«E se hai in mano solo mosche, prova a darci anche del tu»
Enzo Jannacci, L’importante è esagerare.
Potrei iniziare a scrivere presentandomi. Dicendo che sono Melissa Mongiardo, che ho un assegno di ricerca in Sociologia dei Fenomeni Politici e che per questo ho deciso di scrivere un pezzo sulla crisi del Partito Democratico. Sarebbe una presentazione inappuntabile. Se non fosse che il motivo per cui ho deciso di scrivere non è perché ho una professionalità che mi fornisce gli strumenti per poterlo fare.
Ho sempre pensato che «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (Articolo 49, Costituzione della Repubblica Italiana) fosse uno degli articoli più belli della nostra Costituzione. Un atto d’amore messo nero su bianco dai nostri padri costituenti, il diritto dei cittadini ad esercitare il proprio amor di patria (che poi non si capisce bene perché la sinistra abbia dismesso un concetto importante come quello di patria confondendolo con quello di nazionalismo che è ben altra cosa!).
In breve, ho deciso di scrivere perché credo nei partiti politici (almeno sulla carta!). Che detto così potrebbe sembrare una burla, ma in realtà è la stessa motivazione per cui ho intrapreso un percorso di studi che legasse passione e interesse e che mi ha portato poi a voler rimanere nell’ambito della ricerca.
Ma procediamo con ordine, a partire da una presentazione a questo punto più appropriata.
Non sono mai stata comunista. Anche volendo (e Dio sa se avrei voluto!) non avrei potuto esserlo. Tecnicamente non sarei neanche voluta essere comunista. Avrei più propriamente voluto essere iscritta al PCI, che è cosa ben diversa.
Sono nata nel 1984, in ottobre. Berlinguer era morto a giugno. Pochi giorni dopo la sua morte, alle elezioni europee, sotto l’onda emotiva del cosiddetto “effetto Berlinguer”, il PCI per la prima (ed unica) volta supera la DC. Nell’ottobre di quell’anno Alessandro Natta è alla guida del partito. Nel 1988 gli succede Achille Occhetto che nel 1989, con la svolta della Bolognina, inaugura la stagione che porterà al superamento del PCI. Nel 1991 il PCI è ufficialmente sciolto, è febbraio, ed io non ho ancora compiuto sei anni. Non ho ancora dimestichezza coi partiti, ma in generale la politica è qualcosa che a casa dei miei genitori si respira quotidianamente. Siamo la generazione cresciuta con “Telekabul” e col faccione di Sandro Curzi. Sono gli anni delle bombe del 1992 e del 1993. I miei genitori sono stati iscritti al PCI ed ora hanno aderito a La Rete di Leoluca Orlando. Solo successivamente approderanno al PDS. Le nostre serate (mie e dei fratelli) coincidono spesso con le loro riunioni. Sezioni, case, salotti di militanti, il salotto di casa nostra. Pennarelli, album da colorare, Lego e socializzazione politica. Arrivata in prima elementare non avevo mai visto un album di figurine, ma ero assolutamente in grado di distinguere Gianni Minoli da Michele Santoro.
Io sono cresciuta così e tanto basta a giustificare questa fottuta passione.
Pur nutrendo un certo sospetto circa la vocazione maggioritaria e lo spirito del Lingotto di veltroniana memoria, sin dalla sua costituzione ho sempre guardato alla nascita del Partito Democratico con entusiasmo. Presto sopito. Se non era certo il partito che avrei voluto, era certamente quello che più degli altri ci si avvicinava. E tanto è servito, in anni di militanza, a farmelo vivere con la stessa abnegazione con cui si vive una relazione in cui si crede, nonostante le difficoltà che tutti i rapporti possono presentare. Ma in amore come in politica, non tutto è per sempre. Se gli anni dell’organizzazione giovanile ci hanno insegnato il valore dell’autonomia di azione e di pensiero, gli anni del partito hanno messo a dura prova questa nostra convinzione e hanno reso la vita di partito una sorta di corsa a ostacoli.
Ho avuto la fortuna, personale e politica, di aver avuto esempi integerrimi. Di quelli che ti educano alla fatica. Non è semplice, ma lo apprezzi dopo. Quando ti volti a guardare. Quelli che a casa non ti dicevano che eri stata brava quando avevi conseguito un obiettivo ma ti dicevano che avevi fatto il tuo. Così come in politica, avevi fatto quello che si doveva. Traguardi personali e costruzione del consenso costano fatica. E devi studiare, per l’una e per l’altra cosa, nessuno ti regala niente. Ed è sempre una prova costante.
