Il delitto Matteotti, tra politica, intrighi internazionali, faide personali, bische, gioco d’azzardo, petrolio: quale fu la vera causa dell’uccisione del deputato socialista? Il delitto cambiò la politica italiana e la vita di molti, anche se non tutti pagarono il prezzo della partecipazione diretta o indiretta al misfatto.
Il 10 giugno 1924, alle ore 16,30 — ma alcuni testimoni oculari parlano di qualche minuto dopo le 16 — Giacomo Matteotti, trentanove anni, deputato di Rovigo, segretario del Partito socialista unitario, nato da una scissione del P.S.I. e attestato su posizioni decisamente riformiste, esce dalla sua abitazione in via Pisanelli a Roma.
Fa caldo: è uscito senza il solito panciotto ed ha con sé forse una borsa, forse una busta di carta intestata “Camera dei deputati”. Si reca alla Camera per preparare il suo intervento nel dibattito sul bilancio dello Stato per il 1924-25: presumibilmente avrà la parola in Assemblea il giorno 12.
All’angolo tra Via Scialoia e il Lungotevere Arnaldo Da Brescia è ferma una Lancia con cinque uomini. Quando Matteotti, percorsa Via Mancini, gira sul Lungotevere per dirigersi verso il centro di Roma, l’automobile si mette in moto, scendono due uomini, poi un terzo, che balzano sul deputato socialista, lo immobilizzano e lo scaraventano all’interno della vettura, che riparte a tutta velocità verso ponte Milvio.
Alcuni testimoni la vedono attraversare il ponte e dirigersi verso la Via Flaminia, nella direzione che esce dalla città. Secondo alcune testimonianze l’autista suona continuamente la tromba, forse per coprire, in una Roma allora con scarso traffico, le grida che provengono dall’interno della Lancia.
A quel momento dunque forse Matteotti è ancora vivo. È un particolare che nella ricostruzione del delitto acquisterà grande importanza: significherebbe infatti che il deputato socialista non è stato immediatamente ucciso e quindi che non era (forse) questa l’intenzione dei suoi rapitori.
Le indagini iniziano il 12 giugno, quando di Matteotti si è ormai persa ogni traccia. L’individuazione degli autori del rapimento è per la polizia quasi un gioco da ragazzi: due testimoni, insospettiti dalla lunga sosta della Lancia all’angolo di Via Scialoia, ne hanno annotato il numero di targa.
Già il giorno dopo viene accertato che l’autovettura è stata noleggiata da Filippo Filippelli, direttore del “Corriere italiano”, giornale fiancheggiatore del P.N.F., legatissimo al gruppo che ruota intorno a Cesare Resi, capo dell’ufficio stampa del Presidente del Consiglio Mussolini, ed a Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del P.N.F.
Da questo punto in poi cominciano le sabbie mobili: nulla è più certo, ad ogni indizio che porta in una direzione se ne contrappone uno che conduce nella direzione opposta. I protagonisti della vicenda, presto individuati, forniranno per vent’anni, praticamente fino alla morte, versioni dei fatti e testimonianze in contrasto con altre precedentemente rese, senza alcuna preoccupazione di smentirsi, ma al solo scopo non già di proclamare la propria innocenza, ma di diminuire in qualche modo la propria responsabilità addossandola ad altri e, direttamente o indirettamente, allo stesso Presidente del Consiglio Mussolini.
Le indagini svolte dalla polizia portarono presto alla identificazione dei cinque (secondo talune testimonianze sei, ma il sesto personaggio, se c’è stato, è rimasto almeno fino ad oggi, sconosciuto) rapitori: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo, tutti fascisti già distintisi in operazioni violente contro persone o cose.
L’istruttoria non riuscì invece ad accertare la responsabilità di Filippo Panzeri ed Aldo Putato, anch’essi attivisti fascisti e probabilmente presenti sul luogo del sequestro.
Del gruppo faceva parte anche un tale Otto Thirschald, austriaco o forse russo, agente segreto doppio o forse triplo, di cui è incerto anche il vero nome e che nei giorni precedenti l’agguato pedinò Matteotti per incarico di Dumini ma che cercò stranamente di avvertire il deputato socialista del pericolo incombente per la sua vita.
Le persone che presero parte al sequestro facevano parte di una organizzazione segreta fascista — la cosiddetta Ceka — incaricata di tutte le azioni illegali (sequestro di persona, percosse, minacce) contro gli avversari politici o erano solo un gruppo di estremisti fascisti che intesero colpire in Matteotti un irriducibile avversario politico?
