Normalmente, cerco di non cadere nell’errore (tale lo considero) di lasciare che, parlando di cinema, traspaia una mia posizione ideologica. Lascio questo esercizio alla pigra, conformistica e preconcetta critica “militante”. Nell’articolo che segue su Hammamet di Gianni Amelio spero di esserci ancora riuscito: lo considero, al di là del tema scelto poco personale e di scarsa efficacia narrativa. Mi piace, però, in premessa confessare ai mei amici di Moondo che sono rimasto – non solo come cinefilo – profondamente deluso dall’operazione Hammamet. Sono stato socialista e craxiano e tuttora considero il liberalsocialismo – il Lib-Lab di cui si è colpevolmente persa la memoria – la sintesi ideale di tutto il patrimonio ideale dell’occidente democratico. In Italia Mani Pulite lo ha distrutto, consegnando il Paese ai cascami di posizioni antidemocratiche, figlie (peraltro spurie) degli orrori del ‘900: il fascismo e il comunismo o a sigle improvvisate ed estemporanee. Ora vedo che – al di là dei suoi meriti e dei suoi stessi contenuti – il film di Amelio è, in questi giorni, preso a pretesto per riaprire un discorso su Craxi. Al di là delle considerazioni da avvocaticchi del Fatto Quotidiano, credo che sia giusto dar retta alle ultime parole scritte da Craxi che dichiarava di aborrire l’idea a di una “riabilitazione” da parte di chi lo aveva ucciso. Temo che siamo di fronte ad un fremito epidermico ma se si ripensasse il passato come foriero di idee e di riflessioni profonde, forse si potrebbe rintuzzare la onnipresente paura della democrazia (basti pensare ai costanti richiami al non valore di voti espressi da chi non è elite: vedi le osservazioni sul referendum sulla Brexit o sul voto a Trump) che – soprattutto da parte di una sinistra plasmata sulla dittatura del proletariato – emergono nelle riflessioni e negli atti dell’attuale politica. Se si muoverà davvero qualcosa, anche un film non riuscito sarà servito a qualcosa.
1989. Il Congresso di Milano del P.S.I. si conclude con la rielezione plebiscitaria di Craxi (Favino) quale segretario del partito. Sotto il palco c’è ad attenderlo il segretario amministrativo Vincenzo (Giuseppe Cederna) che gli espone i propri forti timori per le spese fuori controllo del partito e il conseguente, troppo disinvolto, ricorso a finanziamenti occulti. Craxi, infastidito, gli consiglia di prendersi una vacanza. Qualche anno e troviamo il leader esule volontario ad Hammamet, in una villa nella quale vive con la moglie (Cohen), la figlia Anita (Rossi) e il nipotino Francesco (Federico Bergamaschi). Una sera dal giardino si sente un tafferuglio e degli spari e, poco dopo, il servizio d’ordine gli consegna un giovane, Fulvio (Filippi), con la faccia annerita dal nerofumo: è il figlio di Vincenzo (che si era suicidato per la tensione delle pressioni giudiziarie) che gli porta una lettera del padre, nella quale esprime tutta l’amarezza per non essere stato ascoltato quando, forse, si poteva ancora rimediare.
Il Presidente (sarà chiamato così per tutto il film), ricordandogli la grande amicizia che per anni ha legato lui e Vincenzo, gli offre ospitalità nella villa. Lui accetta e, l’indomani, lo vediamo recarsi in un bazar e comprare una pistola. Il Presidente ha costanti dolori di origine diabetica ad una gamba con rischi di cancrena ma impone ai medici di non amputarla. Fulvio diventa una specie di suo documentarista personale e lui alla sua telecamera affida le sue osservazioni, così come detta ad Anita le proprie memorie e gli sfoghi conto la violenza dei giudici e l’irriconoscenza delle istituzioni italiane, interrotti spesso da improvvisi scatti di rabbia e di insofferenza. Il giorno di Pasqua arriva anche l’altro Figlio (Paradossi), sempre timoroso di essere mal sopportato dall’irascibile padre ma quando si mette alla chitarra e intona Piazza Grande, il vecchio leader si commuove. Un giorno, durante una passeggiata nel vicino deserto, lui e Fausto trovano un carrarmato abbandonato e, accostandovisi, lui dice al ragazzo di sapere che nello zaino che porta sempre con sé nasconde una pistola e, mettendosi dietro al cingolato, per non farsi vedere dalla scorta gli chiede di riprenderlo mentre dirà cose che non ha mai rivelato a nessuno, dopodiché potrà decidere cosa fare; finita l’intervista Fausto scompare.
