”. Un esempio di temi propositivi che si intercettano vedendo come le interviste di competenti – tutti che parlano con il meraviglioso sfondo delle librerie e non dai fondali di un dancing – stiano cogliendo già (pur col bilancio dei morti che sale) una sorta di bicchiere mezzo pieno.
È il momento in cui, alle tendenze attuali, sull’intero territorio italiano potrebbero azzerarsi le nuove diagnosi di contagio da Covid-19. Si dovrebbe arrivare a quel momento – sulla base dei dati disponibili – fra il 5 e il 16 maggio. Ma alcune regioni, Veneto e Piemonte inclusi, possono raggiungere il risultato già nella prima metà di aprile e in ogni caso quasi tutte entro il mese prossimo. L’Einaudi Institute for Economics and Finance (Eief), un centro di ricerca universitaria di Roma sostenuto dalla Banca d’Italia ma del tutto indipendente, avvia in questi giorni un lavoro di ricerca che mancava. E che interessa moltissimo l’intero Paese tanto quanto il resto del mondo. L’intento è formulare le prime proiezioni attendibili sulla data alla quale l’Italia arriverà alla frontiera di quota zero nei nuovi contagi registrati.
La base statistica è costituita dai dati forniti ogni giorno alle 18 dalla Protezione civile ed è stimando le variazioni quotidiane e la loro evoluzione nel tempo che l’Eief formula le proprie estrapolazioni. Il lavoro è affidato a Franco Peracchi (affiliato anche alla Georgetown University e all’Università di Tor Vergata) e verrà rivisto e ripubblicato ogni sera sul sito dell’Eief dopo gli aggiornamenti della Protezione civile.
Per adesso, indica un orizzonte per la prima volta chiaro: le nuove diagnosi di Covid-19 si azzerano fra il 5 e il 16 maggio anche in Toscana, la regione che oggi sembra più indietro nel piegare la curva. L’intervallo di oltre dieci giorni fra l’ipotesi più ottimistica (5 maggio) e quella più lontana nel tempo (16 maggio) dipende dai metodi di calcolo prescelti: nel primo caso si valutano i valori mediani – quelli al centro della distribuzione delle probabilità fra le evenienze peggiori e migliori – mentre nel secondo caso si prendono in considerazione anche eventuali valori estremi e fuori dalla norma delle prossime settimane. In ogni caso, alcune regioni sembrano decisamente più avanti di altre nel contenere l’epidemia e raggiungere l’obiettivo del giorno-zero, quello in cui nessun nuovo contagio verrà constatato dai test.
In Trentino-Alto Adige quella soglia dovrebbe essere raggiunta il 6 aprile, in Basilicata il giorno seguente, in Valle d’Aosta il giorno dopo ancora, mentre in Puglia ci si dovrebbe arrivare il 9 aprile. Per le regioni più colpite d’Italia potrebbe volerci un po’ più di più tempo.
In base alle estrapolazioni il Veneto arriva al giorno-zero il 14 aprile, la Lombardia il 22 aprile e l’Emilia-Romagna il 28 aprile.
Per il Lazio la direzione di marcia indica un obiettivo al 16 aprile, pochi giorni prima di Calabria e Campania. Ultima la Toscana, la regione dove la curva si sta piegando più lentamente, con una soglia prevista appunto al 5 maggio. Ad ora il modello non prevede le date per tre Regioni – Marche, Molise e Sardegna — perché la base dati è per il momento ritenuta non abbastanza ampie.
Va tenuto presente però che i dati sulle singole regioni sono soggetti a forti revisioni di giorno in giorno, perché un numero relativamente ridotto di nuovi casi può far variare di molto le estrapolazioni. Per questo va seguita soprattutto la tendenza nazionale, fondata su una base di dati più vasta, ed essa oggi indica l’orizzonte di maggio anche se si tiene conto di possibili valori fuori dalla norma che potrebbero arrivare nelle prossime settimane.
Franco Peracchi, l’autore dello studio, introduce nel suo paper alcune avvertenze sulla qualità dei dati.
«Va notato che il numero dei casi in questo momento non è pari al numero degli abitanti del Paese attualmente infettati, ma solo a quello di coloro che sono risultati positivi al test. La quantità di persone attualmente infettate è probabilmente maggiore di un intero ordine di grandezza», scrive. «Inoltre, la proporzione fra i casi positivi e il numero di persone infettate in ogni momento dato non va considerata costante, perché i criteri e l’intensità dei test variano nel tempo e fra regioni».