I documenti oggi disponibili consentono di affermare con una certa sicurezza che una organizzazione segreta fascista nel 1924 effettivamente esisteva, come affermato già nel 1925 dalla sentenza della Commissione permanente di istruzione del Senato riunito in Alta corte di giustizia che esaminò la denuncia di Giuseppe Donati, direttore del giornale “Il Popolo” contro Emilio De Bono.
De Bono, all’epoca del delitto direttore generale della P.S. e capo della M.V.S.N., fu processato per ben sedici reati, tra i quali la complicità nell’assassinio Matteotti, il favoreggiamento dei colpevoli del reato e, primo fra tutti, “l’aver fatto parte di un’associazione a delinquere, conosciuta sotto il nome di “Ceka”, alla quale sono imputati numerosi delitti in danno di persone”.
Il senatore De Bono fu prosciolto da queste accuse (per altre furono ritenute insufficienti le prove della sua colpevolezza).
A proposito della Ceka però l’assoluzione avvenne in base ad un sottile sofisma giuridico. La Commissione negò infatti che l’organizzazione costituisse un’associazione a delinquere in quanto i reati che le venivano addebitati non erano specificamente tra quelli contemplati perché l’associazione a delinquere potesse essere dichiarata da un giudice: ciò non significava però che una organizzazione con quegli scopi non esistesse, finanziata, come dimostravano numerosi documenti, con i fondi segreti della Presidenza del Consiglio, ed in particolare con quelli a disposizione dell’Ufficio stampa diretto da Cesare Rossi.
Alcune testimonianze dello stesso Rossi, dopo l’arresto per complicità nell’uccisione di Matteotti, confermano l’esistenza dell’organizzazione: secondo Rossi la sua costituzione era stata proposta nel gennaio 1924 da Francesco Giunta, allora segretario del PNF, ed approvata dal direttorio del partito composto dallo stesso Rossi, da Giovanni Marinelli, da Piero Bolzon e da Attilio Teruzzi.
A Rossi e Marinelli era stato affidato l’incarico di dirigere la struttura ed a Amerigo Dumini, stretto collaboratore di Rossi, il mandato di occuparsi della parte esecutiva avvalendosi, quali collaboratori, degli elementi più “collaudati” in operazioni contro gli avversari politici.
Mussolini era a conoscenza di tutto questo? Anche a questo proposito esistono testimonianze che parlano di un diretto coinvolgimento del Presidente del Consiglio nella creazione della struttura segreta, ma nessun documento fornisce prove esaurienti in questo senso.
Mussolini, da parte sua, nel discorso alla Camera dei deputati del 3 gennaio 1925 negò decisamente l’accusa, affermando che se avesse creato lui stesso una organizzazione per la violenza, essa sarebbe stata come deve essere la violenza per essere risolutiva e cioè “chirurgica, intelligente, cavalleresca”. I gesti della “sedicente Ceka” erano invece “sempre stati inintelligenti, incomposti, stupidi”.
Non si tratta di un particolare secondario: tutti gli implicati nel delitto Matteotti tenteranno, dopo il delitto, di inquadrarlo nell’attività della Ceka e per questa via di tirare in ballo direttamente Mussolini; secondo Aldo Finzi, sottosegretario agli interni, costretto da Mussolini a dimettersi all’indomani del delitto, Rossi, in un incontro al Viminale, dichiarò che era stato lo stesso Mussolini ad ordinare l’uccisione di Matteotti. L’affermazione è ripetuta in due lettere inviate da Dumini, dopo l’arresto, al proprio avvocato difensore.
Va però tenuto conto che solo innalzando il livello politico del delitto tutti coloro che vi erano implicati avevano la speranza di un intervento a loro favore del regime fascista, e del suo capo soprattutto, che valesse a salvarli dalla galera.
Certo è che la macchina del regime si mise, sia pure faticosamente, in moto a favore degli imputati. Nel tentativo di contenere in qualche modo la protesta dell’opposizione alla Camera dei deputati e sui giornali, Mussolini fece dimettere dalla carica, oltre Finzi, anche Cesare Rossi, che veniva direttamente chiamato in causa come complice, se non addirittura mandante, del delitto, ed il Capo della Polizia De Bono, accusato dall’opposizione di favorire gli assassini.