Arriva a Tunisi l’Amante e all’aeroporto la incrocia Anita, che la tratta male ma, quando il padre le confessa di amarla ancora, lo accompagna da lei. Un vecchio rivale democristiano (Renato Carpentieri) lo va a trovare e nel colloquio – durante il quale questi cerca invano di convincerlo a tornare – i due ritrovano l’aspra ma rispettosa contrapposizione ma anche la complicità di un tempo. Ai gravi problemi sanitari si aggiunge un tumore ai reni, che andrebbe operato d’urgenza ma lo scarsamente attrezzato ospedale tunisino non fornisce serie garanzie di buon esito. Anita chiede al fratello di darsi più da fare per consentire un ritorno di loro padre in Italia, almeno per farsi operare senza il rischio di un arresto. Il giovane torna con una lettera (scritta da Amato?) che fa infuriare il Presidente: vari giri di parole ma nessuna garanzia di rispetto almeno umanitario. Anita sembra averlo convinto ad andare a farsi operare a Milano – volerà con un areo di stato tunisino e una macchina lo andrà riservatamente a prendere all’aeroporto di Roma per portarlo in clinica – ma all’ultimo momento lui, giunto sotto l’aeromobile, si rifiuta di scendere dalla macchina: è rimasto pendente il mandato d’arresto nei suoi confronti. Sarà operato in Tunisia e, di lì a poco, morirà sognando di rincontrare il Padre (Omero Antonutti) – uomo tutto d’un pezzo ma che lo ha appoggiato quando qualche marachella (tipo rompere con la fionda i vetri del collegio dove studiava) nasceva da una comprensibile ribellione – con il quale assiste al volgare spettacolo di due comici da strapazzo (Adolfo Margiotta e Massimo Olcese) che lo irridono, con toni di qualunquistico moralismo.
Dopo qualche tempo, Anita riceve la richiesta di uno psichiatra (Roberto De Francesco) di incontrare Fausto che è ricoverato nella sua struttura; questi, dopo averle rivelato un segreto terribile sulla morte di Vincenzo, le consegna l’esplosiva cassetta girata dietro il carrarmato. Amelio, si sa, è regista discontinuo – passa dai profondi e toccanti Porte aperte, Il ladro di bambini, Così ridevano, ai meno riusciti Lamerica, La stella che non c’è, per citare alcuni suoi titoli noti – e, di recente, dopo i deludenti Il primo uomo e L’intrepido aveva diretto l’intensissimo La tenerezza. Hammamet sembra (e, forse, in parte è) un film su commissione: c’è uno stupefacente Favino che – truccato alla perfezione (anche troppo: c’è sempre il rischio di un effetto Pierluigi Zerbinati, il sosia di Craxi del Bagaglino) da Andrea Leanza con Federica Castelli e Massimiliano Duranti – trova da dentro di sé (come fanno i grandi attori) i toni e le mosse del leader socialista ma la sua bravura sembra esaurire il film.
Raccontare un personaggio recente e controverso è sempre complicato e denso di insidie, come dimostrano, ad esempio il funereo Il Divo e lo scentrato Loro, entrambi di Sorrentino; Amelio e il suo co-sceneggiatore Alberto Taraglio hanno deciso di raccontare solo il Craxi esule in Tunisia. Ci si poteva aspettare il diario dolente e rabbioso di un leone in gabbia o il riscatto da una vita piena di successi storici ma anche di pesanti cadute negli ultimi mesi, inevitabilmente riflessivi, di isolamento e solitudine; invece non c’è quasi nulla: vediamo un vecchio malato ed iracondo, accudito da un’eroica figlia (quasi un Re Lear da Bignami), del quale ci viene raccontato un glorioso passato che, però, non traspare mai.
Al di là delle accettabilissime invenzioni narrative (siamo comunque in un film e quindi in un’opera, per definizione, di fantasia) come tutta la vicenda di Fausto, nel film non c’è né il Craxi di grande statura politica che in questi ultimi tempi anche antichi oppositori stanno riscoprendo né il “cinghialone” ferito che la stampa avversa aveva negli anni di Tangentopoli disegnato e – non essendo quasi irriconoscibile la mano di Amelio – non c’è nemmeno il (poderoso o decadente, come si vuole) declino di un potente caratterizzato, come è noto, da una personalità fortissima. Se vogliamo, una qualche chiave narrativa Amelio la lascia intravedere nelle immagini – che passano sul teleschermo della villa – di là dove scende il fiume di Anthony Mann, de Le catene della colpa di Jacques Tourneur (entrambi incentrati su un personaggio che riscatta con un gesto eroico una vita discutibile) o Secondo amore di Douglas Sirk che vede il trionfo di un sentimento contrastato perché fuori dagli schemi e, soprattutto, nella finale rottura del vetro, ribellione postuma (si direbbe) di uno spirito libero. Per il resto siamo ad un encefalogramma artistico – salvo, ripetiamo, un ottimo Favino – non certo movimentatissimo.
Avete mai immaginato un'interazione con l'AI ancora più intuitiva e creativa? ChatGPT 4o, ora nella…
L'otite è un'infiammazione che può colpire diverse parti dell'orecchio, tra cui l'orecchio esterno (otite esterna),…
Il consiglio di lettura di oggi è “Frontiera” di Francesco Costa,《un libro frastagliato e non…
Le auto moderne sono dotate di una serie di sistemi volti a proteggere il conducente…
L’almanacco di Naval Ravikant è una raccolta dei pensieri, dei twits, delle interviste dell’autore incastonate…
Greg Hoffman è un brand leader a livello globale, ex Chief Marketing Officer di NIKE,…