Per l’autonomia di pensiero di cui sopra e per la visione plurale della politica che mi è stata insegnata, negli anni della militanza non ho mai badato (col senno di poi, al contrario dei più) a che cosa Melissa Mongiardo potesse trarre dal suo impegno, ma al se e al come l’impegno di Melissa Mongiardo potesse portare dei benefici per gli altri. Ma eravamo in pochi a vederla così. Davvero in pochi. Progressivamente le battaglie politiche sono diventate le battaglie delle tessere e le iniziative politiche perlopiù degli eventi per ingraziarsi questo o quel favore. E i congressi – a scapito della discussione interna e del confronto sui temi – erano ormai diventati competizioni personali. A dividerci non era più la linea politica, erano le persone. Congressi non per qualcosa, ma – soprattutto a livello locale – per o contro qualcuno.
E me lo sono domandata spesso, insistentemente: quello era ancora quel partito che più di tutti gli altri poteva somigliare a quello che avrei voluto? No, probabilmente era progressivamente diventato tra quelli più lontani.
Sia chiaro: né io, né i tanti della mia generazione che come me hanno appeso al chiodo la militanza, ci siamo mai sentiti migliori degli altri, anzi. Guidati dalla maledizione del poter dare sempre un po’ di più (ed implicitamente del non sentirsi mai davvero all’altezza), fanatici cultori del dubbio, ci siamo da sempre messi in discussione. Fino a domandarci, prima della resa, se la nostra volontà di lasciare il partito fosse l’evoluzione naturale di qualcosa le cui regole di ingaggio non ci andavano più bene, o se fosse invece debolezza, e ancora se infin dei conti non fossimo davvero stati all’altezza e se avessimo dovuto dare ancora di più.
Ma quello che ci trovavamo a vivere era ormai il partito degli “Yes, man!”, degli iscritti di comodo, dei candidati assolutamente digiuni di politica ma fedeli servitori del “grande elettore” di turno, degli iscritti a cui “offrire” la tessera per i congressi, dei votanti alle primarie con i 7 euro (2 per il PD + 5 per il disturbo).
E se mi leggete, e un pochino vi sentite chiamati in causa, non fate gli scandalizzati! Guardate indietro, voi li conoscete bene gli ingredienti che servono per passare in poche semplici mosse dalla costruzione della battaglia politica, all’acquisto del consenso. Dal riconoscimento della meritocrazia, al valore della cieca abnegazione.
Sia chiaro, io non mi sento migliore. Mi sento fortunatamente diversa.
Così come i tanti che in potenza avevano le carte più che in regola per essere la nuova classe dirigente e che invece hanno progressivamente preferito farsi da parte.
Perché per paradosso lo stesso partito che ci ha insegnato Gramsci «Studiate perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza» è lo stesso che, riposta con cura e ben lontano dagli occhi ogni parvenza di cultura politica, ci ha detto:
D – «Che cosa? Avete studiato?»
R – «Beh, sì…»
D – «Vabbè, ma ce li avete i soldi per le tessere?»
R – «Beh, veramente…no…»
D – «Ah, No? E allora come lo facciamo il congresso?».
…
La formazione e la militanza erano chiaramente diventate un disvalore. I valori erano altri. I congressi erano prove di forza.
Dalla sua costituzione con le primarie del 14 ottobre del 2007 ad oggi, il Partito Democratico, amalgama mai riuscita, ha cambiato ben dieci volte segretario: Walter Veltroni (ottobre 2007 – febbraio 2009); Dario Franceschini (febbraio 2009 – novembre 2009); Pierluigi Bersani (novembre 2009 – aprile 2013); Guglielmo Epifani (maggio 2013 – dicembre 2013); Matteo Renzi (dicembre 2013 – febbraio 2017); Matteo Orfini (febbraio 2017 – maggio 2017); Matteo Renzi (maggio 2017 – marzo 2018); Maurizio Martina (marzo 2018 – novembre 2018); Nicola Zingaretti (marzo 2019 – 14 marzo 2021); Enrico Letta (marzo 2021).
Ha perso in dieci anni più della metà dei suoi iscritti passando dagli 831.042 tesserati del 2009 ai 412.675 del 2019. Ha visto costantemente decrescere il proprio consenso elettorale alle elezioni politiche, passando dai 12.095.306 voti alla Camera del 2008 ai 6.161.896 del 2018.
In aggiunta a ciò, ad aver minato la solidità del Partito Democratico hanno senza dubbio contribuito le scissioni figlie di visioni divergenti e scontri interni alla gestione del partito; scissioni che si sono susseguite ininterrottamente a partire dalla prima del 2009 con Francesco Rutelli che abbandona il Pd per dar vita ad Alleanza per l’Italia, all’ultima in ordine di tempo del 2019 con l’uscita di Matteo Renzi e la nascita di Italia Viva.