Prese rapidamente corpo una complessa strategia di difesa degli imputati. I sequestratoci avevano sfilato al cadavere i pantaloni e la giacca per ragioni mai chiarite, ma probabilmente per impedire l’identificazione. Pezzi di stoffa dei pantaloni macchiati di sangue vennero rinvenuti nel bagaglio di Dumini al momento dell’arresto la sera del 2 giugno, poco prima di quello di Putato, che avvenne nella notte, di quello di Volpi (16 giugno), di Thirschald (il 18), di Viola (il 24) di Poveromo (il 28), Panzeri e Malacria riuscirono a sottrarsi alla cattura, ma solo il primo restò latitante fino al processo. Malacria invece, fuggito in Francia, fu arrestato a Marsiglia il 3 ottobre e tradotto e in Italia il 19 dicembre successivo.
Passarono quasi due mesi dai primi arresti prima che la giacca insanguinata del deputato socialista priva di una manica, ritrovata poco lontano, fosse rinvenuta (agosto) in un canale di scolo lungo la via Flaminia, all’altezza del diciottesimo chilometro.
Le numerose contraddizioni in cui caddero il capitano dei carabinieri Pallavicini, comandante della legione esterna dei carabinieri, che con il carabiniere Caratelli si recò a ritirare il 13 agosto la giacca dal cantoniere che l’aveva trovata fecero sospettare che il ritrovamento fosse stato abilmente pilotato, anche perché le perizie successive esclusero che la giacca potesse essere stata per due mesi nel posto dove fu trovata.
Gli stessi sospetti sorsero a proposito del ritrovamento del cadavere, avvenuto il 16 agosto, in una fitta boscaglia a 150 metri di distanza dalla via Flaminia, da parte dello stesso brigadiere Caratelli, messosi alla ricerca del cadavere nella convinzione, espressa nella successiva testimonianza, che il corpo di Matteotti non potesse essere lontano dal luogo del ritrovamento della giacca.
Il cadavere fu trovato, in pessime condizioni, in una buca poco profonda, coperta da uno strato di foglie e di terriccio, con accanto una lima che, secondo le successive testimonianze, era stato l’unico strumento disponibile per scavare la buca.
I periti indicarono la causa della morte in una ferita da “arma da taglio o da punta” alla “regione toracica antero — laterale superiore sinistra” cioè nella zona del cuore, mentre l’uomo era seduto sullo schienale della Lancia ed era “leggermente inclinato sul lato sinistro”.
Il risultato della perizia è molto importante: anche se i periti qualificarono la loro ricostruzione solo come verosimile — ma, come vedremo, si trattò solo di uno scrupolo — la morte per ferita da arma da taglio era in netta contraddizione con quanto sempre asserito da Dumini, a partire dall’interrogatorio avvenuto a Regina Coeli il 20 ottobre 1924 e confermato in un memoriale fatto pervenire il giorno dopo ai suoi avvocati. In quella occasione il Dumini fece due dichiarazioni di fondamentale importanza, la prima circa le cause della morte di Matteotti, la seconda a proposito dei motivi dell’aggressione.
Quanto alla causa del decesso, Dumini le indicò in una violenta emotisi avuta dal deputato socialista a causa della colluttazione avvenuta nell’automobile e della malattia di cui soffriva.
Era una dichiarazione di estrema importanza che configurava nettamente tutta la strategia difensiva: l’omicidio di Matteotti era preterintenzionale e non premeditato, da collocare in una lotta senza quartiere tra fascisti ed antifascisti.
L’aggressione — e qui era il secondo puntello della strategia difensiva — traeva motivo dall’azione svolta in Italia e all’estero, soprattutto in Francia, da una organizzazione segreta antifascista alla quale Matteotti non sarebbe stato estraneo, responsabile della uccisione avvenuta nel febbraio 1924 in Francia di Nicola Bonservizi, capo dei fasci italiani in quel Paese.
Vedere Matteotti, dopo il durissimo discorso pronunciato alla Camera dei deputati il 30 maggio nel quale aveva accusato i fascisti di brogli elettorali in tutto il Paese, camminare per il Lungotevere senza alcuna scorta aveva, secondo Dumini, fatto scattare in lui e nei suoi compagni la volontà di sequestrare il deputato socialista, per condurlo “in una località appartata per fargli subire un interrogatorio circa l’uccisione di Bonservizi”.
Era una ricostruzione plausibile dei fatti, tenuta ferma nella sua struttura fondamentale in tutti gli anni successivi, sostanzialmente accolta nei tre processi che gli imputati del delitto, come vedremo, subirono, ma tuttavia estremamente debole a proposito delle motivazioni del delitto.