Le estrapolazioni sono comunque preziose perché la popolazione, le imprese e lo stesso governo di possano formare delle aspettative sulla traiettoria delle prossime settimane.
Luigi Guiso, docente di Household Finance dell’Eief e fra gli economisti italiani più influenti nel mondo, osserva che le estrapolazioni vanno prese come «un’indicazione di tendenza, un’idea di dove stiamo planando con le misure di contenimento».
Guiso ritiene anche che le previsioni, soggette a continui aggiornamenti, dovrebbero diventare sempre più affidabili man mano che la Protezione civile aggiorna i dati. «Verso la fine di questa settimana dovremmo avere dati più precisi e più stabili», dice.
Dato che le diverse regioni del Paese sembrano dirette verso il giorno-zero in tempi anche molto diverse, con uno scarto di quattro settimane fra la prima e l’ultima, Guiso ha una proposta: utilizzare i primi territori a zero contagi per tentare sperimentazioni sulle modalità più sicure di avviare riaperture graduali delle imprese e della vita civile. «Naturalmente i blocchi alla circolazione fra i diversi territori del Paese dovrebbero restare in vigore – premette – ma potremmo iniziare tra qualche settimana, nelle regioni più avanzate, a misurare le modalità più sicure per ripartire».
L’altalena dei dati colloca ancora l’avvio della quinta settimana della crisi in una condizione grave e transitoria. Grave nel mondo, gravissima in Italia (che si mantiene al vertice della più triste classifica, quella dei decessi). In bilico la migrazione – che avrebbe conseguenze catastrofiche – della pandemia dai “nord” ai “sud” del mondo (e anche dell’Italia). La lotta contro il tempo appare impari. Perché le condizioni strutturali di contrasto restano difficili in generale e difficilissime nelle zone rosse (leggere l’appello del prof. Pesenti, a capo dell’ospedale in costruzione al Portello), perché la durata del processo è un cenno ipotetico, perché il dibattito sugli esiti della ricerca scientifica anche quando è ottimistico (da 12 a 18 mesi) fa violenza su qualunque, anche la più paziente, attesa attuale dell’umanità. Dall’Africa ancora parzialmente preservata – ma con alcuni paesi che stanno applicando preventivamente il “metodo italiano” giungono voci diverse. Maggy Barankitse, Premio ONU Rifugiati, dal Rwanda osserva: “Vedrete che, messi alle strette dalla infausta prospettiva del tracollo economico, alcuni paesi che sono in condizione – come potrebbe essere la Germania – accelereranno il conseguimento di un valido risultato scientifico. Questa volta non la prenderanno con calma, come fecero nel caso di Ebola, che investì un continente che sembrava a tutti lontano, come l’Africa”.
Osservando la crisi come dinamica mediatica e di dibattito pubblico, il nostro Osservatorio ha fin qui registrato caratteri e mutamenti dell’offerta comunicativa. Ma finora ha trattato senza molti dati a disposizione il tema di trasformazione della domanda. Tema essenziale, perché da esso si capiscono tre cose che fanno la differenza:
Vedremo di cercare e disporre di analisi adeguate a questo esame. Intanto utilizziamo l’approccio che in questo mese ha visto alcuni istituti fornire elementi al riguardo. Per esempio Swg, che intitola addirittura il proprio “bollettino” Niente sarà come prima. Un italiano su due pensa di contrarre il virus (51%), ma la preoccupazione è concentrata sui familiari (60%). Il 60% degli italiani pensa che l’emergenza potrebbe essere contenuta in tre mesi (modello cinese). Ma il 32% pensa che ci voglia molto di più. Il 65% degli italiani reagisce “senza difficoltà” alla condizione di clausura, il 35% segnala “difficoltà a conformarsi”. Il 44% fatica a restare in casa. Il 64% considera “bisogno assoluto” riprendere le abitudini. Il 23% segnala condizioni relazioni abituali peggiorate e non migliorate. Varia dal 52% al 71% il favore per le specifiche misure adottate o annunciate a favore del contenimento della crisi economica. In sostanza il 78u% degli italiani pensa che i provvedimenti per arginare