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La fine del “Contismo”

Giugno 2018, si svolgono le elezioni per la camera dei deputati ed il senato della Repubblica. Il Movimento Cinque Stelle e la Lega (è stata tolta la parola “Nord” che seguiva, a sottolineare la valenza nazionale del movimento) riportano un grande successo, mentre i partiti tradizionali (il PD, Forza Italia) o perdono voti o (Fratelli d’Italia) avanzano poco rispetto al risultato delle elezioni europee.

A segnare il successo dei due movimenti stanno fattori diversi (la sconfitta delle forze politiche di sinistra al referendum istituzionale, la crisi economica che comincia a mordere, la preoccupazione per l’immigrazione clandestina ed altre ancora): sta di fatto che i due vincitori conseguono risultati tali da rendere impossibile qualunque maggioranza parlamentare di cui almeno di essi non faccia parte. Il gruppo di maggioranza relativa risulta quello del Movimento Cinque Stelle: ad essa dunque, in base ad una regola non scritta, ma ampiamente seguita in passato con sole alcune eccezioni (governi Craxi e Spadolini), spetterebbe almeno tentare di esprimere il presidente del consiglio.

Dopo un tentativo, fallito per l’intransigenza dei pentastellati che dichiarano che non faranno mai alleanze con altri partiti per respingere l’offerta di collaborazione del PD, non sembra restare altra alternativa che quella di una maggioranza parlamentare espressa dal Movimento Cinque Stelle e dalla Lega, cioè da due movimenti chiaramente populisti il cui programma politico si sintetizza in alcuni punti specifici: reddito di cittadinanza, riduzione delle pensioni elevate, diminuzione del numero dei parlamentari, con l’aggiunta di un progetto di democrazia digitale sul quale finiranno per non insistere (forse nella consapevolezza del ridicolo); blocco dell’immigrazione clandestina, maggior potere alle regioni ed ai comuni, condono fiscale e pensionamenti più favorevoli ai lavoratori, in modo da garantire alle piccole e medie imprese la possibilità di limitare il carico del personale, per la Lega Nord.  In simili condizioni e con simili premesse appare impossibile la elaborazione da parte della (ancora ipotetica) maggioranza di un programma di governo: la soluzione viene trovata in un “contratto” in cui ciascuno dei due movimenti si impegna verso l’altro a sostenere le sue rivendicazioni. Punto e basta: niente linee programmatiche di governo che sanno troppo di prima repubblica. Basta a rendere gradito il contratto agli elettori ed a riconfermare la loro adesione senza guardare troppo per il sottile una spruzzatina di populismo d’effetto: taglio delle pensioni d’oro, eliminazione della prescrizione per moti reati, allontanamento dalla scena politica di persone indagate per corruzione o altri reati infamanti, cosa questa ventilata ma poi sostanzialmente dimenticata.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sembra l’unico a non preoccuparsi troppo della situazione, anche quando piovono le proposte di processarlo davanti alla Corte Costituzionale per attentato alla Costituzione in quanto tarda a conferire l’incarico per la formazione del nuovo Governo: alla fine incarica l’economista Cottarelli, con il mandato a formare un governo tecnico ed ottiene ciò che voleva: di fronte alla minaccia c’è l’indicazione da parte dei due populismi di un nome presentabile per l’affidamento dell’incarico, dal momento che decenza costituzionale impedisce che esso vada al leader pentastellato Di Maio, un tempo giovane bibitaro allo stadio San Paolo di Napoli che non è riuscito a conseguire una laurea a testimoniare la sua cultura al di là delle bibite gassate, o a Matteo Salvini, capo indiscusso della Lega, anche lui senza grandi titoli accademici, noto soprattutto per la partecipazione ai quiz televisivi e per aver dato vita al gruppo dei comunisti padani, un progetto politico che non aveva avuto grande successo.

Il prescelto da Mattarella è un professore dell’Università di Firenze, Giuseppe Conte, sponsorizzato da un grillino doc come Bonafede che ha a suo favore il fatto di non avere precedenti giudiziari e titoli sufficienti per dimostrare una certa cultura delle istituzioni.

