Frutto maturo di un lungo processo creativo Sandro Veronesi consegna nelle mani dei lettori il suo ultimo romanzo “Il colibrì” Premio strega 2020 che rinnova il successo del 2006 con il suo “Caos calmo”.
Il romanzo racconta la storia di un uomo Marco Carrera e dei suoi affanni nel tentativo a volte disperato di opporsi ai cambiamenti che la vita riserva così che il protagonista coltiva la sua memoria narrando di malinconie e dolori mentre i cambiamenti procedono inarrestabili.
C’è in Veronesi il rifiuto di una narrazione successiva, coordinata, organizzata. Costruisce un mosaico di eventi e di emozioni in cui il passato e il presente si uniscono.
Il tempo di risalire con la memoria ai suoi genitori, alla complessità del loro rapporto, al pensiero che corre alla sorella modello di vita e di gioventù, le lettere a Luisa la donna amata. E ogni ricordo riapre ferite, urti violentissimi, dolori laceranti dell’anima. Dolori che colpiscono il protagonista, come una tempesta colpisce il colibrì che cerca di restare fermo battendo le ali ma che non può opporsi alla tempesta. E sembra di essere alla vigilia del naufragio, della caduta definitiva, ma il colibrì riesce a volare così come il nostro protagonista sorretto dalla speranza di un futuro migliore.
E’ un libro pesante, nel senso del peso delle 366 pagine, pesante come oggetto, pesante da tenere in mano per leggerlo e scomodo perché le sue pagine non si possono piegare eppure è un libro che ha il potere magico di non potersi separare da lui, si tiene tra le mani quando ti asserragli in una poltrona o ti siedi alla scrivania, o ti stendi sul letto, diventa parte integrante del lettore che forse lo lascia (che so io) per bere un bicchiere d’acqua ma subito lo riprende per continuare a leggerlo.
Ci sono momenti in cui al lettore sembra di aver capito tutto e quasi quasi sta per chiuderlo pensando lo riprendo domani ma proprio in quel punto l’autore introduce nella narrazione un nuovo elemento che cambia il programma e spinge il lettore a continuare la lettura.
E’ come se rimanesse invischiato nel filo della figlia del protagonista oppure nella scrittura della lettera alla donna amata. Poi all’improvviso si cala in una conferenza dove si parla di vedere e guardare, la profondità del guardare, il potere dello sguardo.
A me ha ricordato L’anno scorso a Mariembad, quella ecole de regard del secolo passato che guardava lontano, che si interrogava su un futuro migliore per la letteratura e per la vita. Scriveva Robbe-Grillet: “l’uomo può esistere unicamente attraverso la percezione degli oggetti”. Dice Veronesi/Carrera: “gli sguardi sono corpo, producono urti emotivi, io sono ciò che vedo”.
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