Coronavirus sia stati “adeguati” (i francesi lo pensano al 71%, i tedeschi al 40%, i polacchi al 54%). Il 57% ha ridotto seriamente le spese, il 60% ha intaccato i risparmi. Perdite economiche sono immaginate dai lavoratori autonomi al 69% (di cui un terzo con previsione di chiusura), dai lavoratori dipendenti al 58%. In sintesi per gli italiani: incertezza batte speranza (52 /38); paura batte fiducia (32/15). Ieri si è dato conto del confronto tra Ilvo Diamanti (Demos) e Nando Pagnoncelli (Ipsos) – sull’Espresso – attorno allo “sguardo avanti” di questo turbato sentimento collettivo. Si è fornita una rapida sintesi. A cui aggiungere questo elemento attorno alla domanda: “cambierà qualcosa nei comportamenti degli italiani?”. Diamanti: “No. Noi siamo abituati ad adattarci per cui reagiremo cercando il ritorno alla normalità. La memoria ha una funzione selettiva. Per ragioni di necessità o sopravvivenza noi dimentichiamo le cose che possono disturbarci”. Pagnoncelli: “Rispondo con i numeri. Quando tornerà la normalità il 39 per cento degli italiani vorrà andare a mangiare e bere fuori; il 36 rivedere i propri cari; il 33 rivedere gli amici; il 26 passeggiare in centro già giù fino al 15 dell’andare dal parrucchiere o dall’estetista e il 13 tornare al lavoro o a scuola. Insomma la socialità riconquistata e le abitudini di prima. Una sorta di effetto-molla”.
Terza piccola raccolta di tutto ciò che nella Rassegna quotidiana (centrata sui quotidiani) non ha posto. Non per condanna editoriale, ma per scelta all’origine degli autori. Cioè di non finire nella carta stampata – territorio ancora della mediazione professionale di redazioni, e soprattutto con i tempi delle scadenze di stampa e con le fragranze degli inchiostri – ma di navigare nella rete, con diversa distribuzione, diversa fruizione e senza nostalgie.
Tuttavia non è più vero che la rete accolga naufraghi e raminghi senza razionalità.
Il giornalismo on line sta sviluppandosi con presidi culturali e professionali interessanti e con una ancora frequente gratuità di fruizione, che rimanda ad altri benefici rispetto alla remunerazione della scrittura (che tuttavia va evaporando anche sulla carta stampata).
Imponente anche qui come sui quotidiani la circolazione di note e commenti sulla crisi del contagio planetario provocato da Coronavirus. Impensabile disporre di una selezione accurata in tempo reale, ma possibile tenere in evidenza ciò che nel corso della settimana giunge a destinazione nella tessitura di rapporti che un Osservatorio universitario di comunicazione pubblica riesce a perseguire.
Da qui – grazie anche a suggerimenti interni al team e a qualche gentile destinatario della Rassegna – la scelta di brani che rinviano naturalmente alle segnalazioni quotidiane che la Rassegna svolge, semplificando tuttavia la griglia del Sommario attorno ad alcuni nodi di discussione.
Lo spirito del nostro lavoro da remoto, obbedendo scupolosamente alle misure, è quello di concorrere in ogni modo a superare la condizione di isolamento.
La foto – emblematica del momento – è tratta dal giornale online juormo.it (con redazione articolata a Napoli, a Roma, a Milano) su cui il nostro amico, collega ed ex-prorettore Angelo Turco svolge non solo il suo acuto lavoro di scrittura ma anche un’esperienza educativa nel contesto della emergenza sanitaria in corso. L’impegno oggi della cultura e degli intellettuali risponde a una domanda che affianca l’immenso interrogativo sulla curva sanitaria della pandemia. La pone proprio oggi, domenica, sull’Espresso lo scrittore spagnolo Javier Cercas: “L’Europa resisterà alla crisi? Perché, come diceva Orwell, in guerra anche le brave persone fanno cose brutte”.
Una cosa che si è resa possibile, probabilmente, per l’impreparazione dello stesso mondo intero a cogliere istantaneamente il livello sempre più alto e insidioso della cultura dei virus. Quella che si esprime nel prevaricare sui mezzi, a loro volta sempre più alti ed efficaci, di prevenzione e contrasto messi a punto dall’umanità.
