La missione del Presidente Draghi in Libia e la sua dichiarazione sul Presidente Turco: “È un dittatore”, hanno suscitato un gran quantità di valutazioni, incentrate sul ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, in Europa, a volte ingenerando in alcuni casi quel tipo di confusione che lo scrittore Henry Miller, in un suo noto romanzo, “Tropico del Capricorno”, così definì: “Confusione è una parola che abbiamo inventato per un ordine che non comprendiamo”. Miller non si riferiva a quello che conosciamo come Ordine Mondiale, ma la citazione rende egualmente l’idea.
In sintesi. L’Italia è, al momento, un soggetto debole del sistema di relazioni internazionali perché da circa trent’anni ha dimenticato di essere una penisola mediterranea e si è concentrata, con continuità metodologica, a innervare la sua preponderante attenzione ai rapporti trans alpini. Vero è che il solo interscambio commerciale della Lombardia con la Germania equivale a quello di tutta la nazione col Giappone, ma l’esagerata valorizzazione degli interessi locali per timore della disgregazione dello Stato unitario ha profondamente inciso sulle necessarie priorità della nostra politica estera. Si è formato, nella Costituzione materiale (grazie anche alla sciagurata modifica del Titolo quinto della Carta) uno Stato che da unitario e fisicamente insulare è stato trasformato in un arcipelago, arlecchino nelle leggi e nelle fortune, sottovalutando peraltro quanto l’isolamento e l’impoverimento del Sud avrebbe, come è accaduto, impoverito lo stesso Nord. La contemporanea aumentata ignoranza nel nostro gruppo dirigente della Storia e dei valori fondanti della nostra Costituzione scritta è drammaticamente palese. È di questi giorni la meraviglia di una nota scrittrice, che si auto reclama espressione della cultura di per sé sana ed eticamente educativa, per la nomina del massimo esperto della logistica nazionale, un Generale, a Commissario straordinario per la organizzazione logistica dei vaccini anti covid; la saccente preoccupazione espressa per una militarizzazione anti costituzionale dello stato è ovviamente erronea e facilona, perché è proprio la Costituzione che affida alla pubblica Amministrazione il servizio “con onore” per il bene dei cittadini. Nel caso specifico solo il sistema militare è in grado di gestire una logistica emergenziale e contemporanea su tutto il territorio nazionale e il generale Francesco Paolo Figliuolo è, per convinzione non soltanto italiana, uno straordinario competente. Questo tipo di faciloneria, non artistica ma umorale, quando è impiegata nella analisi di altri campi del sapere genera “confusioni”.
Si possono davvero, per esempio, applicare vecchi schemi di inquadramento geopolitico del Mediterraneo nel secondo millennio? Diplomazia, politica interna, Difesa, Sviluppo economico davvero rispondono nell’analisi ai “basilari” sistemici dell’Ottocento sia pur aggiornati dagli effetti provocati dalla conclusione di due Guerre Mondiali e della Guerra Fredda?
Si può ignorare discutendo del Mediterraneo che, pur dopo il fallimento comprovato della ideologica interpretazione del liberalismo globalizzato come Ordine politico planetario, è tuttavia ben rimasta in vita, anzi maggiormente radicata, la modificata concezione di Tempo e Spazio, imposta dal successo inarrestabile della rivoluzione informatica?
Vi sono, si capisce, numerose oscure pagine ancora da leggere sulle attuali limitazioni alle libertà individuali e alla democrazia che sono diretta conseguenza della gestione della nuova tecnologia con criteri sinora non regolati, ma non possiamo negare che sono stati trasformati i vecchi parametri sui quali si basavano gli studi geopolitici. Questa regola è universale e tocca anche il Mediterraneo.
Il Mare Mediterraneo non è più percepibile come un lago e tuttavia non “è tornato” il centro del mondo come lo era prima delle grandi scoperte geografiche, “è diventato” un soggetto nuovo e diverso, fondamentale allo sviluppo planetario.
Lo ha dimostrato visivamente il grave incidente che ha bloccato il canale di Suez.