Anzitutto la dinamica dei fatti: a smentire la morte di Matteotti per emotisi sta la testimonianza resa molti anni dopo, nel 1947, al nuovo processo contro Dumini e compagni dalla moglie del coimputato Albino Volpi, deceduto (1938) nel frattempo: secondo la moglie di Volpi era stato proprio il marito a rivelarle che ad uccidere Matteotti era stato lui “vibrandogli una coltellata e perforandogli il polmone” per reazione ad un calcio sferratogli dal segretario del P.S.U.
A questo punto la morte di Matteotti potrebbe ancora essere ritenuta casuale come sostenuto da Dumini, anche se nel contesto di una dinamica diversa (la causa della morte). A contrastare questa ricostruzione dei fatti sta però un memoriale redatto dallo stesso Dumini, da lui stesso fatto pervenire nel 1933 allo studio legale Arnald Robertson di Sant’Antonio, Texas — Dumini era nato negli Stati Uniti e conservava alcune amicizie americane — in cui si parla espressamente di una fossa di calce viva preparata per il seppellimento di Matteotti e che poi non fu possibile raggiungere perché si trattava di rientrare nuovamente in città con un cadavere in una macchina con la tappezzeria ampiamente macchiata di sangue.
A favore di questa ricostruzione dei fatti sta la circostanza che tra il rapimento di Matteotti ed il ritorno a Roma di Dumini e compagni trascorsero ben sei ore, troppe nella Roma senza traffico degli anni ’20 per coprire il viaggio di andata e ritorno tra il luogo del rapimento e quello del seppellimento.
Cosa sia accaduto in quelle ore non si è mai riuscito ad accertarlo con esattezza, tanto da accreditare il racconto fatto alcuni anni più tardi da Poveromo: Matteotti sarebbe stato ucciso subito e poi trasportato già cadavere all’ospedale di San Giacomo, poco lontano dal luogo del rapimento. Successivamente Dumini, su suggerimento di De Bono, avrebbe nuovamente trasferito il cadavere sulla Lancia per seppellirlo dove fu poi ritrovato.
Questa ricostruzione dei fatti fu tenacemente avversata da Farinacci, difensore di Dumini nel primo processo, che si svolse a Chieti nel gennaio 1926, con l’interrogatorio di Bruno Cassinelli, il quale rivelò che si trattava solo di una macchinazione dei socialisti per trascinare sul banco degli imputati i capi del fascismo.
Il tribunale credette a Cassinelli: solo dopo vent’anni si seppe che Cassinelli, un avvocato fiorentino già schedato come socialista rivoluzionario, poi deputato della sinistra, aveva contrattato il prezzo della sua testimonianza con il direttore generale della pubblica sicurezza Crispo Moncada, succeduto a De Bono, costretto alle dimissioni dall’incalzare degli eventi, e poi con il capo di gabinetto del Ministro degli Interni.
Cassinelli aveva svolto, prima di vendere la sua testimonianza, una sua indagine personale sullo svolgimento dei fatti: per poter chiedere una cifra tanto elevata da rendere necessario un secondo incontro per smentire la sosta al San Giacomo, doveva evidentemente aver raccolto consistenti elementi a favore di quella sosta.
Anche se non esiste alcun documento dell’ospedale in proposito, è verosimile che Matteotti ucciso — con o senza premeditazione — da uno dei cinque — probabilmente da Albino Volpi — subito dopo la cattura, sia stato prima portato in ospedale per un ormai impossibile soccorso e poi sepolto dove fu trovato.
Il finale fu dunque probabilmente diverso da quello progettato: l’interrogatorio e poi la morte secondo il “testamento americano” di Dumini; una aggressione a scopo intimidatorio, seguita da percosse, se si tengono ferme le prime dichiarazioni dello stesso Dumini e le risultanze del primo processo.
Ad essere processati, oltre a Dumini, furono Volpi, Viola, Poveromo e Malacria, i cinque che avevano materialmente commesso il fatto. Dumini, Poveromo e Volpi furono condannati a 5 anni, 11 mesi e venti giorni di reclusione di cui quattro anni amnistiati. Dopo poco più di due mesi erano liberi. Malacria e Viola furono invece assolti e scarcerati.
Panzeri, Putato e Thierschald furono assolti in istruttoria: Panzeri per insufficienza di prove, gli altri due per non aver commesso il fatto. Rossi e Marinelli, ritenuti i mandanti, evitarono il processo per una sopravvenuta amnistia, così come vennero pure amnistiati due personaggi pure implicati nell’omicidio, quel Filippelli che aveva preso in affitto la famosa Lancia, e Filippo Naldi, un enigmatico finanziere della prima metà del secolo, finanziatore del giornale di Filippelli, probabile fiancheggiatore e sovvenzionatore del fascismo per conto di gruppi finanziari italiani ed internazionali.