Sarà un governo che durerà circa un anno: ognuno dei due movimenti avrà le sue soddisfazioni quanto a provvedimenti approvati, buoni o cattivi che siano, tanto da giustificare comunque il voto ricevuto. La sera dell’approvazione del provvedimento che approva il reddito di cittadinanza Di Maio annuncia solennemente dal balcone di Palazzo Chigi che “era stata sconfitta la povertà” con così tanto entusiasmo che qualcuno ci credette davvero. Conte, autodefinitosi in Parlamento “avvocato del popolo”, tanto per non essere meno populista dei suoi ministri, scelse la strada più sicura per non governare: rassicurare il quirinale sottoponendo scrupolosamente al previo esame  dei suoi uffici gli atti che avrebbero avuto bisogno della firma del Presidente della Repubblica, rinviare la soluzione dei problemi più scottanti (tipo la revoca eventuale delle concessioni autostradali) e curare l’immagine sua, come leader politico, attraverso uno strepitoso ufficio stampa.

Ad agosto del 2019, dopo poco più di un anno di governo, Salvini si accorse del gioco sottile del presidente del consiglio: populismo sì, ma quello pentastellato. Il capo della Lega aveva capito alla fine il ragionamento sottile che aveva presumibilmente condotto a suo tempo il Capo dello Stato ad affidare la presidenza del consiglio dei ministri ad un pentastellato senza troppe preoccupazioni per il futuro: due populismi aventi una base elettorale antiparlamentare comune e quindi almeno parzialmente sovrapponibile, non possono coesistere a lungo: l’uno finisce fatalmente per elidere l’altro. Salvini, di fronte alla prospettiva di essere lui il soccombente, staccò la spina al governo (agosto 2019) il Presidente del Consiglio era ormai convinto di essere una presenza indispensabile a Palazzo Chigi: concordò e spinse i Cinque Stelle a trovare un accoro con il PD in nome della continuità della legislatura e il PD accettò nel timore che nuove elezioni a breve scadenza avrebbero segnato un suo ancora più clamoroso insuccesso rispetto all’anno precedente. Renzi, che aveva compreso subito come sarebbero andate le cose, intitolò a sè stesso la proposta della nuova maggioranza e Conte salvò il suo mandato come espressione dei pentastellati, cioè di quello che continuava ad essere il partito di maggioranza relativa. Tutto tranquillo dunque dal punto di vista della forma.

Il Conte bis prese via stancamente, mentre iniziava a diffondersi la pandemia da Coronavirus, fu un’occasione da non perdere: rispolverato una vecchia legge sui poteri del governo in caso di emergenza, il Presidente del Consiglio iniziò a governare il paese a colpi di propri decreti, richiedendo il voto del parlamento solo quando strettamente necessario ed in questi casi ricorrendo alla mozione di fiducia, regolarmente approvata da parlamentari che temevano in caso contrario di tornare ai luoghi natii, sia per i risultati elettorali sicuramente meno favorevoli ai movimenti (i sondaggi davano i Cinque Stelle in caduta libera), sia per effetto dell’approvazione della modifica costituzionale che nel frattempo ha ridotto di un terzo il numero di deputati e senatori.

Alla fine del 2020 il sistema di poteri che reggeva dal 2018 cominciò a mostrare crisi profonde: era necessario assumere decisioni importanti (l’uso dei fondi europei, il prestito internazionale per la sanità, i ristori e le misure che non fossero solo assistenziali per parare i danni all’economia conseguenti al coronavirus) e il governo sembrava troppo preso dal problema se i nuovi banchi scolastici avrebbero dovuto avere le rotelle per affrontare questioni di tale rilievo.   

Dove sarebbe stata necessaria la massima celerità ed efficienza dell’azione amministrativa ci fu l’emanazione di provvedimenti confusi, non applicabili se non previa emanazione di centinaia di decreti di attuazione che tardavano rispetto alle esigenze che era necessario soddisfare, ad iniziare dai ristori ai danneggiati della pandemia, un pressappochismo la cui responsabilità andava equamente divisa tra politici e burocrati.

