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Il divenire viruspoietico del mondo globalizzato

Non sembrerà un paradosso di questo mondo dell’immagine, tutto costruito sulla potenza del flusso comunicativo, che proprio ciò che sta mettendo in ginocchio un modello di sviluppo, un modello di società, sembra essere più la potenza del messaggio mediatico che il reale impatto materiale di un’infezione virale.

In questi giorni ognuno di noi ha modificato, volente o nolente, i suoi comportamenti quotidiani. Abbiamo rotto delle routine delle quali sentiamo la mancanza e, contemporaneamente, della quale ci accorgiamo delle loro artificiosità.

Come sotto una crisi di astinenza, oscilliamo tra il desiderio di riattaccare il prima possibile la flebo, per ri-accomodarci sul lettino della catena incessante dei nostri acquisti e sentire scorrere, nelle nostre vene, il fluido arteriosclerotico che occupa i nostri sensi dedicati alla rincorsa del consumo, oppure sforzarci di ri-aprire gli occhi e ri-cercare una coscienza del nostro fare, interrogandoci sul Senso delle nostre vite.

Questo fermo immagine della civiltà capitalistica globalizzata terrorizza di più del virus stesso perché svela la fragilità sistemica, la sua incompletezza, il suo destino effimero. Tra un singulto e l’altro, tra una ripetizione e l’altra di numeri di contagiati, ricoverati, di morti con e non per, andiamo avanti in una ricerca compulsiva dell’antivirus da far partire per ripulire il mondo da quella piccola catena di aminoacidi autoreplicantesi che sta mettendo in discussione le forme di questo mondo.

È così che ci accorgiamo o almeno percepiamo, che la costruzione del senso della vita ci è stata strappata dalle mani da decenni. Non è più un compito dell’umano, del suo fare contraddittorio e convulso, collettivo o individuale che sia. Da decenni si è costruita una vera e propria industria, si è costruito un sistema macchinico che lavora incessantemente nella costruzione del senso della vita. Una “macchina” in grado di ingoiare ideologie e religioni e a trasformare le persone, tutte, anche quelle che si pensano restie, non omologate, esterne alle logiche del mercato, in target di consumo. L’Industria dei sensi offre, al tempo stesso, sia l’immaginario – individuale e collettivo – al quale riferirsi, sia le forme specifiche con le quali tale immaginario si può concretizzare in base al livello economico caratteristico del singolo. Quello è il campo di gioco dato, quello lo spazio all’interno del quale ci si può muovere, quello il grado di libertà agibile, apparentemente e artatamente trasmesso e percepito come infinito. Il paradosso, infatti, è che quell’unico e stretto recinto, come in un gioco di specchi e di rimandi, viene percepito come inesistente e la sua abolizione, cioè la restituzione al soggetto della libertà di andare oltre, risulta essere vissuta come la più grande privazione promessa e provata.

Il grado di libertà ricercato non è più nella possibilità di fare o meno, ma di poter consumare o meno, e questo fa una differenza sostanziale dell’orizzonte di vita umano a cui si tende. Questa è, antropologicamente, la differenza maggiore con i nostri antenati.

Anche nelle scelte delle politiche delle sinistre questo scarto risulta discontinuo con le sue stesse radici. Da decenni, infatti, oltre ad invocare, teoricamente, un “altro mondo possibile”, la sinistra è a corto di analisi sulle nuove forme di accumulazione, sulle novità della produzione di valore e ha ripiegato sulle battaglie legate alle sole libertà “interne” al terreno di gioco definito dal modello del consumo, risultando incapace di indicare il sentiero di marcia che porti al di fuori dell’attuale sistema.

Lo stato di eccezione prodotto dall’irruzione di un cigno nero, dunque, rompe o rafforza il dominio esistente che si maschera dietro il senso della vita che il sistema produce incessantemente e che viene inoculato massivamente attraverso gli apparati tecno-comunicativi? E il senso di smarrimento diffuso e che è palpabile tra le persone, è da attribuire ad una presunta rottura della nostra libertà di muoverci e commerciare o è dovuto alla discontinuità del ciclo di vita quotidiano che è dominato dal meccanismo compulsivo del costante consumo? Qual è l’eccezione che ci terrorizza nel profondo? Quella della limitazione nel poter uscire o il terrore di perdere il livello dei consumi a cui siamo giunti (ognuno per il proprio, apparentemente misero, livello)?