Uscito indenne da tutti i processi, Naldi riapparve nel 1943 a Brindisi capo dell’ufficio stampa di Badoglio, di cui divenne l’ispiratore politico e fondò un partito — la Concentrazione democratico-liberale — con diversi ministri nel governo e solide radici nella massoneria italiana.
Con la sentenza della Corte d’Assise di Chieti, non appellata in Cassazione dagli imputati (Volpi e Poverarno presentarono il ricorso ma poi non gli diedero corso) si chiuse il primo atto del delitto Matteotti.
La Corte accolse la tesi dell’omicidio preterintenzionale e delle motivazioni politiche e non andò oltre, anche perché probabilmente non avrebbe potuto fare di più. La nomina di Farinacci, uno dei fascisti più fanatici ed intransigenti, a difensore di Dumini dimostrava chiaramente le intenzioni di un partito politico che, dopo il discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925, si avviava ormai decisamente sulla strada del regime in uno Stato che dello Stato liberale e garantista conservava ormai solo la facciata.
Rimase così confinato — ed in parte rimane tuttora — in una zona d’ombra il motivo del delitto, o quanto meno dell’aggressione, al segretario del P.S.U.: nei sessanta anni successivi sono state proposte decine di tesi diverse in proposito, più o meno suffragate da documenti ma tutte non completamente convincenti.
Nemmeno il recente ritrovamento di documenti che Mussolini portava con sé al momento della cattura in tre cartelline intestate al PNF con la dicitura “Processo Matteotti” hanno consentito di fare piena luce su quanto accadde a Roma in quel giugno 1924.
Tutti o quasi coloro che a vario titolo si sono occupati della questione hanno escluso che l’assassinio di Matteotti possa essere ricondotto a quello di Bonservizi in Francia, ad opera di un anarchico italiano, Bonomini, anche se nel processo che ne segui non risultarono chiari i motivi e gli eventuali mandanti dell’omicidio, certamente però non da ricercarsi tra i socialisti italiani in Francia.
Maggiore credibilità ha la tesi che riconduce il rapimento (la morte sarebbe stata un incidente di percorso) del deputato socialista alla sua contrarietà alle aperture che Mussolini stava facendo verso l’opposizione, e la CGIL in particolare.
Il discorso tenuto alla Camera il 30 maggio 1924 da Matteotti, di netta chiusura verso questa ipotesi, che trovava consensi anche nel P.S.U., avrebbe provocato le ire di Mussolini che avrebbe addirittura ordinato la eliminazione del deputato socialista. A sostegno della tesi viene citata la frase pronunciata da Matteotti all’uscita dall’aula dopo il discorso che invitava gli amici a preparargli ormai il funerale.
E’ una tesi piuttosto debole: le aperture politiche del Presidente del Consiglio erano più apparenti che reali, dettate dalla necessità di superare il momento difficile della presa del potere, utilizzando abilmente le divergenti opinioni esistenti fra i suoi oppositori, alcuni dei quali, ad iniziare dallo stesso Turati, segretario dell’altro partito socialista, ritenevano possibile far rientrare il fascismo nell’area della legalità sancita dallo Statuto del regno.
Le asserzioni degli imputati del delitto, ed in particolare di Dumini, a proposito di ordini ricevuti da Mussolini attraverso Marinelli e Rossi non solo non sono suffragate da alcun documento ma mostrano chiaramente un intento ricattatorio: chiamando in causa il Capo del fascismo, ci si poteva assicurare una copertura politica di enorme valore per il processo che non sarebbe mancato.
Maggiore attenzione meritano le dichiarazioni rese da un altro imputato, Poveromo, dieci anni dopo lo svolgimento dei fatti. Secondo i fascicoli a suo nome della polizia politica, conservati presso l’archivio di Stato, Poveromo sostenne più volte che lo scopo del sequestro di Matteotti era stato quello di sottrargli documenti di cui era in possesso.
La dichiarazione fu ripetuta dopo il nuovo arresto avvenuto nel 1945: Dumini avrebbe detto ai suoi compagni nell’impresa che “era necessario impossessarsi dei documenti che (Matteotti) aveva con sé perché erano abbastanza compromettenti per Mussolini e per il partito”. Pertanto, dopo l’uccisione di Matteotti, Dumini si sarebbe allontanato subito con la borsa sottratta a Matteotti –per portarla, credo, a Marinelli e a Cesare Ressi”. La testimonianza però fu successivamente ritrattata.
