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Il sunto della campagna presidenziale Usa in 800 parole

Elizabeth Warren è la più agguerrita tra i concorrenti di Mike Bloomberg, ex sindaco di New York City, nella campagna presidenziale Usa, e a mio avviso non si merita la candidatura del Partito Democratico, proprio per la sua ostinata ed ingiusta opposizione a Bloomberg, senza veramente avere basi solide. La Senatrice dello stato del Massachusetts ha pregi e difetti come tutti gli altri concorrenti, ci mancherebbe fosse perfetta; l’unico candidato perfetto è il presidente Donald Trump, ed è per questo motivo che sarà difficile sconfiggerlo alle urne. Naturalmente la “perfezione” di Trump è solo agli occhi dei suoi sostenitori, che rifiutano di vedere il lato “umano” del Presidente.

Facciamo ora un passo indietro e torniamo alle primarie del Partito Democratico del 2016. Dopo aver partecipato ad alcuni comizi del candidato democratico Bernie Sanders a New York e aver seguito i relativi sondaggi, scrissi alcuni articoli per “AmericaOggi” (05/16/16 e 08/05/16, sfortunatamente non più online, ma inserirò i PDF delle versioni cartacee che conservo), indicando come Trump avrebbe vinto contro il candidato dell’establishment democratico, Hillary Clinton, ma avrebbe invece perso se fosse stato opposto da Sanders. Oggi conosciamo solamente i risultati della prima opzione.

Sono passati tre anni ed il mondo intero sembra unanime nel designare il presidente Trump come: bugiardo, despota, nepotista, incompetente, un presidente che ha trasformato la Casa Bianca in business personale, un bancarottiere, un “asset” della Russia,  ammiratore di tiranni, donnaiolo maschilista, pericolo per la sicurezza dell’America, tagliatore del Social Security e Medicare, e così via. Naturalmente questi “attributi” mandano in visibilio i suoi ammiratori, specialmente i fondamentalisti cristiani tutti casa, chiesa e poligono, e i residenti di “Trump Country” tipo Alaska, Florida, Indiana, Montana, Ohio e Texas. Nel frattempo Trump si è appropriato del Partito Repubblicano facendolo diventare il Trump Political Party (con solamente alcune defezioni, come il senatore Mitt Romney).

Dentro questo contesto, a presentarsi come candidato presidenziale contro Trump sono stati addirittura in 24, tutti convinti che chiunque sarebbe stato in grado di vincere contro questo tipo di avversario, incluso l’attuale sindaco di New York City, l’odiato Warren Wilhelm Jr. (nome d’arte: Bill De Blasio). Si arriva alla prima sfida delle primarie del partito democratico ed il gruppo si riduce ad otto candidati: nessuno in grado di emergere e nessuno in grado di battere Trump, che nel frattempo è riuscito a raccogliere più fondi di tutti gli altri candidati messi assieme. Considerando che: 1) nessuno dei candidati sarà in grado di battere Trump, 2)  nessuno dei candidati ha sufficienti risorse finanziarie per affrontare la sfida, e 3) nessuno dei candidati è in grado di contrastare le interferenze della Russia alle elezioni, ecco che si presenta come candidato presidenziale l’ex sindaco di New York City, Michael R. Bloomberg, con un patrimonio personale di 65,2 miliardi di dollari.

Bloomberg si è dichiarato disposto a spendere (più che spendere, investire) un miliardo di dollari per battere Trump, che spenderà anche se, alla fine, non sarà lui il candidato prescelto dagli elettori del partito democratico. Bloomberg non è un politico nato, è un uomo d’affari che, iniziando da relativamente povero, è diventato super-ricco; non è esperto di dibattiti e sfide primarie, pertanto la sua strategia consiste nell’ottenere consensi un po’ per volta facendo affidamento sulle sue risorse finanziarie e affidandosi ai messaggi promozionali. Con questa tattica riesce a salire nei sondaggi al punto da poter partecipare al suo primo dibattito per le primarie del partito democratico nel Nevada. A questo punto il “povero” Bloomberg diventa sul podio il bersaglio di tutti e cinque i rimanenti candidati. Naturalmente, e come per qualsiasi politico e/o uomo d’affari, Bloomberg ha diversi scheletri nell’armadio, principalmente risalenti ad un’era in cui gli scheletri si coltivavano, e oggi esagerati al punto da diventare leggende, come nel caso del suo “Stop & Frisk”, cioè l’ordine dato ai poliziotti, quando era sindaco, di fermare per strada, interrogare e perquisire persone sospette. Ordine ora attaccato dalla candidata concorrente Warren, come strumento di repressione dei neri e latini, ma che in realtà ha anche reso le comunità afro e latine di New York più sicure.  “Stop & Frisk” è stato anche martellato dal candidato ex vice presidente Joe Biden (che ha in armadio più scheletri di un ossario, tipo il caso Anita Hill), che ha definito la tattica “incostituzionale” (mentre è invece impiegata legalmente in tutti gli stati e chiamata “Terry stops”).

La senatrice Warren, che non è immune dalle bugie (come quella di avere origini indiane d’America, tanto che Trump l’ha definita “Pocahontas”), ha accusato Bloomberg anche di sessismo per alcuni suoi commenti di 40 anni fa, in un’era universalmente insensibile a queste tematiche. Poi, il candidato dal nome impronunciabile, Pete Buttigieg, lo ha accusato di non essere un vero democratico (come tra l’altro non lo è il senatore Sanders) e di essere troppo ricco per capire i bisogni della gente comune, senza specificare che la sua stessa campagna è finanziata da ricchi e potenti lobbisti.

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Dom Serafini

Domenico (Dom) Serafini, di Giulianova risiede a New York City ed è
il fondatore, editore e direttore del mensile “VideoAge” e del quotidiano fieristico VideoAge Daily", rivolti ai principali mercati televisivi e cinematografici internazionali. Dopo il diploma di perito industriale, a 18 anni va a continuare gli studi negli Usa e, per finanziarsi, dal 1968 al ’78 ha lavorato come freelance per una decina di riviste in Italia e negli Usa; ottenuta la licenza Fcc di operatore radio, lavora come dj per tre stazioni radio e produce programmi televisivi nel Long Island, NY. Nel 1979 viene nominato direttore della rivista “Television/Radio Age International” di New York City e nell’81 fonda il mensile “VideoAge”. Negli anni successivi crea altre riviste in Spagna, Francia e Italia. Dal ’94 e per 10 anni scrive di televisione su “Il Sole 24 Ore”, poi su “Il Corriere Adriatico” e riviste di settore come “Pubblicità Italia”, “Cinema &Video” e “Millecanali”. Attualmente collabora con “Il Messaggero” di Roma, con “L’Italo-Americano” di Los Angeles”, “Il Cittadino Canadese” di Montreal ed é opinionista del quotidiano “AmericaOggi” di New York. Ha pubblicato numerosi volumi principalmente sui temi dei media e delle comunicazioni, tra cui “La Televisione via Internet” nel 1999. Dal 2002 al 2005, è stato consulente del Ministro delle Comunicazioni italiano nel settore audiovisivo e televisivo internazionale.

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