Il semestre “tedesco” di guida dell’Unione Europea è calato sulle indebolite spalle di Angela Merkel, che dovrebbe riuscire nella difficile conciliazione di tre contraddittori paradigmi:
Chi si occupa di relazioni internazionali è conscio che il primo compito da affrontare non è quello di descrivere il nirvana futuro insito in promesse di felicità eterna, ma quello di sopravvivere alle crisi, nel senso letterale di primum vivere.
Un gruppo di paesi (Italia, Spagna e Francia) colpiti per primi hanno adottato misure severe e molto costose, giustificate dalla accettazione e messa in atto di principi etici, religiosi e giuridici comuni: prima di tutto salvare vite umane.
Un altro gruppo, guidato dalla Germania, seguita dal Regno Unito e assolutamente sostenuto da Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca e dai Paesi Bassi, hanno invece privilegiato gli interessi socio economici a quelli sanitari, opponendosi a provvedimenti rigidi che sospendessero funzioni considerate vitali per lo sviluppo economico, da assumere eventualmente nei confronti di altri paesi europei considerati “concorrenti”. Come al solito gli ultra specializzati in truffe fiscali e finanziarie come gli olandesi e la indefinibile Austria non hanno mancato di farsi notare.
La lettura dei dati legati ai contagi ed ai decessi in Europa e nel mondo è impressionante.
In Germania, su 196.000 soggetti confermati come infetti, il Governo ha dichiarato 180.000 guarigioni e 9.061 decessi (il dato si riferisce al 2 luglio 2020). In Francia su 164.801 casi sono stati dichiarati 29.843 decessi.
Il fatto è che la Germania ha scelto deliberatamente di non catalogare come dovuti all’epidemia tutti i decessi che potessero apparire con causati da altre patologie, ed ha sollecitato i Lander a non allarmare la cittadinanza con una solerte raccolta di dati. Per carità, non è che la Cina, imperterrita propalatrice da mesi dello stesso dato: 85.263 casi confermati clinicamente e in laboratorio e 4.648 morti, sia un esempio di correttezza, ma nel nostro intimo di cafoni meridionali non pensavamo che Berlino e Pechino rispondessero agli stessi standard democratici.
Il Regno Unito, poi, è riuscito nella titanica impresa di mettere a paragone il surreale Macron con Napoleone Bonaparte, senza far sfigurare l’attuale inquilino dell’Eliseo. Soltanto dopo la minaccia di chiudere Calais e bloccare i rifornimenti di qualsiasi tipo provenienti dal continente all’isola, Alexander Boris de Pfeffel Johnson (ma come rilasciano le lauree ad Oxford?), ha desistito dal piano di abbandonare i due terzi della popolazione al contagio per sviluppare l’immunità di gregge e salvaguardare gli interessi economici dei gruppi dirigenti che rappresenta.
Velo non pietoso, ma piuttosto schifato, sulla politicamente corretta Svezia che fino alla fine di aprile si è ben guardata dall’imporre misure di prevenzione e chiusura; anzi ha, addirittura, più volte dato pubbliche lezioni alla Danimarca, costretta dai suoi cittadini, pur in modo elastico, a promuovere la chiusura delle frontiere. A Stoccolma, Governo e mass media hanno fortemente sostenuto che le misure di contenimento non “servono a niente”, citando il buon senso, si fa per dire, dei finlandesi che, secondo i loro sondaggi, hanno rifiutato al 76% la quarantena.
Il governo tedesco sa bene che i paesi “virtuosi” che fanno corona a Berlino sono piccoli, poco popolati, mal arricchiti (basta pensare all’Olanda che ci depaupera annualmente di 6,1 miliardi di euro – mal contati- per facilitazioni alla elusione fiscale) ma sono essenziali assieme alla Polonia, la Repubblica Ceca, l’Ungheria per consentire a Berlino una presenza internazionale di rango superiore a quella che le ragioni della Storia e la difficile costruzione del tessuto europeo possono consentirle.
La faglia tellurica di separazione tra due diverse concezioni dell’Europa, sinteticamente da una parte il mondo neolatino, Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Belgio, assieme a Grecia, Slovenia, Irlanda e Lussemburgo si esplicita attraverso una concezione dell’economia e della storia che si irrigidiscono sempre più chiaramente nelle loro peculiarità.