Albino Volpi, probabilmente l’esecutore materiale del delitto, fece subito dopo la morte di Matteotti confidenze analoghe ad un amico, parlando di documenti compromettenti da sottrarre al deputato socialista quale scopo del suo rapimento.
A parte l’imprecisione della borsa, che la moglie di Matteotti negò che quel giorno il marito avesse con sé, è probabile che a Matteotti vennero sottratti documenti contenuti nella grande busta che, secondo la moglie, portava con sé quando quel pomeriggio usci di casa.
Esistono infatti testimonianze concordi di Naldi e Filippelli circa la consegna al segretario di Mussolini, Fasciolo, da parte di Dumini del passaporto di Matteotti e di una lettera a lui indirizzata. E i documenti contenuti nella busta, ammesso che ve ne fossero? Mistero, un mistero impenetrabile fino ad oggi e che recenti indagini condotte anche su archivi inglesi e statunitensi consentono almeno in parte di dissipare.
Un primo filone di indagine è la regolamentazione del gioco d’azzardo in Italia. All’inizio degli anni ’20 c’era una forte pressione da parte di gruppi finanziari italiani e stranieri per abrogare le norme che vietavano l’apertura di case da gioco, anche se numerose erano quelle clandestine.
Aldo Finzi, sottosegretario agli interni, chiamato poi più volte in causa per vere o presunte complicità nel delitto Matteotti, era tra coloro che sostenevano la spinta della Banca Commerciale alla liberalizzazione dell’apertura dei casinò, fonte di enormi guadagni per i finanziatori palesi o occulti.
Il 25 aprile 1924 il Consiglio dei Ministri approvò un decreto legge che liberalizza l’apertura delle case da gioco: era quanto atteso da chi, come De Bono, contava di adibire a casinò alcuni alberghi di Vallombrosa utilizzando i fondi dell’associazione degli ufficiali in pensione ausiliaria speciale di cui era Presidente, o come Finzi, che propose la costituzione di un sindacato degli impiegati della case da gioco, o lo stesso Dumini, incaricato da un affarista di intercedere presso De Bono per la concessione dell’autorizzazione del gioco d’azzardo nelle maggiori località turistiche d’Italia: Viareggio, Sanremo, Salsomaggiore, Montecatini, Rapallo, Lido di Venezia.
L’emanazione del decreto legge sembrò soddisfare tutte queste aspettative. Le reazioni dell’opinione pubblica consigliarono però Mussolini a cambiare idea: il decreto legge venne fatto decadere e i Prefetti ricevettero l’ordine di vietare l’apertura dei casinò.
Matteotti conosceva il largo coinvolgimento di uomini eminenti del fascismo nascente nell’affare delle bische? Erano questo l’oggetto dei documenti di cui si temeva la divulgazione?
La storiografia fascista ha insistito anche in tempi recenti su questa ricostruzione dei fatti, argomentando anzi dalla appartenenza alla Massoneria di molti personaggi interessati alle nuove case da gioco (e forse dello stesso Matteotti), per ricostruire il delitto come una vendetta massonica, decisa addirittura in Francia, nella sede del Grande Oriente di Rue de Cadet. Non esiste tuttavia alcun documento che consenta di andare oltre in questa ricostruzione dei fatti.
Maggior spessore ha l’ipotesi che, pur muovendosi nello stesso alveo dell’affarismo fascista, pone l’accento sulla concessione nel 1924 alla Società statunitense Sinclair Oil del monopolio della ricerca di oli minerali, gas naturali e idrocarburi in Sicilia, Emilia, parte del Veneto e parte della Marche per dieci anni, alla scadenza dei quali la società avrebbe dovuto indicare l’area più ristretta di 75.000 ettari dove intendeva procedere all’estrazione per i successivi quarant’anni.
Era una seria sconfitta per la Standard Oil, una compagnia pure statunitense che aveva invano tentato di bloccare la convenzione, che minacciava da vicino la sua posizione di assoluta preminenza nel mercato del petrolio raffinato in Italia: controllava infatti circa l’ottanta per cento della distribuzione.
Il successo della Sinclair sancito dalla firma della convenzione il 29 aprile 1924 fu però di breve durata. Nel novembre dello stesso anno la commissione della Camera dei deputati che esaminò la convenzione per la ratifica si mostrò poco propensa all’accordo, nettamente squilibrato a favore della Sinclair e chiese notizie al Ministro dell’Economia a proposito di “cointeressenze della Sinclair col trust mondiale del petrolio”, sulle disavventure “giudiziarie e borsistiche” della società in America e su passati inadempimenti contrattuali della stessa società nei confronti dell’Unione Sovietica, con la quale negli anni precedenti aveva stipulato una analoga convenzione.
