Ho sempre sostenuto che public branding non è un concetto da appiccicare né al marketing territoriale né alla grafica simbolica, in particolare applicata a loghi, marchi, stemmi e altre forme di arte visuale. Vero, ma nemmeno bisogna dire che si tratta di mondi separati.
Per cui un buon approccio di public branding (analisi dell’evoluzione identitaria, intesa come patrimonio simbolico collettivo, materiale e immateriale) a un certo punto confina sia con la tecnica di gestione applicativa della attrattività (appunto il marketing territoriale), sia con la necessità di esprimere in estrema sintesi un concetto visuale capace di evocare l’intero percorso dell’evoluzione identitaria o almeno di alludervi, dunque il graphic design applicato all’identità visuale.
Personalmente ho avuto passione, stima e collaborazione con i professionisti di questi due settori contigui e correlati. Polemizzando ogni volta che questi “campi correlati” hanno preteso di egemonizzare la problematica. Applaudendo ogni volta che i professionisti – anche i più celebrati – di questi due settori hanno saputo partire dai dati di analisi e di ricostruzione complessiva grazie allo studio e alla dedizione di altre discipline.
La nota di oggi prende spunto da un dato di cronaca su cui alcuni organi di stampa (quelli dotati di archivio e di segnalazione delle ricorrenze) hanno fatto cenno in questi giorni. Tra i più noti graphic designer del nostro tempo, ecco forse il più celebrato autore del messaggio simbolico di maggiore successo nel ‘900 nel campo del city branding internazionale, compie, ancora in attività nel 2019, 90 anni.
Si tratta di Milton Glaser, a cui dieci anni fa – in occasione dei suoi 80 anni – Barack Obama ha consegnato la National Medal of Arts, per il suo eccezionale contributo dato allo sviluppo dell’arte grafica. Il suo nome è associato in Italia all’esperienza Olivetti. Ma con l’Italia Milton Glaser ha interagito dall’inizio degli anni ’50, come borsista all’Accademia di Belle Arti di Bologna e in rapporti stretti con Giorgio Morandi.
All’opera di Piero della Francesca (“un’intelligenza sublime: niente in Piero può essere alterato o mutato, è inevitabile come se ce lo avesse dato la natura”) dedicò tra il 1991 e il 1992 una sua geniale interpretazione artistica ad Arezzo e a Milano in occasione del Cinquecentenario del sommo (e “graficamente perfetto”) artista rinascimentale. Dunque i confini professionali italiani (in cui c’è stata anche una Biennale di Venezia e una prolungata collaborazione con l’Espresso) sono stati molto alti, sia riguardo alla tradizione artistica, sia riguardo alla potenzialità narrativa del nostro più colto sistema di impresa (a cui si aggiungono le sue esperienze con Alessi e Piaggio).
Ma il suo nome nel repertorio della grande grafica significa – per limitarci ai due pezzi da museo – il profilo cromatico di Bob Dylan del 1966 (un’icona degli anni ’60 venduta in 6 milioni di pezzi) e il super-imitato logo I Love NY di dieci anni dopo, cioè del 1976.
Il carattere legato alla “promozionalità” della sua opera grafica, fa sì che la collezione dei poster ideati da Milton Glaser e realizzati nei suoi studi (nel 1954 fonda Pusch Pin Studios[1],vent’anni dopo il suo stesso studio personale e il New York Magazine, trenta anni dopo lo studio grafico WEMG specializzato nel campo dell’editoria che opererà per The Washington Post, Fortune e per lo stesso Espresso) sono una rassegna al tempo stesso di razionalità europea insieme al carattere spumeggiante dell’illustrazionismo americano[2].
Il repertorio della sua gallery lo vede spesso insieme ai grandi grafici europei, da Giulio Confalonieri a Bob Noorda. E la sua opera oggi è esposta in via permanente nei grandi musei, da Parigi a Londra, da New York a Gerusalemme.
Ma tornando al 1976 Milton Glaser resta l’archetipo moderno della trasformazione narrativa urbana (come ben lo descrive chi ha studiato la sua adesione novecentesca al protagonismo delle città[3]. Ben inteso non fu la fulminante idea grafica di Milton Glaser a rivoltare da sola l’immagine di New York nell’ultimo quarto del secolo scorso. Ma fu essa a raccontare in modo eclatante il grande lavoro compiuto dalla città per arginare e contrastare la criminalità, marginalizzando così la reputazione di “città pericolosa” che teneva lo stesso turismo in bassa classifica rispetto alle grandi capitali europee e aderendo al modo con cui cinema, musica, arte e spettacolo stavano leggendo quei cambiamenti.
L’ultimo fascicolo di Venerdi di Repubblica dedica ora quattro pagine ai 90 anni dell’artista che si racconta dall’inizio del percorso (“Sono cresciuto tra i comunisti e gli ebrei del Bronx, li ho imparato a disegnare”)[4]. Un bel ritratto in cui i nessi euroamericani riguardano una generazione e una rete di rapporti in cui l’Italia e gli italiani hanno avuto il loro posto: “Sono un figlio storto del Modernismo. Il commercio è il cuore del design e per quanto mi dichiari indipendente, non posso fare a meno di ispirarmi all’Art Nouveau, alla Vienna dei secessionisti, al Rinascimento, agli utensili africani. Il mio sangue è ebraico: un outsider come me va sempre alla ricerca di stili che non sono i suoi”.
[1] Il linguaggio dei Push Pin Studios, in: Andrea Rauch, Graphic Design, Milano, Guidecultura Mondadori, 2006, pp. 164-171.
[2] Una bella sequenza nel sito stesso di Milton Glaser https://www.miltonglaser.com/store/c:posters/
[3] Gianni Sinni, Andrea Rauch, Disegnare le città, Firenze, LCD Edizioni, 2009 pp. 132-133.
[4] Filippo Brunamonti, Milton Glaser a 90 anni. Ho detto tutto con il cuore, il Venerdì di Repubblica, 5 luglio 2019
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