A leggere i dati il barometro segna tempesta, ma risposta alle dimissioni di Zingaretti e a quel suo doloroso «Mi vergogno del PD» sembra andare in tutt’altra direzione.
Per il vizio di forma della sinistra di dare risposte alle domande che non provengono dagli elettori ma dagli eletti, il Partito Democratico ha un nuovo segretario. E che paura che fa l’unanimismo che sostiene Enrico Letta! E che miope quel popolo (democratico) incapace dire NO!
Ma per il vizio (mio) di voler coltivare il dubbio, mi chiedo: il Partito Democratico ha davvero bisogno di un nuovo segretario che mantenga lo status quo o è forse la sinistra ad aver bisogno di un nuovo Partito Democratico? Di una nuova fase costituente in grado di allargare il suo perimetro e che sappia superare le categorie politiche che ancora animano il dibattito (francamente stucchevole) interno al PD? Perché il partito parla una lingua, la sua, che non è quella del popolo. Un partito senza una chiara progettualità, con gli interessi dei cittadini sullo sfondo, molto lontano. Più funzionale alle carriere dei singoli che alle risposte ai bisogni del proprio elettorato. E con un segretario che ha più l’aria di essere il garante delle diverse sensibilità (correnti) che reggono il PD in un delicatissimo gioco di equilibri che quella di un vero e proprio innovatore.
Perché in tutta onestà, se la capogruppo o il sottosegretario o il ministro appartiene ad Area Dem o a Base Riformista o ancora al gruppo che fa riferimento a Zingaretti ma più vicino ad Orlando che a Bettini, francamente non frega a nessuno. Tanto meno a chi si dovrebbe sentir rappresentato dal partito e magari sta aspettando qualche risposta un po’ più concreta sulle sorti del suo futuro che certo non passano per il valzer delle correnti attorno ad una nomina.
Guardando a quello che è accaduto negli ultimi mesi, non è ingeneroso dire che il Partito Democratico, così com’è, va rifondato. Anzi, va rifatto. Daccapo. Che il partito non lo fanno solo i segretari per cui cambiato il capo, risolto il problema. Lo fanno tutti: i gruppi dirigenti e gli eletti.
La prima domanda da porci è come si sta in un partito.
La seconda è interrogarsi su quale sia oggi la sua funzione.
La terza è, in relazione al mutare della nostra società, che cosa vuol dire oggi essere di sinistra e di conseguenza qual è l’elettorato al quale si vuole parlare.
La quarta è analizzare che cosa si è diventati e che cosa (soprattutto) non ha funzionato.
Pensare invece che cambiando il comandante in capo si rinnovi automaticamente il partito è il più grande abbaglio in cui sarebbe utile non incappare. Perché gli elettori non verranno da noi perché Letta è migliore di Zingaretti. Non verranno da noi, banalmente, perché noi non sappiamo proprio niente di quello di cui hanno bisogno gli elettori, perché noi non li ascoltiamo. Perché, ad esempio, ci riempiamo la bocca delle periferie e degli ultimi, ma gli ultimi non li conosciamo e nelle periferie non ci andiamo. Certo, è una proposta allettante per un minorenne sentirsi dire che si vuole estendere il diritto di voto ai sedicenni, peccato però che hai un’organizzazione giovanile del partito a cui potresti chiedere quali sono i reali bisogni di quelle generazioni, al di là delle proposte dirompenti e forse un po’ avventate. Perché è facile derubricare il tema delle donne concedendo la nomina dei capogruppo di Camera e Senato, quando è evidente che nel partito, al netto delle medagliette a vario titolo elargite nel corso del tempo, c’è un problema di leadership femminile grosso come una casa e passa il concetto – assolutamente antidemocratico e certamente discriminatorio – per cui ogni tanto “ci va messa una donna”. Neanche fossimo come i panda, in via di estinzione. E approfitto del tema per rivolgerci a noi care donne: sveglia! Non è che le cose che ci vengono concesse sono quelle che ci spettano, sono quelle che ci prendiamo le cose che ci spettano. E la differenza non è sottile. È sostanziale.
Dopo quel che è andato in scena in questi mesi io me lo chiedo: come può il partito dei veti incrociati candidarsi a guidare il cambiamento?