Oggi – a fronte di questi trend – svolgiamo un giorno di silenzio rispetto a piccole note di commento che accompagnano – individuando, osservando, criticando – le opinioni istituzionali e professionali che circolano sui media e che provengono dai soggetti più implicati. Quelle parole debbono ovviamente essere espresse ogni giorno, ogni ora. E le registriamo anche oggi. Ma noi possiamo fare invece un giorno di metodologico silenzio, organizzando tempo ed energie nell’ampliare gli ambiti di indagine e di ascolto.
Normalmente questo è il silenzio che si osserva quando parlano – anche a nome di tutti – figure profondamente nutrite dal senso di responsabilità di parlare agli altri e al tempo stesso anche a nome degli altri.
Ieri sera ciò è successo a breve distanza (di tempo e anche fisica) nella vuota piazza San Pietro a Roma, mentre Papa Francesco segnalava la metafora evangelica del Signore che dorme fiducioso mentre la barca è minacciata da una grave tempesta e impartiva – come facevano i papi durante le storiche pestilenze – la benedizione Urbi et Orbi.
E dal Palazzo del Quirinale parlava – per interpretare, rassicurare, anche pretendere – il presidente della Repubblica Mattarella, il capo di uno Stato che sta pagando al momento il prezzo più alto nel mondo alla malefica e misteriosa virulenza. Giusto cedere qui ai loro messaggi lo spazio del tutto simbolico di “commento”, mentre si conclude la quarta settimana di sconvolgimento planetario.
Introducendo la rassegna di ieri si è fatto cenno all’approccio che si cerca di seguire nella selezione. L’obiettivo è quello di fare emergere giorno per giorno il perimetro e le dominanti del dibattito pubblico riguardante la “rappresentazione mediatica” della crisi. Ciò aiuta a cogliere la sostanza dei vari confronti in atto: quello politico-istituzionale, quello scientifico, quello riguardante i temi economico-produttivi e del lavoro, quello dell’organizzazione del fronteggiamento sanitario e civile, quello socio-culturale di cornice, eccetera.
Questi confronti sono poi accompagnati da un’ampia produzione giornalistica che profila l’evoluzione del quadro statistico (locale, nazionale, internazionale) e moltissima cronaca che assorbe un forte contenuto narrativo penosamente disponibile e che tende ad avere due prevalenti teatri: la trincea ospedaliera e il quadro socioterritoriale (con un centrale rapporto tra misure adottate e comportamenti sociali sviluppati).
Questo format prevale nei quotidiani. Nell’ambito radiotv le informazioni si susseguono nelle fasce delle testate con spazi ampi (ora anche “lunghi”, le cosiddette maratone) di confronto, in cui prevalgono le presenze dei responsabili politico-istituzionali e degli esponenti della comunità scientifica, con più occasionali testimonianze sociali, esperti di vari ambiti coinvolti, spesso giornalisti stessi chiamati come “opinionisti”.
La rete offre il quadro delle notizie in tempo rapidissimo e reale e dissemina le opinioni sia con la mediazione professionale di organi di informazione digitali sia (più ampiamente) in forma randomica e autoprodotta. Il carattere di tendenziale totalizzazione dell’informazione sull’epidemia intreccia tutto ciò in un contesto di tipo comunicativo, ovvero di permeazione tra fatti e sentimenti percettivi. Ciò avviene ora in forma bombardante a causa della minacciosa indecifrabilità della curva di sviluppo della pandemia e con assoluta incertezza della durata.
Si proverà nei prossimi giorni a valutare l’efficacia o meno della comunicazione istituzionale nel caso. Non ora. Si è segnalato ieri che i caratteri dei confronti esprimono, nel caso italiano, la tendenziale polarizzazione di una comunità nazionale abituata al paradigma guelfi/ghibellini, estendibile a infinite opzioni duali: di tipo territoriale, sociale, ideologico, professionale, anagrafico, eccetera. L’Italia non ha l’esclusiva del dualismo. Ma questo fattore costella una lunga storia. Antica e moderna. Ieri si sono fatti brevi cenni a cinque temi del dualismo profilato nel dibattito di circa un mese sulla crisi provocata dalla pandemia da coronavirus: 1. Salute/Economia; 2. Stato/Regioni; 3. Nord/Sud; 4 Giovani/Anziani; 5. Europa sì/Europa no. Proviamo ora a completare l’elenco abbozzato con altri cinque indicatori del dualismo.