Il 4 dicembre 1924 Mussolini fece diramare un comunicato nel quale si dichiarava “personalmente contrario” alla ratifica della convenzione.
Henry Sinclair, presidente della società, capì subito che l’aria era cambiata e tolse Mussolini dall’imbarazzo di una decisione contraria del Parlamento autorizzando subito dopo il suo rappresentante a Roma a comunicare al Governo Italiano la rinuncia della compagnia petrolifera alla tanto sospirata convenzione.
Per ottenerla era stato infatti profuso in Italia molto denaro tra burocrati, politici ed altro ancora era stato sicuramente promesso dopo la ratifica della convenzione. Tra i sostenitori di essa, come ha dimostrato una recente indagine condotta su documenti ufficiali americani, c’era Aldo Finzi, punto quasi obbligato di passaggio tra fascismo ed alta finanza, italiana ed estera, presente alla riunione con Mussolini, De Bono, Marinelli e Cesare Rossi in cui fu deciso, alla vigilia del delitto Matteotti, una accentuazione della lotta agli oppositori del fascismo.
Tutto ciò non significa ancora ricondurre il delitto Matteotti all’affare Sinclair e al possesso da parte del deputato socialista di documenti riguardanti la compromissione di esponenti del regime nella vicenda.
Maggiore fondatezza acquista l’ipotesi se si considera che Matteotti nel mese di aprile 1924 aveva fatto un lungo viaggio in Belgio, Inghilterra e Francia e che a Londra aveva avuto incontri con esponenti del partito laburista inglese e delle Trade Unions.
Appunti conservati nell’archivio dell’Indipendent Labour Party, con esponenti del quale Matteotti ebbe pure un incontro, indicano tra i temi trattati “le vicende scandalistiche dei petroli e delle bische”. Non è escluso che in quell’occasione Matteotti possa aver avuto ulteriori notizie circa i rapporti tra la Sinclair ed esponenti fascisti.
Gli inglesi erano direttamente interessati alla questione: la British Petroleum, filiale italiana della Anglo Persian Oil Company, una compagnia nazionalizzata inglese, tendeva ad inserirsi nel mercato italiano ai danni della Standard Oil e non poteva vedere di buon occhio l’inserimento di un terzo incomodo — la Sinclair — in questa lotta.
Sta di fatto che il leader dell’I.L.P. H. N. Blensford, già il 20 giugno, pochi giorni dopo il delitto, indicò in un articolo su “New Leader” la esistenza di un rapporto tra la morte del deputato italiano e la probabile denuncia da parte sua di oscure vicende a proposito di bische e petroli.
Che gli inglesi ne sapessero molto in proposito è confermato da un articolo apparso nel luglio 1924 sul “The Daily Herald” in cui il corrispondente da Roma affermava che la Sinclair aveva versato trenta milioni di lire ad un gruppo composto da Arnaldo Mussolini, direttore de “Il popolo d’Italia” e fratello del Presidente del Consiglio, Aldo Finzi, Ettore Rosboch, consulente del ministro dell’economia De Stefani e da altri uomini politici non nominati.
I tanto temuti documenti di Matteotti riguardavano dunque la vicenda dei petroli? È molto probabile: nell’articolo pubblicato postumo, nel luglio 1924, sulla rivista mensile “English life” con il titolo “Machiavelli, Mussolini and Fascism” Matteotti parlò espressamente di “molte gravi irregolarità riguardanti” la concessione Sinclair aggiungendo che “alti funzionari possono essere accusati di ignobile corruzione e del più vergognoso peculato” e che “noi siamo già a conoscenza” della identità di alcuni dei corrotti.
Tutto chiaro dunque se non fosse per le testimonianze della moglie e dei due cognati di Matteotti che, nel corso della istruttoria del primo processo, smentirono il possesso di documenti importanti da parte del deputato socialista, così come lo smentirono uomini politici a lui vicini come Modigliani e Turati.
Volontà di Matteotti di tenere i suoi congiunti all’oscuro di tutto e dei suoi amici politici di dare una spiegazione tutta politica del delitto o effettiva assenza di documenti compromettenti nelle mani del segretario del P.S.U.?
È una domanda rimasta finora senza una risposta adeguata, come senza risposta è rimasta quella che riguarda il possesso da parte di Matteotti di documenti di prova di falsi commessi dal Governo nella predisposizione del bilancio dello Stato per il 1924/25 per affermare un raggiunto pareggio di bilancio. Matteotti era intervenuto sul disegno di legge nell’esame preventivo presso la Giunta del Bilancio della Camera, ma lo scarno verbale non fornisce esaurienti indicazioni circa le critiche formulate.