Fino allo scorso decennio un blocco del Canale sarebbe stato grave ma non esiziale, oggi ha fatto tremare il mondo. Una volta avvicinare l’Asia all’Europa era importante, lo capirono benissimo gli inglesi che promossero e svilupparono “la valigia delle Indie” anticipatrice dell’attuale “via della Seta”. Ma altro era trasportare merci coloniali da trasformare industrialmente a casa propria, altro inviare nella ricca Europa prodotti finiti nelle grandi fabbriche del mondo sostanzialmente concentrate in Asia. Non si tratta più di far tornare nel nostro continente fabbriche a suo tempo delocalizzate, perché velocità di produzione e di trasporto hanno modificato lo Spazio e il valore Tempo, mentre il costo della produzione (materia prima e lavoro) non è al momento oggetto di possibile concorrenza. Il mercato europeo, che resta un’area di consumi straordinariamente attrattiva, più di quella statunitense, deve essere continuamente rifornito e stoccare volumi enormi per poi distribuirli a ritmi elevatissimi (pensate ad Amazon), il che non è materialmente possibile senza un continuo ininterrotto rifornimento. Un blocco prolungato non può che bloccare l’intero sistema.
Il Mediterraneo, per conseguenza, è restato dov’era ma è cambiato, come è cambiato il mondo. Negli ultimi trent’anni il sistema “globalizzato” ha imposto una crescita del trasporto merci via mare che è passato da 4 Miliardi di tonnellate agli attuali 11 Miliardi. Triplicato il traffico con la diminuzione del trasporto petrolifero.
Pensiamo anche alla nuova politica energetica, assolutamente necessaria per la salvaguardia del Pianeta (e forse già in ritardo d’attuazione anche grazie al quadriennio Trump negli Stati Uniti, ai contorcimenti cinesi, alla deforestazione amazonica ciecamente perseguita dal presidente Bolsonaro, ed ai mille piccoli ritardi europei- una volta tanto l’Italia può essere considerata un buon esempio-). Se il consumo degli idrocarburi viene sempre più sostituito da altre forme di combustione non fossile, i pur ricchi giacimenti petroliferi del Nord Africa in generale e del Vicino Oriente diventano, assieme alle aree marittime mediterranee, ancora più importanti di quanto lo siano state nel passato proprio per gli enormi non calcolabili giacimenti di gas. Da qui l’interesse diverso, nuovo e preoccupante di un Oriente politico che per la prima volta cerca nuove collocazioni strategiche nel Mediterraneo.
Il passato recente oggi, nell’accelerazione della Storia, sembra diventato lontano. Si parla poco e si studia ancora meno la scarsa capacità di analisi e prospettive che ha portato alla constatazione, dieci anni dopo, che le politiche di suggerimento, collaborazione e sostegno nell’area dell’Amministrazione Obama alle diverse Primavere Arabe si sono concluse con una bruciante sconfitta del sistema occidentale.
Il coraggioso, e profetico, viaggio di Papa Francesco in Iraq è già ora menzionabile, oltre che per gli espliciti richiami alle origini abramitiche delle tre grandi religioni monoteiste- la ebraica, la islamica e la cristiana- e per il profondo e in qualche modo straziante appello alla Pace, per la esplicita ed evidente sottolineatura di come e quanto la Chiesa romana convintamente indichi la necessaria visione del mondo nuovo nel quale, con una accelerazione della Storia, siamo chiamati a vivere. Dopo aver incontrato la guida del mondo sunnita, Muhammad Ahmad al Tayyb, rettore dell’Università al-Azhar, la visita all’Ayatollah Al-Sistani, guida dello sciitismo non teocratico, ha indicato con ferma lucidità la differenza sostanziale tra gli Accordi di Abramo, firmati, in nome di una real politik formalmente sostenuta da confessioni religiose tra USA, Israele, Emirati Arabi e Bahrein il 15 settembre del 2020, ed a cui si sono aggiunti altri paesi, tra i quali i fondamentali Arabia Saudita e Marocco, e la prospettiva di una pace duratura alla quale non possono essere estranee le volontà “non” teocratiche all’interno delle diverse confessioni islamiche.