Da circa un mese siamo alle prese con un ampio flottante informativo, riguardante la crisi in corso della pandemia provocata da Coronavirus. Che è necessario ridurre radicalmente; poi tematizzare non secondo la ripartizione delle abituali “rassegne stampa” ma secondo gli ambiti di caratterizzazione del dibattito pubblico; infine correlare alla continuità del lavoro universitario, fatto di lezioni ed esercitazioni che ora, nella forma di Smartworking, ha ripreso regolarmente, con una frequentazione attenta, consapevole del contesto di crisi e con volontà di apprendimento, della maggioranza degli studenti.
La complessità della materia – per i suoi misteri, per l’insicurezza assoluta della sua durata, per l’adattamento in diversi contesti nazionali e mondiali, per lo scatenamento di un confronto scientifico appena agli inizi, per la reattività che si produce nelle comunità nazionali attorno alle misure di contrasto adottate – un giorno arriverà ad un punto fermo di analisi.
Ora siamo tutti in alto mare. Un giorno, quando si saranno comprese seriamente le cause e le dinamiche, si faranno anche le somme, si collocherà questo evento di crisi nella robusta panoramica dei primati catastrofici della storia del mondo, soprattutto si useranno i verbi al passato nel dedicare narrazioni che seguiranno molti filoni. Quello giornalistico, finché vi sarà “notizia”. Quello storico-scientifico quando si andrà a fondo delle origini e delle conseguenze. Quello creativo e più ampiamente narrativo quando le forme trasfiguranti della realtà avranno preso la via della letteratura, del cinema, dell’arte, dello spettacolo. Attorno alla storia della peste tutto ciò si è già svolto nei secoli, con attuale viva suggestione se è vero che Amazon dichiara che due libri emblematici del ‘900 sulle sciagure pestilenziali (La peste di Camus e Cecità di Saramago) sono andati esauriti per eccesso di ordinazioni.
Oggi si può solo accumulare l’enorme quantità di informazione prodotta, che sui media comporta un 30% di cronaca, un 20% di numeri, un 20% per cento di dibattito scientifico e un 30% di confronto tra gli interessi rappresentati (in particolare quelli politici e quelli economico-produttivi) che costituiscono l’agorà che – insieme alla comunità scientifica realmente esperta e competente – disputa sulle decisioni da assumere. Per ciascuno di questi approcci vi è un diverso giornalismo che si batte (con larga consapevolezza dell’opportunità professionale ed editoriale che si presenta) per scovare la notizia, per spiegare la notizia, per produrre temperato conflitto sulla notizia così da scarnificare aspetti troppo tecnici e far maturare ogni giorno punti di adesione e di avversione soprattutto su ciò che resta un mistero e su ciò che diventa norma. Sapendo che qualche volta – per come va il nostro mondo – anche la norma accresce la componente di mistero.
Essendo impensabile mettere oggi un qualunque punto fermo – soprattutto dopo le dichiarazioni dal capo della Protezione Civile Borrelli sul presentimento che i dati di contagio accertati siano dieci volte inferiori alla realtà – è invece venuto il momento di riprendere in considerazione le scansioni prevalenti del dibattito pubblico che si è fin qui sviluppato. E farne rapida sintesi per vedere se qualche parola di aggiornamento è pronunciabile appunto un mese dopo l’avvio di questa immensa e drammatica corrida.
Fin dall’inizio si è colto – nelle nostre modeste noterelle introduttive – il paradigma italiano di questo dibattito. Che già di per sé, per essere “dibattito”, non può presupporre pensiero unico. Ma che in Italia (e altrove) assume per vocazione storica una inevitabile trasformazione in un dualismo di posizioni immediatamente pronte ad esprimersi in conflitto e faticosamente pronte ad estinguersi in una convergenza di “salute pubblica”. Ogni tema sarebbe un lungo testo. Qui è necessario scattare dieci foto con brevi didascalie.
Oggi sul settimanale on line ArcipelagoMilano – di Stefano Rolando
Da un mese la parola Lombardia ha oscurato ogni altra espressione territoriale italiana.
Sarà un imprevisto segnale per i cultori di “country brand” che non avevano più una risposta da dare a chi – soprattutto amministratori regionali – hanno da tempo immemore sofferto un po’ la grande popolarità del brand Milano, ma potremmo ugualmente dire del brand lagodiComo e di altri. “Sofferto” rispetto a quello di una regione grande e popolosa come uno Stato, la più ricca d’Italia, ma i cui abitanti – che si identificano tutti nei comuni e nei grandi comuni addirittura nei quartieri – non si definiscono “lombardi” non solo in patria ma nemmeno quando vanno all’estero. A differenza di sardi, siciliani, veneti, romagnoli, pugliesi, forse persino toscani quando sono davvero lontano da casa.
