Non si può perdere l’occasione di un nuovo incontro con Gigi Proietti e passare con lui qualche ora a leggere e rileggere il suo romanzo incompiuto ‘NDO COJO COJO, ventisei pagine di puro divertimento, più altre duecento di sonetti e sberleffi, il tutto curato da Sagitta Alter, la meravigliosa donna che con lui ha messo al mondo un’altra opera straordinaria, Carlotta e Susanna, le due giovanissime Proietti, l’una attrice l’altra scenografa, che le hanno dato una mano a rovistare nei cassetti di Gigi, abituato a scrivere ovunque e su qualsiasi supporto cartaceo: “Ho sempre pensato che chi cerca di fatte ride e ci riesce sempre, c’ha un dono del Padreterno. E se non lo sfrutta commette peccato” scrive Proietti narrando le vicende del protagonista del suo romanzo, Er Ciofeca, e sembra una riflessione su se stesso e sul mestiere di attore. Così come la storia tragicomica di un barista che si innamora della cassiera del suo negozio e che per amore di lei diventa uno spacciatore è un ritratto di quella società che vive nella periferia della Capitale. Il tutto in un rigoroso dialetto romanesco: “Mi accusano di indulgere troppo al mio dialetto, non è vero! E’ che io non vojo parlà italiano, ma si vorei!! Il dialetto ha sintesi, è più sintetico della lingua italiana, ad esempio: Mi scusi potrebbe gentilmente spostarsi a ciò che io possa vedere meglio? Diventa: Ah co’le”n po’!”
Ma il capitolo in cui dietro la scrittura si può scoprire l’anima di Gigi Proietti si intitola “Teatraccio”. Improvvisamente, dopo cento pagine di dialetto romanesco, Gigi, per parlare del suo grande amore, il teatro, scrive in italiano: “Il teatro è una festa. Festivo se gli va, festaiolo quando occorre, ma è conciato per le feste”.
Ha la forma di una confessione: “Io quando provo sono una specie di maniaco”. Il difficile mestiere dell’attore, i ritmi della recitazione, il copione giusto da trovare, le strutture produttive del teatro, i giudizi del pubblico e i pregiudizi della critica, insomma “il teatro è come una bomba ad orologeria”. E da qui prende il via la serie di ricordi, da quando giovanissimo recitava testi di avanguardia alla scoperta del teatro popolare con il successo di “Alleluja brava gente” di Garinei e Giovannini al Sistina e l’incontro con uno dei suoi più grandi amici, Gigi Magni. Un sodalizio che regala ad ambedue successi e popolarità, un lungo tratto di strada fra cinema e teatro, fino all’approdo nell’età matura “evidente che nessuno attore nasce dal nulla” in cui scopre le sue radici: “Petrolini da lontano mi ha insegnato che il teatro non può confondersi con la letteratura, sono cose addirittura opposte”. Rinasce così un teatro in cui il progetto è l’attore stesso.
Si apre il capitolo dei ricordi e torna il dialetto di Roma: ancora un omaggio al teatro, e poi al teatro tenda e la serie dei “protagonisti” della sua vita da Gigi Magni ad Alberto Sordi, da Paolo Panelli a Totò, da Nicola Piovani al maresciallo Rocca. E poi il gran finale con il suo Teatro Brancaccio e il sogno che si realizza “il Globbe è veramente bello, è di legno come noi”.
Da un cassetto o in un quaderno Sagitta, nella sua caccia al tesoro, trova un breve testo, un appunto. Non è una poesia e nemmeno un sonetto. E non è uno sberleffo fuori da ogni regola, più semplicemente è la testimonianza di un grande autore del nostro tempo: c’è il lockdown, siamo chiusi nelle nostre case, ci difendiamo dagli altri con la mascherina e lui, come un vecchio caro amico, ci dice che la felicità appartiene ai ricordi o alla speranza per il futuro. “Il presente è di passaggio”.
Grazie Sagitta.
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