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Il patto coi lupi, per scoprire il rapporto uomo-natura

Chi difende la caccia oggi “sa di offrire il suo collo al cappio del boia”. E’ un libro controcorrente quello di A. Giorgio Salvatori Il patto coi lupi, Innocenti editore. Non ha torto, Salvatori. Io sono contro la caccia, ma ho letto con interesse questo lavoro perché in realtà, il respiro è più ampio. Un respiro che abbraccia il rapporto uomo-natura.

C’è un capitolo dedicato al bosco, descritto in toni lirici come “un’orchestra apparentemente anarchica… ma, come nella sublime distribuzione irregolare delle piante, in quell’orchestra non c’è vero disordine, c’è libertà di suono, di espressione”. Ci sono ricordi di caccia quando una lepre andò a chiedere aiuto e a rifugiarsi a fianco dell’autore per sfuggire alla spaventevole e irruente muta dei cani. O la constatazione delle contraddizione degli animalisti, che magari sfamano i gatti randagi con scatolette di carne. Dimenticando che i gatti sono felini e dunque predatori e una bella scatoletta di spinaci non la guardano nemmeno. Insomma l’uomo-cacciatore è quello che sente più di altri il rapporto con la natura, anche nel “male”. Perché l’istinto dell’aggressione ce l’abbiamo nel Dna (a quanti episodi di violenza assistiamo ogni giorno!) ed è inutile nasconderlo.

Non è facile – al giorno d’oggi – parlare di quell’intimo rapporto archetipale tra uomo odierno con i primi popoli nomadi e cacciatori. Noi viviamo nell’era dell’antropocene, per dirla con il biologo americano Eugene F. Stoermer, cioè del dominio assoluto dell’uomo sulla natura, delle modificazioni operate dall’intervento umano sull’ambiente (anche se adesso la natura sembra prendersi la sua rivincita) “quelle modificazioni – scrive Salvatori –che l’uomo antico  che si nasconde dentro quasi tutti i cacciatori, cerca, almeno episodicamente, di dimenticare quando si immerge nell’arcaico tempio naturale che gli è più congeniale: il bosco”.

Il libro parte dal patto ancestrale tra uomo e lupo avvenuto nel Pleistocene. L’uomo assorbe dal lupo la sua straordinaria sapienza nel cacciare:  una perfetta macchina da guerra nel trovare e catturare prede. Il lupo si avvicina all’uomo perché da lui trova gli avanzi di cibo e una sorta di nume tutelare. Lentamente  e con molta circospezione  attuano uno scambio vantaggioso per gli entrambi . Le prove sono nei tanti graffiti preistorici in cui sono insieme uomo e lupo. Tra l’altro, da questo connubio nasce il cane.

Ma l’istinto predatorio, e dunque violento, nell’uomo in parte resta. Anche trentamila anni dopo. Anche oggi  (vedi il recente “sport” dei ragazzini romani, che si incontrano per picchiarsi senza nessuna ragione). E il discorso torna alla caccia. “Non è uno sport e neppure un sadico divertimento – spiega l’autore – le ragioni risiedono in quella pulsione predatoria che accomuna chiunque sieda al vertice della catena alimentare, uomo compreso”. Soffocarne completamente l’impulso sarebbe controproducente perché la soppressione forzata di ogni forma di aggressività contenuta ne DNA anche umano, “potrebbe generare episodi di maggiore violenza interspecifica”. Salvatori cita Konrand Lorenz , il quale ha dimostrato meglio di altri la presenza di forme di aggressività in tutti gli animali, predatori e predati, uomo compreso. Si caccia – dice ancora l’autore – “per istinto primordiale , per mantenere una parte di noi nel mondo animale, per obbedire alla programmazione genetica del nostro corpo, alla nostra dentatura di onnivori….ma quasi mai per il piacere di uccidere, altrimenti quale è la differenza tra un macellatore, un carnefice per sadica vocazione e un cacciatore per ancestrale predisposizione?”

Caccia si, dunque, ma non come la intende “il fucilatore domenicale” (definizione di Salvatori) che sfoga la sua aggressività latente  come fa il tifoso allo stadio, “il suo parente più affine”. Gli uomini che ancora praticano l’ars venandi sono i figli degli uomini-lupo che spingono fino al parossismo tutti i loro sensi, tendono ad assumere percezioni , movenze e comportamenti da animali da preda. “La caccia non sarebbe caccia – scrive ancora l’autore – e si trasformerebbe in qualcosa di profondamente diverso se venisse meno il rispetto di tutta una serie di valori etici ……Un codice cavalleresco tra uomini e bestie”.

Non a caso nella prima pagina riporta il motto medievale “Il premio del cavaliere è la sua Regola”.

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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