Si dirà naturalmente che la cosa è pagata a caro prezzo. Cioè in nome non di un successo popolare, di un anniversario storico, di una prodezza sportiva, eccetera. Ma a causa di una micidiale epidemia in cui i lombardi si avviano a contendere addirittura ai cinesi il primo posto in una affliggente classifica. Il cinismo del marketing risponderebbe: “l’importante è che se ne parli”. Sì, ma a patto che la tremenda prova in corso non finisca per patinare questa popolarità con un connotato “marchiante”. Diciamo, come la mafiosità ha finito per deformare il brand di una delle regioni più belle del mondo, la Sicilia, associando a questa dicitura quella del male assoluto. E la miglior Sicilia sa quanto sia duro e complesso il lungo cammino per la rigenerazione del significato simbolico del nome della loro straordinaria terra.
La Lombardia fondava le sue speranze competitive su due strade. La prima è quella di trovare la quadra “identitaria” tra le sue città diverse ma accomunabili nella rigenerazione della modernità economica post-industriale (dunque come un nuovo “patto”). La seconda quella di dimostrarsi in proprio all’altezza di una storia di tradizione – sobria, laboriosa, perseverante, paziente, misurata – effettivo comun denominatore di tutti i territori interni, da quelli alpini a quelli della “bassa”, da quelli campagnoli a quelli urbani, da quelli metropolitani a quelli borghigiani. Ebbene la virtù manzoniana del brand Lombardia ha una narrativa sempre più confinata e poco appariscente. Non certo di sfondamento. Mentre invece il carattere industrial-finanziario dei forti brand urbani (Milano in testa) assicurano quel successo di memorizzazione moderna e di attrattività che ha premiato negli anni recenti il turismo, persino a Milano che non si è mai sognata per secoli di coltivare questa economia, oggi divenuta un pilastro del PIL. A buoni conti una vera politica di orientamento strategico al tema non è mai stata tentata, così che negli ultimi venti anni il motore dell’accumulazione di immagine targata “Lombardia” è stato individuato soprattutto nel campo della salute, cioè nel primato della “eccellenza del sistema sanitario lombardo” (proprio quello che alla fine ha messo nei guai il suo inventore).
Che dire sugli eventi in corso? Essi – quando le montagne russe finiranno, anche se il “quando” per ora non è nettamente prevedibile e anche se la storia procede sempre mescolando volontà e conflitti – lasceranno probabilmente la percezione di una battaglia umana e sociale più potente del carattere omicida del virus. In più una battaglia che si appoggia a fattori di modernità: dalla forza d’urto dell’infrastruttura sanitaria, al coraggio e alla perizia del volontariato, dalla tenacia degli amministratori locali all’umanità sapiente di medici e infermieri.
Il cambiamento della percezione di un brand territoriale è lento nel tempo e richiede ripetitività di vicende. Qui ovviamente non augurabile. E il successo della parola Lombardia non deve promuoversi “contro” quello delle sue città, Milano per prima. Si potrebbe così azzardare l’ipotesi che questa drammatica vicenda dell’anno 2020 – che ha riannodato storie di dolori antichi e, più in generale, storie di distruzioni e rigenerazioni che hanno connotato in diversa misura tutto il territorio regionale – ha una forte probabilità di restituire qualcosa tanto all’interno quanto all’esterno della regione. Ai lombardi stessi (accomunati oggi dalle storie angoscianti che resteranno simboliche di tutta questa “guerra”, da Lodi a Pavia, da Bergamo a Brescia, ben inteso da Codogno a Milano) il sentimento di resilienza che tutti si augurano dicibile molto presto. Ma anche la probabilità di restituire all’Italia e al mondo l’apprezzamento per la tenuta al tempo stesso valoriale e tecnologica, civile e democratica, etica e produttiva, in cui nessuna città, nessun borgo poteva fare da solo. Un territorio ibridato da secoli nell’etica del lavoro, mescolato a migrazioni integrate, forte di una narrativa in cui la Lombardia può contrapporre persino anche a Milano l’essere rispetto all’avere, forse uscirà da queste giornate dolorose conquistandosi come un diritto la popolarità e la dicibilità del suo brand.