E lo sconvolgimento profondo, lo smarrimento, è dovuto al riapparire, nel corpo sociale, dell’immagine della morte come elemento costitutivo (e ineliminabile) della vita, una presenza talmente rifiutata nella norma di vita da divenire ormai una vera e propria assenza, proprio dallo schema della perenne giovinezza, ricercata e sponsorizzata incessantemente, del modello di vita ideale rappresentato e sostenuto da L’Industria di Senso? Può essere data una distinzione tra la struttura del dominio e la forma della vita possibile in una società complessa dominata dall’Industria di Senso?

La compulsiva voglia di comunicare o consumare comunicazione in merito al contagio, deriva dalla ossidata condizione del comunicare istantaneamente e localmente, senza capacità di astrazione e generalizzazione, senza poter usare il filtro della consapevole coscienza del dire e del fare? E se non possiamo non comunicare, è nell’atto istantaneo del vivere che viene riprodotto meccanicamente dai dispositivi digitali non un flusso comunicativo, ma un profluvio di sillabe connesse che speriamo assumano un senso nel processo di lettura dell’altro? Per noi, nell’atto del digitare, quelle stesse lettere, quegli stessi pixel, traslano quasi istantaneamente, dall’immaginazione essudata dalla nostra istantanea creatività direttamente agli archivi digitali della storia, senza l’obbligo di essere vissute realmente.

Flusso di comunicazione

È così che i limiti del nostro linguaggio, con i quali siamo in grado di descrivere e raccontare, si trasformano in quelli del mio mondo e quel compulsivo senso dell’essere, consumato tutto sulla tastiera virtuale di un apparato, si trasforma in confine del mondo a cui posso appartenere, attraverso un processo di limitazione autoprodotta proprio dal limite del senso delle parole comunicate, dell’immagine postata. Una vita trasformata in mediazione tra il desiderio dell’essere e l’accumulo di dati delle piattaforme di senso che governano i flussi comunicativi tra le persone ai tempi del Covid19.

La realtà, quindi, si dissolve nel cortocircuito del flusso massmediatico, al quale ci si rivolge per poter conoscere la verità che pensiamo il sistema ci voglia far credere e quella “privata” delle relazioni social a cui affidiamo la possibilità di sciogliere l’ansia, non tanto della nostra vita, ma del ritorno alla normalità del consumo. Senza accorgercene, in maniera nascosta così come ci si contagia, il nostro divenire assume una forma viruspoietica, trasformandoci, istantaneamente e impercettibilmente, da essere umani a sequenze di aminoacidi informativi capaci di inocularsi nel grande flusso della comunicazione virale.

È in questo processo che la morte, la grande espulsa, torna a sovrastare l’Essere e, anche se non ci sfiorerà neanche per un secondo, la sua presenza torna sulla scena a ricordarci che il destino delle nostre vite, delle nostre società, del mondo, passa per la consapevolezza che sappiamo costruire con la nostra vita.

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Sergio Bellucci

Sergio Bellucci, giornalista e scrittore, dirigente politico e manager, ha scritto numerosi editoriali, articoli e saggi sui temi della comunicazione e della società dell'informazione. Membro del Comitato d'Onore dell'Osservatorio Internazionale sull'Audiovisivo e la Multimedialità (OIAM) della Fondazione Roberto Rossellini per l'Audiovisivo. È stato dipendente del gruppo Fininvest dal 1978 e fino al 1993, durante tale periodo ha svolto anche attività sindacale nella CGIL come membro della Segreteria Nazionale della FILIS. Dal 1995 al 2006 è stato responsabile nazionale della Comunicazione per il Partito della Rifondazione Comunista. Dal febbraio del 2013 è direttore del quotidiano Terra e nel 2014 è diventato Presidente della Free Hardware Foundation Nel libro E-work. Lavoro, rete e innovazione analizza l'impatto delle nuove tecnologie digitali sulla vita umana con una particolare attenzione al mondo del lavoro. Secondo le sue analisi, l'avvento del digitale comporterebbe una "nuova organizzazione scientifica del lavoro", definita "taylorismo digitale", attraverso un impiego distorto della rete. Nelle tesi di E-work si prospetta la nascita del "lavoro implicito", il lavoro effettuato obbligatoriamente, senza nessuna retribuzione e attraverso strumentazione a carico del lavoratore, che le piattaforme digitali stanno espandendo nel loro ciclo produttivo. Insieme a Marcello Cini ha scritto “Lo spettro del capitale. Per una critica dell'economia della conoscenza” analisi del cambiamento epocale del capitalismo avvenuto negli ultimi venti anni: il passaggio da un'economia materiale ad un'economia immateriale, che produce un bene intangibile e non mercificabile: la conoscenza.

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