La Germania non conta più su una vera, operativa e solidale cooperazione paritaria con la Francia e pensa che, mentre si consuma la crisi da leadership statunitense nel mondo, la sua convenienza sia far rimanere le condizioni di sviluppo europeo come sono attualmente: una forte direzione di indirizzo degli Stati nei confronti della Commissione, sempre meno Governo dell’Unione e sempre più “amministrazione” degli indirizzi del Consiglio, lasciando al Parlamento un ruolo evidentemente declaratorio. La frattura Nord-Sud europea diventa così una occasione per tenere agganciati mercati mondiali che soddisfino il suo surplus produttivo a fronte del rischio, reale, di una frantumazione senza prospettive dell’Unione, mentre crescono i timori di stabilità del sistema mondiale e di conflitti globali.
L’Italia può e deve fare molto, perché neanche la prepotente e falsamente disponibile Germania può mantenere i suoi livelli economici senza il sistema produttivo italiano e senza la presenza mediterranea e mondiale, che nonostante gli ultimi catastrofici decenni, il nostro Paese ha conservato ed in alcuni casi rafforzato. Finito l’eurocentrismo, non sfugge a nessuno che senza il quarto di ricchezza mondiale generato dall’Unione non sono possibili politiche planetarie.
In premessa abbiamo scritto che è necessario, per vivere, innanzitutto sopravvivere.
Le condizioni date sono complesse, sebbene appaia chiaro che Angela Merkel proverà a introdurre provvedimenti che rafforzino la dimensione sociale di questa Europa con nuove inclusioni, equità e diritti per i lavoratori.
In sostanza si proporrà (vedremo con quali risultati) di intervenire sul sistema per sostenere programmi di sviluppo basati sul riconoscimento del bisogno di salari equi, di buone condizioni di lavoro e di welfare: combinare un’economia forte con la protezione sociale, in misura ancora maggiore rispetto al passato; dando energia sufficiente alla troppo spesso dimenticata, in nome del rigore, dimensione sociale dell’Europa.
Un piano di azione potrebbe quanto meno promuovere standard comunitari per i salari minimi e per i sistemi di protezione del reddito minimo. Il che, ovviamente, dovrà essere confortato, nel contesto dell’attuale crisi globale e della evoluzione tecnologica, da politiche di supporto finanziario che le attuali condizioni provocate dalla frattura europea rendono complesse.
Comunque, primum vivere; già una discussione per regolamentare a livello comunitario gli avanzamenti dell’Intelligenza Artificiale, definendo che resti al servizio dei lavoratori nell’economia digitale, imporrà una nuova formazione continua tramite il travaso essenziale di comunicazioni tra centri di formazione e imprese, consentendo ai giovani di sviluppare ulteriori abilità e competenze, pretese dalla digitalizzazione del mondo del lavoro.
Per sopravvivere può essere utile far carico il Consiglio e la Commissione di un nuovo impegno per abbattere la disoccupazione giovanile e gestire nuovi approcci formativi. Non è un caso che il Commissario europeo per l’occupazione, gli affari sociali e l’integrazione al lavoro, Nicolas Schmit, abbia già depositato una proposta conosciuta come la “Garanzia per i giovani”. Le nuove discipline della Commissione europea in tema di lotta alla disoccupazione giovanile e formazione rappresentano un contributo importante.
L’ottimismo che pervade tutti gli spiriti dotati di buona volontà non può nascondere tutta o parte della realtà.
Dichiarare e fare quanto sostenuto è difficile, difficilissimo. Anche perché tra gli effetti del coronavirus, uno è apparso subito evidente: la crisi economica, sociale del mondo non è nata a causa dell’epidemia e non è stata risolta dalle crisi che dalla fine dello scorso secolo, al 2008, al 2011 e fino ad oggi, hanno messo in luce la debolezza dei dogmi monetaristi prima e della finanziarizzazione dei sistemi produttivi poi.