Ciò non significa che non si debbano ben considerare i lati positivi, e ce ne sono!, del Patto siglato a Washington, ma che è saggio pensare che sono una importante ma temporanea strada da percorrere per giungere ad un più stabile equilibrio dell’area. Il fallimento della politica delle Primavere Arabe docet.
Si dice anche la verità quando si punta il dito sulla dissennata operazione militare scatenata in Libia dalla Francia, all’epoca presieduta dal mediocre Sarkozy, che si è dimostrato portatore di una cultura inadeguata alle variazioni del mondo e pericolosa, perché tendente a ripetere forme neocoloniali di accaparramento di posizioni ed interessi economici, anche dividendo un paese complesso e a lui sconosciuto come la Libia, con lo scopo miope di sostituire la presenza dell’Italia nella gestione delle fonti energetiche. Abbiamo visto come è andata a finire.
Ma l’Italia dov’era quando Sarkozy imponeva la scelta delle armi? Cercava di turare le falle delle sue dissennate politiche economiche, piangendo sottovoce per l’offesa al suo status di potenza regionale.
Anche qui l’ignoranza della Storia e desueti parametri d’analisi hanno reso un cattivo servigio. L’Italia non è, e lo sapevano Cavour, Garibaldi, Matteotti, Rosselli, De Gasperi, Nenni, Togliatti, Moro, Fanfani, Craxi, una grande potenza; è una grande nazione, talmente grande ed unica da essere essenziale alla vittoria o alla sconfitta di una alleanza, di un progetto. Questo sia in termini positivi che, ahinoi negativi.
Un esempio di negatività: la mancata soluzione delle nostre gravi anomalie che bloccano un sano, corretto, equilibrato sviluppo economico, porterebbero Germania e Francia, assieme all’area euro, in una situazione fortemente critica.
Un esempio positivo. L’entrata dell’Italia, nazione sconfitta, nell’Alleanza Atlantica, ha garantito per decenni il difficile equilibrio mediterraneo e negli anni ottanta dello scorso secolo fu, grazie al governo Craxi, con quella che sinteticamente si chiamò la politica “di Sigonella”, in grado di mutuare l’influenza mediterranea in un di più per l’Europa che si aprì (nonostante le resistenze inglesi e nord europee) alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo; poi fu fondamentale per alimentare una nuova politica est-ovest, al punto di far divenire non opportuna, ma necessaria la sua partecipazione alla all’ora ristretto gruppo di paesi economicamente e politicamente guida dell’Occidente, il G5 che divenne G7.
La grande meraviglia che ha suscitato Draghi con l’apertura di credito, subito accettata dal nuovo governo unitario libico, è dimostrazione che l’economista e banchiere conosce la storia e sa gestire complessi processi diplomatici. A Draghi non è sfuggita la oramai palese crisi del patto franco-tedesco, dovuto essenzialmente alle diverse ma contemporanee crisi che singolarmente colpiscono sia la Francia che la Germania. Da qui la necessità nei tempi cambiati di svolgere un ruolo “europeo”, non limitato all’interesse singolo dell’Italia nel Mediterraneo, ma come molla europea nell’area e all’interno della alleanza strategica, non sottoponibile a revisione, con gli Stati Uniti.
In Libia sono rimasti i mercenari russi e quelli turchi. Erdogan è sì il “dittatore” che cerca di risolvere lo scontento nazionale provocato da una crudele inosservanza dei diritti civili ed è ulteriormente alimentato dalla gravissima crisi economica che, ben prima del covid, ha portato ad una lunga serie di svalutazioni della moneta locale, ad un indebitamento senza precedenti, alla necessità di tenere in piedi sistemi vessatori di lavoro; il ”dittatore” è anche un partner infido e ricattatore che non esita a inviare navi da guerra per provocare, sino all’ultimo secondo utile prima dello scontro, nazioni formalmente alleate nel tentativo di compartecipare ricchezze energetiche, e di acquisire, in nome dell’Impero Ottomano che fu, un ruolo strategico diverso da quello che la Turchia atlantica aveva comunque svolto egregiamente.
