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La fine del triennio giallo (2018-2020)

Con la formazione del governo di Mario Draghi, espressione della determinazione del Presidente Mattarella, si chiude la stagione politica apertasi con le elezioni del 2018. Vale forse la pena di perdere un po’ di tempo a provare a ricostruire le evoluzioni politiche dell’ultimo triennio, anche per cominciare a capire quali scenari potrebbero aprirsi.

I risultati delle elezioni del 2018 (che sopravvivono nell’attuale Parlamento) rispondevano al  “crollo delle aspettative” ed al conseguente diffondersi di una sfiducia generalizzata  che permeava la società italiana in quel periodo tradottasi in un 27% di astensioni e nel convogliamento dei consensi verso le forze che offrivano soprattutto l’individuazione di capri espiatori simbolici: “i politici corrotti” (per il 32,7% che votò M5S) o “gli immigrati pericolosi” (per il 17,3% che votò Lega).

Un voto, dunque, prevalentemente negativo,  espressione della “depoliticizzazione sistemica”, una “sanzione” nei confronti di chi, a torto o a ragione, veniva considerato incapace di risolvere i problemi, di ridurre l’insicurezza sociale e personale ed appariva piuttosto concentrato su conflitti di potere tutti interni al sistema politico. Conflitti interni  di cui fecero le spese da una parte il PD (che pagò l’autolesionistico scatenarsi della guerra interna contro Renzi fermandosi al 18,8%) e dall’altra Forza Italia (che, penalizzata dall’appannamento della figura di Berlusconi e dall’assenza di ricambio, scese al 14,0%).

Il tentativo di dare un esito politico al voto attraverso l’alleanza di governo (non proposta agli elettori) tra i due portatori di istanze negative risultati vincenti,  arbitrati dalla figura “tecnica” del presentabile Avvocato Conte, si tradusse nel governo “giallo-verde”;  sostanzialmente caratterizzato da  una sommatoria di scelte dal prevalente valore simbolico di punizione dei capri espiatori individuati (abolizione della prescrizione, chiusura dei porti), accompagnati da misure genericamente assistenzialistiche di rassicurazione sociale (reddito di cittadinanza, quota 100) dall’elevato costo fiscale.

Un anno dopo le europee del 2019 evidenziarono il maggior successo comunicativo delle performance di Matteo Salvini (con la salita della Lega al 34% e il crollo del M5S al 17%) ottenuto grazie anche al protagonismo regalatogli dallo scatenamento di una campagna di denigrazione ai suoi danni da parte di una fetta consistente dei media e dell’intellighenzia “progressista” e anche grazie alla corrispondente modestia delle prestazioni, pratiche e mediatiche, della squadra di governo pentastellata. Il conseguente tentativo dello stesso Salvini di incassare subito la certificazione dei mutati equilibri elettorali con un ricorso al voto che avrebbe presumibilmente consegnato la maggioranza parlamentare ad un centrodestra da lui guidato però fallì.

A farlo fallire fu l’iniziativa  di una parte del gruppo dirigente del PD e di Renzi che, sia per ragioni di ordine generale (il rischio di un governo , e in prospettiva di un Presidente della Repubblica, sovranista che avrebbe portato ad una sostanziale ed esiziale rottura con le leadership dell’Unione Europea) sia di ordine specifico (il rischio della marginalizzazione rispetto ad un nuovo bipolarismo Lega-M5S), accettarono di sostituirsi alla Lega nel sostegno a Conte con un patto di governo con i cinquestelle sostanzialmente sottoposto all’unica condizione dell’adozione di un approccio di dialogo costruttivo con l’Unione Europea.

L’equilibrio così costruito  resse nei mesi immediatamente successivi con la sostanziale accettazione dell’ indirizzo europeista del PD da parte dei cinque stelle e il contestuale adeguamento dei democratici alle impostazioni giustizialiste  e assistenzialiste del M5S; tuttavia non produsse, stando ai sondaggi, alcuna modifica degli equilibri nelle intenzioni di voto che  fornivano a febbraio 2009 un quadro molto simile a quello delle elezioni europee (al di là di un travaso interno al centrodestra dal ridimensionato Salvini alla emergente Meloni).

E’ in questo scenario che l’Italia viene investita dalla pandemia Covid 19 con le sue evidenti conseguenze sanitarie e socioeconomiche e le sue, meno evidenti, conseguenze politiche.

