La definizione è lapidaria, impossibile equivocare.
Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili; così spiega il concetto di rischio il Dizionario Treccani della Lingua Italiana.
Facile vero?
Chiunque si occupi di strategia è abituato a maneggiarlo il concetto di rischio calcolato e, come ovvio, a farci i conti.
Certo, ci sono conti e conti.
Il rischio, poi, richiama un altro concetto, quello dell’impresa.
Lo scenario si allarga perché l’impresa è quella epica, quella della tragedia greca, quella del ciclo bretone, quella delle grandi esplorazioni, del manipolo ardito e del gesto eroico, quella del gesto atletico, quella che sbaraglia le possibilità quando tutto sembra perduto, quella dello Spazio profondo.
Concetto vasto quello d’impresa che, transitando da un territorio aulico a un territorio economico, sempre il Dizionario Treccani della Lingua Italiana distingue in imperfette e perfette, a seconda che assumano soltanto il rischio tecnico o anche quello economico, a seconda cioè che lavorino soltanto su ordinazione, o direttamente per il mercato.
Rischio e impresa quindi sono totalmente connaturati; il primo richiama la seconda e la seconda non esiste senza il primo.
In termini generali, rischio e impresa formano di sé uomini, comunità, Nazioni.
Ebbene, l’anno secondo dell’era pandemica ha declinato il concetto di rischio calcolato sul corpo sociale, cioè su di noi.
Le apparenze spesso hanno la virtù dell’inganno, nobilmente chiamato sogno, e forse non potrebbe essere diversamente; lo sapeva Platone, prima di lui era scritto nel sanscrito dei Veda, dopo di lui lo ha ripreso Schopenhauer e la riflessione sul velo di Maya e sulla differenza tra realtà fenomenica e realtà rappresentata continua a essere di grande fascino e suggestione.
Su questa differenza altalena la declinazione del concetto di rischio calcolato sul corpo sociale.
Il casus belli è la questione legata al vaccino Astra Zeneca, sul quale più di altri si sono accesi i riflettori mediatici rispetto alle ipotesi di reazioni avverse, lasciandoci assistere a una geometrica capacità mediatica e istituzionale di restituire informazioni precarie, contradditorie e parziali, buone per il clamore piuttosto che per supportare la formazione di idee libere e consapevoli.
La vicenda è nota.
Il vaccino anglo svedese si è incuneato nell’inefficienza burocratica comunitaria, ha trovato facile giogo nelle esasperanti incapacità di pianificare contratti, acquisti e campagne vaccinali nazionali, sta di fatto portando all’immunità di gregge la Gran Bretagna del vituperato Boris Johnson ma, al tempo stesso, ha avuto il privilegio di essere messo a nudo rispetto a possibili reazioni avverse e letali.
A voler essere pragmatici difficile non dare una lettura geopolitica dell’intera questione vaccinale, non solo di quella relativa ad Astra Zeneca, trovando facile riscontro alla proiezione delle singole produzioni sulle rispettive sfere d’influenza nazionali che caratterizzano lo scenario mondiale.
Ma il punto, in effetti, non è ancora questo.
Il punto è una riflessione più vasta sulla declinazione del concetto di rischio calcolato nell’era pandemica di cui la vicenda Astra Zeneca è appunto solo il casus belli.
Le ipotesi di correlazione tra il vaccino in questione e reazioni letali hanno indotto le autorità sanitarie a rivedere il bugiardino allegato alle confezioni e a rivederne la politica di somministrazione, anzi rivoluzionandola visto che prima era riservato agli under 55 e ora, invece, agli over 60.
Il tutto accompagnato dai numeri che, a fronte, di milioni di dosi somministrate e di pochi casi avversi che si ipotizzano correlati, ne mette in evidenza il rischio calcolato e accettabile.
Pragmaticamente ci può stare, pur sperando ognuno di non trovarsi nella statistica dei casi improbabili.
Ma è solo questo il rischio calcolato?