E ancora, come può un partito che non hai mai metabolizzato il proprio passato e non è stato in grado di fare sintesi (in parte lo hanno fatto le scissioni, mai discusse per altro), guardare al futuro? Dopo il terremoto che ha portato al Governo Draghi e che ha reso evidenti tutti i limiti di questo modo di intendere la politica, come può un partito senza un saldo retroterra ideologico decidere – a freddo – che la strada della rinascita è un’alleanza stabile con un movimento politico passato con nonchalance dal motto «Uno vale uno!» al dogma «Uno vale l’altro!»? In assenza di una solida analisi politica (ci hanno insegnato così) e di un confronto serrato e schietto con gli iscritti, i dirigenti, la società civile (che ci fa sempre un po’ paura) che a vario titolo ruota intorno al partito e al centrosinistra, come si può pensare che sia a priori quella la strada giusta? Le amministrative, un esempio su tutti, e il caso di Roma: non sono come le regionali o le politiche. Giuseppe Conte non è Virginia Raggi. La parte, non sempre, è il tutto. Ed il punto è dirimente. Anche se abbiamo (avete) dato prova di saperlo fare, noi non siamo come loro, non ci possiamo far andare bene tutto. Anche se un giorno siete stati quelli del «Conte o morte» e l’indomani quelli del «Grazie Mario Draghi».
Al di là poi della scarsa credibilità dimostrata dal partito, è stato piuttosto curioso vedere la strenua difesa di Conte – da parte di una certa sinistra storicamente killer eccellente dei propri leader (da D’Alema a Prodi, per citarne alcuni tra i più noti) – solo per (opinione di chi scrive) non riconoscere che in fin dei conti Renzi aveva ragione. E ne aveva davvero, anche secondo una parte del PD.
Il centrosinistra e il nuovo Pd o come si chiamerà (chissà se davvero accadrà), non hanno più bisogno dell’assenza di visione comune che ha caratterizzato questi anni. Non ha più bisogno di questa curiosa subalternità al Movimento Cinque Stelle per cui – parafrasando Enzo Jannacci – «L’importante è governare sia nel bene che nel male».
Nel 2013, nella sua breve esperienza di Governo, per rincorrere l’antipolitica sul suo stesso terreno, con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti Enrico Letta ha dato un contributo sostanziale al radicarsi del partito delle tessere. Progressivamente, sempre soffiando sul vento dell’antipolitica abbiamo deciso che la formazione della classe dirigente fosse un inutile orpello e che la politica non era certo una professione. Poi però per voler essere più populisti dei populisti ci siamo spinti oltre: inspiegabilmente abbiamo anche noi rinunciato alla professionalità da applicare alla politica. Che se in linea di principio è vero e sacrosanto che la politica la possono fare davvero tutti i cittadini (e allora non si capisce perché lo Stato non debba equamente garantire a tutti la stessa possibilità finanziando i partiti e, almeno secondo il parere di scrive, limitando il finanziamento privato in modo da garantire a tutti le stesse possibilità) non è altrettanto vero che di default tutti i cittadini hanno le competenze necessarie per guidare il Paese e per fare politica.
E per quanto apparentemente possa sembrare il contrario, il mio non è un ragionamento snob, tutt’altro. Infatti, contrariamente alla Contessa di Paolo Pietrangeli, io penso che sia giusto che «Anche l’operaio vuole il figlio dottore» come è altrettanto giusto che lo Stato glielo garantisca. Ma da figlia del Dottore, io vorrei che al figlio dell’operaio non sia solo garantita la possibilità di diventare Dottore, ma anche quella di ricevere da un Partito (e la P maiuscola non è un vezzo) la formazione e gli strumenti necessari per poter accedere con gli stessi mezzi e le stesse possibilità della figlia del Dottore all’impegno e alla passione politica. Che non è vero che tutto è alla portata di tutti. Non è vero per niente. E questo lo sa anche il Pd.
Infine, se per caso decidiamo di discuterne apertamente, vogliamo provare ad abbandonare l’impostazione di un partito scalabile? E cioè: vogliamo rinunciare alle primarie aperte a tutti i cittadini e decidiamo una volta per tutte che siano gli iscritti a scegliere i segretari?
Ora è tutto ovattato, probabilmente alla fine della pandemia, non tutto sarà più come prima. Avremo ad attenderci sfide diverse, bisogni diversi che probabilmente ad ora non possiamo neanche immaginare, realtà diverse con problemi diversi.
Ci vogliamo far davvero trovare impreparati?
Siamo in tanti ad essere usciti, a non avere più un partito di riferimento. Siamo in tanti ancora a dannarci, anche da fuori, per le sue sorti. Siamo in tanti a scriverci, a discutere, a confrontarci. Anche ad incazzarci. A sentirci un po’ orfani.
La sfida è questa: dimostrateci che siamo noi che abbiamo mollato ad aver sbagliato.
Perché fino ad allora continueremo a pensare che tutto sommato aveva davvero ragione Pietro Ingrao: «Pensammo a una torre. Scavammo nella polvere».
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