Definire “dittatore” un autocrate eletto è solo in apparenza un errore, nella sostanza, così come lo fu per Biden nei confronti di Putin, è stato un messaggio capito non soltanto ad Ankara, ma in tutte le capitali europee, a Washington ed a Londra (che oramai dell’Europa fa parte soltanto geograficamente).
Anche a Mosca è arrivato il messaggio, doppio dopo l’espulsione pubblica dei responsabili del sistema spionistico di Mosca a Roma. I Russi non stanno a guardare e nel Mediterraneo, dove già difficoltosamente c’erano, operano per insediarsi stabilmente, per influire nelle nuove correnti dei traffici commerciali, nella distribuzione dell’energia e cercare una legittimazione di “maggiore“ potenza che l’Occidente in generale, gli Stati Uniti in particolare non vogliono riconoscerle.
Con la lucida freddezza quindi di chi sente l’urgenza di riformare il ruolo italiano all’interno dell’Unione europea, nei rapporti atlantici e con il maggior alleato, gli Stati Uniti, il presidente Draghi definendo Erdogan per quello che è ha inviato un messaggio chiaro all’amministrazione americana, la quale per prima aveva indicato il presidente turco come un “autocrate” da tenere sotto attenzione; alla Russia, che informalmente della Turchia è al momento sostanziale partner, nonostante la contrapposizione in Libia che serviva, e qualcuno spera che servirà nel futuro, a tenere divisa quella nazione, il governo italiano, così contradditorio negli ultimi anni tra stop and go con Mosca e Pechino, ha definito senza ambiguità che l’unica alleanza italiana è con gli Stati Uniti e che i tentennamenti tedeschi nei confronti della Turchia e della Cina non sono partecipati dall’Italia.
Draghi, è la mia interpretazione, vuol far sapere che l’Italia, grande nazione e non grande potenza, è pronta ad una rilettura delle istituzioni europee e delle sue politiche con la inedita edizione di una inedita triangolazione con Francia e Germania, ma non a costo di una differenziazione dagli Stati Uniti, che in prospettiva è leggibile tra le politiche di Washington e Berlino nei confronti della Cina.
Quindi il messaggio ad Erdogan e la promessa di una nuova presenza italiana in Libia sono anche un messaggio a Pechino. Sono passati i tempi, sembra di comprendere, delle reprimende di Hillary Clinton per le attività della diplomazia italiana a Benghazi, prodromo della drammatica fine di Gheddafi a cui deboli governi non riuscirono per lo meno ad offrirgli asilo salvandogli la vita, dopo averlo riverito indecentemente.
In ogni caso, oggi, è possibile perseguire vigorosamente ma concretamente, una nuova ed efficace politica estera, non distraendosi o annacquando la politica non soltanto economica e di difesa ma anche, forse soprattutto, quella dei principi che caratterizzano il diritto e la coscienza sociale, l’etica pubblica europea.
Occorre, con realismo, prendere atto che non ci potrà essere pace nel Mediterraneo senza l’Italia e questi ultimi dieci anni lo hanno dimostrato, ma non ci potrà essere politica mediterranea in particolare, estera in generale, senza profonde riforme economiche e istituzionali che ricompongano l’arcipelago frantumato ed egoista nel quale viviamo da trent’anni a questa parte.
Il compito prefisso è complesso, ardimentoso, non scevro da rischi, ma è alla nostra portata, perché non si propone di rispolverare vecchie e superate visioni dell’area regionale e del mondo, ma di sviluppare con generali benefici di tutti i paesi coinvolti, europei e non.
Occorre tuttavia che una politica così giustamente ambiziosa, questa legittima e necessaria ambizione la pratichi integralmente. Senza una nuova ed includente politica migratoria (i corridoi “umanitari” di Minniti memoria si sono dimostrati poco e insufficientemente usati); senza la promozione orgogliosa dei diritti e delle libertà individuali; senza la condanna e lo smantellamento dei campi lager che offendono l’etica sociale; senza uno stop alla vendita di armi sofisticate, comprese le navi da guerra di qualsiasi stazza a nazioni che violano i diritti umani (l’Egitto è un pessimo esempio) la intelligente e volenterosa politica disegnata dal presidente Draghi non attecchirà: sarebbe un vero peccato.
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