Conte a questo punto fece un errore imperdonabile: ritenendo di poter supplire ai voti a suo favore che gli sarebbero venuti meno da Italia Viva, sempre più critica nei suoi confronti e che si astenne dalla valutazione di un decreto legge relativo ai ristori conseguenti alla pandemia, invece di cercare una soluzione politica ritenne di poter far fronte ai voti venuti meno con altri raccolti tra senatori senza partito (usciti da quelli in cui erano stati eletti o in circoscrizioni straniere). E’ stato un atto senza precedenti: un Presidente del Consiglio che dimentica l’articolo 49 della Costituzione (i partiti politici come strumento dei cittadini per la determinazione della politica nazionale), non considerando che in un sistema imperniato sui gruppi parlamentari (proiezione in parlamento dei partiti politici) la maggioranza è da calcolare in base agli aderenti ai gruppi stessi e non aggiungendoci i transfughi da quei gruppi, proprio per la necessità di tagliare le ali a quel trasformismo politico che tanta somiglianza presenta col mercato del bestiame.

Il Capo dello Stato non poteva accettare un soluzione del genere, ammesso che fosse riuscita: in un colloquio a due invitò il Presidente del Consiglio a dargli notizia di una maggioranza parlamentare fondata sui gruppi parlamentari. Conte ci provò fino all’ultimo, ma non ci riuscì: al Senato non trovò senatori sufficienti per formare un gruppo parlamentare di “responsabili”, comunque denominati. Molti ormai avevano chiaro come sarebbe andata a finire: tre giorni dopo Conte presentò al Capo dello Stato le dimissioni del Governo da lui presieduto.

Mattarella aveva già pronta la soluzione: affidare l’incarico di formare il nuovo governo a Draghi, ex presidente della BCE, per risolvere la crisi economica e sociale del  Paese. Draghi accettò con riserva: il programma lo aveva già pronto. Il suo sarebbe stato un governo di persone capaci appartenente a tutti i partiti, senza polemiche con il passato ma con lo sguardo rivolto in avanti. Gli errori commessi sarebbero stati sommersi dal nuovo, a partire dal reddito di cittadinanza per la parte, ad esempio, che è costata centinaia di milioni di euro per mantenere in vita strutture rilevatesi ampiamente inidonee a stimolare l’occupazione.

A questo punto tutto è cambiato: occorre ricostruire anzitutto i programmi dei partiti che avevano ritenuto di poterne fare a meno imitando i movimenti. E’ necessario favorire la nascita di una nuova classe politica dirigente, in grado di idealizzare l’innovazione economica e sociale, senza blandire gli elettori con promesse velleitarie e che talora possono anche rilevarsi causa di spesa inutile. Rilanciare gli investimenti indirizzando la spesa pubblica in questo senso piuttosto che verso misure meramente assistenziali, tornare al rispetto formale e sostanziale della Costituzione senza scorciatoie profondamente lesive del sistema democratico, vigilare (e questo sarà il compito dell’opposizione) affinché il governo attui il programma per la realizzazione del quale avrà la fiducia del Parlamento: queste le novità più importanti.

Che l’ex Presidente del Consiglio faccia o meno parte del governo non è molto importante: ciò che conta è che è finito il “Contismo” e per la democrazia parlamentare non è cosa da poco.

La politica è un’attività fatta di programmi, di confronti, di strategie simili a quelle dei generali che tentano di individuare i punti deboli dell’avversario da sconfiggere. Ci sono regole da osservare e in primo luogo quelle stabilite dalla Costituzione e dalle leggi che esplicitano il disprezzo costituzionale, esistono paletti ben precisi stabiliti dalle procedure parlamentari, prassi costituzionali consolidate: non si può ignorare tutto questo per tentare scorciatoie sempre pericolose e creare precedenti su cui crearne altri, che magari finiscono per determinare una frattura più profonda tra elettori ed eletti. Non basta l’abile e spregiudicata opera di un addetto stampa che inventa un banchetto davanti a Palazzo Chigi con cui un Presidente spiega il suo progetto politico, ciò che farà in futuro, sperando di aumentare quel senso di fiducia su cui ritiene di poter far conto. Non è sufficiente alimentare in qualche modo una visione complottistica della vita politica anche quando tutto è chiaro e tutti hanno avuto modo di far ascoltare la propria voce.

Vale ancora l’esortazione di Garibaldi dalle finestre dell’albergo Dragoni di Roma alla folla che durante la notte continuava ad applaudirlo: “Italiani, siate seri”.

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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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