Eccoci al 24 marzo, con i chiaroscuri che i media testimoniano. Rallentamenti nei dati in particolare sulla Lombardia, tuttavia ancora attanagliata. Ma – prima pagina di Repubblica – ipotesi del capo della Protezione civile sull’iceberg e il sommerso: uno a dieci. Su questo la nostra apertura. Cercando oggi di ridurre un po’ le notizie (quasi ai margini la “cronaca”) e dando più spazio alle citazioni virgolettate. Proprio in materia di “comunicazione” interventi molto qualificati sulla natura della comunicazione istituzionale.
Voce dal sen fuggita. Inutile girarci attorno. Angelo Borrelli è il comandante della nave. Per temperamento un po’ defilato, per antiche mansioni (come lui stesso si definisce, già “ministro delle Finanze” della Protezione Civile dei tempi di Bertolaso) al riparo dall’agone mediatico. Ma oggi garante dei dati quotidianamente messi nelle mani di una comunità nazionale attonita ma non sorda, preoccupata ma vigilante.
Avrebbe da fare sottolineature compiaciute per la persistenza (da tre giorni) di una minore violenza del contagio. Ma la sua impassibilità si spiega con le parole aggiunte nell’intervista che oggi Repubblica riporta in prima pagina: “I numeri sono altri”. E nell’intervista di Corrado Zunino spiega: “i contagiati ufficiali di ieri sera erano 63 mila, ma il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti è credibile”.
Basta la terza elementare per fare il conto: il “caso Italia” secondo questa stima ufficiosa si traduce in 600 mila coinvolti, i più fuori dal controllo ospedaliero, tra cui l’esercito dei portatori sani.
Ora il tema non è di generare allarme. E’ di prendere le misure (quelle politiche, quelle economiche e in primis quelle sanitarie e dei comportamenti collettivi) sulla fase due innescata già dalle recenti decretazioni.
Ma anche innescata dalla sostanziale polarizzazione della tendenza planetaria in cui i tre paesi asiatici più colpiti (Cina, Corea e, staccato, Giappone) guidano la riscossa contro Coronavirus, mentre gli Stati Uniti d’America guidano la classifica di chi, sull’onda ondivaga del governo della prima fase, oggi con un balzo superiore al 20%, guidano la classifica dei successi dell’armata dell’ancora misterioso Virus.
Parrebbe che l’Italia, con alcune virtù in atto, si collochi a metà strada.
Lo schema della rappresentazione mediatica resta quello che abbiamo descritto nei giorni scorsi: la comunità scientifica guida la narrazione; il sistema economico e del lavoro fa notizia (tra l’altro in Italia rischiando – ora in modo preoccupante – di non trovare convergenza tra imprese e sindacato) ma non fa opinione pubblica; la politica conserva una sua inevitabile litigiosità ma non trova ancora un mestiere strategico (cosa c’è dietro l’angolo, come si governa la fuoriuscita) perché il mestiere che riesce meglio a una classe dirigente non molto sperimentata è quello della mediazione.
Accanto a questi tre soggetti che appartengono all’area dei decisori, vi è il coro della volontà e della forza civile dei tanti soggetti che producono dal “fronte” le narrazioni che stanno facendo la nuova cultura civica degli italiani e speriamo degli europei: dalle corsie degli ospedali ai ricercatori scientifici; dalle forze dell’ordine e della sicurezza al sistema educativo, dai centri di produzione e distribuzione aperti ai servizi pubblici essenziali.
La misura ufficiosa di “600 mila” – è presto per fissare il dato formalmente, quindi bene che si lavori responsabilmente su di esso – ha il potere di mettere decisori e vasta fascia dell’abnegazione in condizioni di alzare ulteriormente la soglia di responsabilità. Sul metodo, sulla produzione di dati più complessi, sulle forme adottate per comunicare, sulla divisione dei compiti tra chi bada al presente e chi guarda al futuro.
Nel nostro piccolo cantiere, continuando questa proposta quotidiana di razionalizzare le notizie, stiamo lavorando a tre dossierini: sul rapporto tra comunità scientifica e comunicazione; su come il sistema delle comunicazioni uscirà cambiato dopo la crisi; sul difficile equilibrio della rappresentazione delle ragioni della salute e delle ragioni dell’economia e del lavoro. (SR)
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