L’impatto , per alcuni mediatico ma per altri drammaticamente concreto con la malattia e le morti, lo stravolgimento degli stili di vita quotidiani di tutti, il progressivo abbassamento dei redditi disponibili modificano radicalmente le scale di priorità in base alle quali si definiscono gli orientamenti dei vari settori dell’opinione pubblica: i feticci mediatici della lotta alla corruzione e alla immigrazione non scompaiono, ma passano decisamente in secondo piano, rispetto alla questione cruciale della difesa dagli effetti sanitari e socioeconomici della pandemia.

Contestualmente avvengono due radicali modificazioni nell’ “offerta politica”.

Con la copertura offerta degli sforamenti di bilancio necessari per contrastare gli effetti della pandemia e poi con l’assunzione della consapevolezza della crisi italiana come possibile fattore di rischio per l’Unione (e quindi l’indirizzo verso di essa di ingenti risorse comunitarie) l’immagine negativa dell’UE si attenua e per molti versi si ribalta, facendo venir meno uno dei presupposti comuni dei due populismi sovranisti.

Dall’altra parte il presidente del consiglio Conte,  fino a quel momento apparso come una figura presentabile ma grigia,  anziché proporsi, come pure avrebbe potuto, come autentico “civil servant” in grado di riunire tutte le forze politiche di fronte ad un’emergenza senza precedenti, sceglie – invece- di cogliere l’occasione della pandemia per cercare di conquistare il centro della scena in termini di protagonismo istituzionale (la riesumazione dei DPCM come strumento di governo), mediatico (lo strabordante utilizzo degli spazio di comunicazione istituzionale come strumento di propaganda personale) e di potere (l’attribuzione ad una figura commissariale di sua fiducia di enormi poteri -formali e sostanziali- privi di alcuna accountability). Il tutto accompagnato dalla insistente prefigurazione della prospettiva di una traduzione “politica” di questo protagonismo (il vagheggiato “partito di Conte”).

I giudizi sulle effettive capacità mostrate dal governo CAC (Conte-Arcuri-Casalino) nella gestione della pandemia sono quantomeno controversi. Secondo alcuni si sono ottenuti risultati in linea con quelli degli altri paesi europei, altri (tra cui chi scrive) fanno osservare che l’Italia ha avuto il massimo numero di morti rispetto alla popolazione e, pur avendo incrementato più di ogni altro (tranne Cipro) il debito pubblico ha fatto registrare un calo del Pil tra i più ampi in Europa.

Certo è che ,nonostante un’offensiva mediatica e una disponibilità di risorse senza precedenti, l’azione del governo Conte non è riuscita – da marzo a novembre-  ad incidere minimamente sulle intenzioni di voto registrate abbastanza uniformemente dai sondaggi, che hanno continuato  ad indicare una quota di circa il 40% di indecisi/astenuti e uno scarto, nell’ambito di coloro  che si esprimono,  a favore del Centrodestra di circa dieci punti di vantaggio sullo schieramento “contiano”, fermo abbondantemente sotto la soglia del 40% delle intenzioni espresse (cioè meno del 25% sul totale).

In questa situazione interviene il secondo passaggio determinante che può essere considerato l’inizio della fine del governo “rosso-giallo”. Si tratta del tentativo di blitz (secondo alcuni addirittura di un tentativo di putsch) operato dal presidente del consiglio ai primi di dicembre quando cercò, in un colpo solo, di accentrare su di sé i poteri e di affidarsi a strutture privatistiche per la gestione tanto dei fondi del Recovery Plan quanto dei servizi segreti. Un’operazione che, sia per il livello di stravolgimento delle prassi politiche e istituzionali sia per le modalità (approvazione in una seduta notturna del CdM di documenti non preventivamente condivisi), ha pochi precedenti nel settantennio di storia repubblicana.

Le origini di questo sconsiderato azzardo rimangono, almeno per chi scrive, scarsamente comprensibili. E’ davvero possibile che sia stata solo l’espressione di una tanto smodata quanto dilettantesca ambizione di potere di un piccolo gruppo di persone trovatesi catapultate nella stanza dei bottoni? O alle spalle vi era un “sistema” (rivelatosi poi nei fatti un “sistemetto”) che aveva incoraggiato il tentativo garantendone improvvidamente il successo?

Certo è che lo stravagante tentativo del Presidente del Consiglio di un governo parlamentare di coalizione, apparentemente forte solamente di un effimero gradimento sondaggistico,  di imporre alle forze politiche che gli garantivano la indispensabile fiducia parlamentare una così rilevante confisca di ruoli e poteri viene bloccato a seguito della reazione di Italia Viva ed in particolare del suo vulcanico e spregiudicato leader politico Matteo Renzi e della solida e determinata capodelegazione al governo Teresa Bellanova.