Oppure esiste un rischio diverso, calcolato male nella migliore delle ipotesi, o non calcolato proprio?
Fate un salto indietro.
Tornate a febbraio dello scorso anno.
Tornate alla politica italiana, quella imbrigliata negli stereotipi reciproci, quella malata di folklore.
Tornate a febbraio e alla generale sottovalutazione del problema che ci stava capitando tra capo e collo, alla inadeguatezza del piano pandemico nazionale, ai sanitari senza dispositivi di protezione, ai medici di famiglia lasciati in balia del nulla, alla tardiva chiusura dei voli diretti dalla Cina lasciando aperto il transito dei flussi con scalo da altre Nazioni, all’hashtag abbraccia un cinese, all’emergenza sanitaria scambiata per un’emergenza democratica.
Ebbene è in quel brodo culturale che matura il rischio calcolato male, probabilmente malissimo, quello che ormai anche al più sprovveduto osservatore appare evidente in tutta la sua dimensione.
Pragmaticamente dobbiamo considerare statisticamente sostenibili le ipotesi di reazioni avverse al vaccino.
Bene, ma la statistica oggi ci restituisce altri numeri e una fotografia impietosa della realtà italiana, quella fenomenica e non quella rappresentata.
Un milione di posti lavoro in meno, circa centomila morti.
E non sono numeri definitivi, sono numeri mobili, cambiano di giorno in giorno.
Aumentano di giorno in giorno.
Ci viene chiesto di essere pragmatici nel considerare l’esiguità statistica delle ipotesi di reazione avversa vaccinale.
Bene.
Ma qualcuno ha calcolato il rischio delle reazioni avverse del corpo sociale alla gestione pandemica?
Qualcuno ha calcolato le conseguenze di non tutelare le categorie produttive, di interrompere la filiera del consumo, di sovvertire quel patto sociale naturale che vede qualcuno vendere e qualcun altro comprare, di spaccare il tessuto sociale tra smartlavoristi a stipendio, ferie e malattia garantita e lavoratori costretti a non lavorare quando solo da quel lavoro possono ricavare vita e dignità?
Qualcuno ha calcolato le conseguenze di aver estrapolato centinaia di migliaia di bambini, adolescenti e ragazzi da quel laboratorio di socialità che sono le scuole e le università?
Qualcuno ha calcolato che la fragilità generazionale non è solo quella dei più anziani, ma anche quella dei più giovani?
Qualcuno ha calcolato le conseguenze di aver alterato quella grande valvola di tenuta psicofisica che è l’attività sportiva?
Qualcuno ha calcolato le conseguenze di aver estromesso le attività culturali dal panorama del quotidiano?
Qualcuno ha calcolato le conseguenze dell’isolamento sociale dello smart working, che con buona pace di attempati sociologi nostrani tanto smart non deve poi così essere, visto che persino i grandi player dell’economia digitale ne stanno ripensando la dinamica?
Qualcuno ha calcolato che la fideistica attesa vaccinale doveva essere accompagnata dalla validazione di protocolli di cura che permettessero di non saturare le strutture sanitarie e da misure di contenimento tali da non radere al suolo interi settori di economia reale continuandone a consentire la fruizione?
Task force, comitati tecnico scientifici, tutti a pensare e tutto quello che avete pensato è quello che abbiamo sotto gli occhi?
Una cosa è evidente.
Se qualcuno lo ha fatto, ha sbagliato i conti.
Può aver sbagliato perché incapace o per una maldestra idea di mondo che aveva in testa.
Nell’uno o nell’altro caso, siamo al capolinea.
La riapertura della Nazione, dei suoi ritmi vitali, affettivi, economici e produttivi non può essere rinviata e ognuno, per le proprie possibilità, con i propri limiti, con i propri mezzi, deve chiederlo con forza.
Non farlo significa azzerare il futuro, per tutti, nessuno escluso.
Rifate i conti, quindi, altrimenti sarà il futuro a farli con voi.
Ma attenzione.
Il futuro è oggi.
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