Risulta solo che Matteotti pose al Presidente della Giunta Salandra tre quesiti: dalla relativa risposta sarebbe dovuto restare dimostrato il falso del Governo, ma è difficile che Matteotti fosse in possesso di documenti in proposito. D’altra parte i giornali del 6 giugno pubblicarono i quesiti di Matteotti: essi già da quella data cessavano perciò di costituire un pericolo da evitare con l’uccisione di chi li aveva formulati.
D’altra parte legare la morte di Matteotti al possesso di questo o quel documento è senza dubbio riduttivo. Non esiste infatti nessuna prova inconfutabile della loro esistenza (anche se è presumibile che esistessero, almeno alcuni essenziali per dimostrare la tesi espressa sulla rivista inglese).
Se poi Matteotti ne era in possesso non vi era motivo perché li portasse con sé recandosi in un qualunque pomeriggio alla Camera per preparare il suo intervento sul bilancio dello Stato, né i suoi avversari politici potevano ritenerlo tanto ingenuo da farlo.
La sottrazione materiale dei documenti quale scopo del sequestro fu dunque con ogni probabilità una invenzione di Poveromo, al quale fu forse lasciato credere da Dumini per dare uno scopo di immediata comprensione all’aggressione.
Ciò che pareva piuttosto temibile era la conoscenza da parte di Matteotti di nomi e fatti a proposito dell’affarismo di molti gerarchi fascisti anche per fare fronte alle ingenti spese sostenute per i giornali fiancheggiatori. Sotto questo profilo Matteotti era una tale minaccia da impensierire seriamente i personaggi coinvolti in quei fatti, fino all’adozione di misure estreme.
Il processo di Chieti non dette risposta alle molte domande sul delitto. Ancora meno ne diede quello che si svolse nel 1946 presso la Corte d’Assise di Roma, dopo che nel 1944 la II sezione penale della Cassazione, in base all’art. 6 del decreto legislativo Luogotenenziale 27 luglio 1944 n. 159, aveva dichiarato inesistente la precedente sentenza in quanto su di essa aveva influito lo “stato di morale coercizione determinato dal fascismo”.
Davanti alla Corte d’assise comparvero nel 1946 Dumini, Viola e Poveromo, già condannati nel precedente processo, oltre a Cesare Rossi, successivamente processato e condannato per atti di ostilità al fascismo, e Francesco Giunta, all’epoca in cui si svolsero i fatti segretario del PNF e accusato di essere fra i mandanti del delitto.
Rossi fu prosciolto per amnistia dall’accusa di aver costituito la Ceka e di aver organizzato il sequestro mentre fu assolto per insufficienza di prove dall’accusa di correità nell’omicidio. Pure assolto per insufficienza di prove fu Giunta: la Corte di Cassazione tre anni dopo lo assolse con formula piena.
Dumini, Viola e Poveromo furono condannati all’ergastolo, pena commutata in trent’anni di reclusione. Nel 1951 la Corte d’Appello condonò undici anni di reclusione a Poveromo e Dumini, che il 22 marzo 1956 uscì dal carcere con la condizionale. Morì a Roma nel 1967. Nello stesso anno mori Cesare Rossi. Poveromo era morto in carcere a Parma nel 1952. Viola restò e fu giudicato in contumacia in quanto dichiarato latitante. Albino Volpi era morto nel 1939. Putato, dopo una lunga permanenza in Eritrea, rientrò nel 1947 a Milano, libero, a processo ormai concluso. Malacria era morto nel 1934, funzionario del Ministero delle Colonie. Marinelli e De Bono, tra i firmatari dell’ordine del giorno nella seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 che aveva sancito la fine del regime furono condannati al processo di Verona, e fucilati nel 1944.
Aldo Finzi, il sottosegretario agli interni che Mussolini fece dimettere e che certamente sapeva molte cose sull’uccisione di Matteotti, fu fucilato dai tedeschi nel 1944 alle Fosse Ardeatine: aveva dato aiuto nella sua casa vicino a Palestina, in provincia di Roma, a un gruppo di partigiani tra cui erano alcuni prigionieri di guerra russi fuggiti da un campo di concentramento.
Il delitto Matteotti cambiò la vita di molti: non tutti pagarono il prezzo della partecipazione diretta o indiretta al misfatto ma per tutti la vita divenne diversa.
Bibliografia essenziale
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