Occorrerà mettere mano ad un complesso e variegato disegno di sistemi opzionali e compatibili per dare equilibrio alle produzioni, al loro finanziamento, alla distribuzione e qualificazione del lavoro, alla revisione dei poteri di indirizzo della politica e del diritto.
Temi affascinanti e vasti che, ahinoi, non credo facciano parte del leggero bagaglio che porta con sé la Cancelliera Merkel, alla quale si deve chiedere di esplicitare, almeno a grandi linee, quale sia il progetto politico che propone alla UE, perché se, come abbiamo già sottolineato in quest’articolo, non esiste un’alternativa al progetto politico europeo sorto dopo il terribile fallimento del secondo conflitto mondiale, è ora, nel momento di una crisi tanto esterna quanto realisticamente provocante che occorre, per lo meno, rassicurare attorno alla soluzione da individuare per non trasformare l’Europa , il mondo “occidentale”, per come comunemente lo pensiamo, in una enorme welfare Zone, vocata a creare debiti per soddisfare le inevitabili e giustificate esigenze di un mondo che, sempre più anziano, è chiamato a dare risposta ai bisogni di una popolazione sempre più vecchia. Quindi: quale politica demografica per l’Europa a rischio di estinzione?
Ed ancora. Se l’1% della popolazione mondiale si arricchisce e si allarga la forbice tra chi pratica lavori specializzati e ben remunerati e chi è declassato (penso- come esempio- ai giornalisti di gruppi editoriali nazionali ed importanti che sono costretti – perso il sogno del contratto a tempo indeterminato- a salari che arrivano nel migliore dei casi a 4/5 euro lordi per articolo) o costretto alla disoccupazione.
Dopo aver potuto verificare quanto la strumentalizzazione delle paure accresca i facili consensi elettorali, la Cancelliera Merkel dovrebbe anche essere cosciente che la sua ultima occasione per entrare nella Storia è quella non di esorcizzare, ma di dare un valore alle paure, che, una volta prese nella giusta considerazione, riportano l’uomo al centro dell’interesse, e quindi lo riqualificano come principale soggetto dell’iniziativa socio economica.
Se l’Europa ha un futuro questo non può ricalcare metodi e culture che non siano antropocentriche e che, per questo, non annullino secoli di storia e di impegno e siano in grado di distinguere il rispetto delle differenze e la necessità di cooperare, con strumenti che dovranno forzatamente essere diversi da quelli che da cinque secoli, dalla pace vestfaliana, hanno riconosciuto un rapporto intrinseco tra sovranità, non necessariamente espressa dal popolo, e potere.
Il multilateralismo che ha permeato la vita di molti, compresa quella di chi scrive, deve essere rivisto alla luce delle conquiste, o per lo meno se il termine conquista appare inappropriato, dalle nuove realtà che la tecnologia, pur sempre in movimento, ha tuttavia radicalmente modificato.
Anche un solo semestre può valere più del tempo cronometrico che esprime.
Io temo che la frattura europea non possa trovare la soluzione ottimale che pur sarebbe necessaria (parte di un debito europeo all’interno del bilancio unico, per esempio; una migliore e meno “nordica” gestione dei fondi europei; la parola fine ai furti semi (?) legittimi di alcuni stati europei nei confronti di altri (l’Olanda per esempio). Inaugurare, però, nel pieno della crisi e dello sconforto, una stagione di speranza, per sottolineare la necessità di una vera unità politica basata sull’onore da rendere ad ogni storia e lingua, restituirà dignità alla politica e collaborerà fattivamente alla pace ed allo sviluppo del mondo. Il Pianeta sa che una inevitabile rivoluzione è alle porte ed ha paura.
Se l’Europa, che una volta dominò il mondo ha ancora un futuro, deve saper alimentare una speranza collettiva di benessere e di rispetto per l’uomo, il suo lavoro, per i valori intrinseci di una umanità che sa riscoprire il futuro, donando a se stessa il meritato ruolo che le spetta in una Storia che non è soltanto ragionato catalogo di avvenimenti passati, chiamati a illustrare i risultati conseguiti nel Presente, ma la dinamica, cosciente partecipazione ad una evoluzione progressiva e non arrestabile del disperato attualismo che oggi viviamo.
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