Al di là degli aspetti caratteriali i termini politici dello scontro Conte – Renzi sono stati abbastanza chiari: il primo ha cercato di tradurre in un ulteriore accentramento di poteri la sua apparente popolarità mediatica, il secondo ha cercato di usare usato la sua effettiva indispensabilità parlamentare per ottenere l’esatto contrario, e cioè una redistribuzione dei poteri (e un recupero di visibilità).

La sorprendente debolezza, in termini di contenuti, del progetto di Conte non ha certo giocato a suo favore: il PNRR da lui proposto per l’approvazione immediata era poco più che un disorganico “copia incolla” di documenti preesistenti dove l’unico elemento di novità era costituito dalla creazione di una task force esterna alla pubblica amministrazione e direttamente dipendente dal Presidente del Consiglio per la sua gestione; anche la riforma dei servizi segreti proposta era slegata da qualunque motivazione funzionale e presumibilmente non concordata; infine, come si è già osservato, i risultati della personalizzazione della lotta alla pandemia e ai suoi effetti socioeconomici erano quantomeno controversi. Ciò ha fatto si che nelle settimane successive all’esplicita contrarietà di Italia Viva si sommassero giudizi negativi pressoché unanimi degli osservatori esterni (forze, sociali, esperti, opinionisti …) nonché la percezione di una diffusa contrarietà, più o meno sommersa, anche da parti di settori consistenti del PD e perfino di segmenti dello stesso M5S.

Il presidente del consiglio ha reagito alla situazione che si era determinata ritirando le proposte oggetto del casus belli (e difficilmente avrebbe potuto fare diversamente), affidando la nuova stesura del PNRR al più competente ed equilibrato Ministro dell’Economia e sospendendo temporaneamente l’iniziativa sui servizi (fronte sul quale si riserverà poi un colpo di coda la cui valenza meriterebbe di essere approfondita). 

Ma, al di là degli aspetti più evidenti, il punto cruciale è che il PdC  non ha sostanzialmente accettato di confrontarsi in modo politicamente strutturato con la sua coalizione sul tema vero, ciò la distribuzione dei poteri tra lui e  i partiti che lo sostenevano, sorprendentemente aiutato in ciò dalla linea di incondizionato sostegno assunta  dal PD, che per forza parlamentare e prestigio politico avrebbe presumibilmente potuto esercitare ben altro ruolo.

Di fronte alla mancata apertura del confronto, e all’assenza di garanzie su una gestione più collegiale e su una maggiore visibilità della sua posizione, il partito Italia Viva ha deciso, ai primi di gennaio, di alzare il livello dello scontro ritirando la sua delegazione governativa e, di fatto, aprendo la crisi di governo. Anche in questo caso la reazione di Conte (ed ancor più lo schiacciamento su di essa del PD) appaiono abbastanza sorprendenti (soprattutto visti gli esiti). Anziché cercare di ricomporre il quadro (costringendo Renzi a scoprire le carte) viene scelta la strada di cercare di sostituire il sostegno parlamentare renziano con quello di un po’ di parlamentari di varia origine politica e geografica, accomunati essenzialmente  dalla comprensibile ostilità all’idea di correre il rischio della fine anticipata della legislatura. La sanzione del fallimento di questa tattica la si ha con il voto di fiducia del Senato  che, anche se non  certifica formalmente l’insussistenza della maggioranza, conferma l’indispensabilità sostanziale del supporto di Italia Viva. Ma anche lo scampato pericolo formale dura poco, in una sorta di paradossale nemesi il governo Conte è costretto a dimettersi pochi giorni dopo per evitare di essere formalmente sfiduciato dal voto sulla relazione sulla giustizia del ministro Bonafede, cioè proprio sul tratto identitario tradizionalmente caratterizzante del M5S.

La formalizzazione della crisi consente il passaggio esplicito della sua gestione nelle più esperte mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che dimostra, ancora una volta, di sapersi muovere con sapienza e determinazione. Presumibilmente esasperato dall’intestardirsi di Conte (e di parte della leadership del PD) nell’avventuristica ricerca di maggioranze parlamentari raccogliticce, il Presidente offre prima un’ultima opportunità alla maggioranza parlamentare uscente di ricompattarsi (attraverso l’incarico esplorativo affidato a una personalità istituzionale cinque stelle), poi -di fronte al fallimento del tentativo- si assume in modo irrituale la responsabilità esplicita di proporre a tutte le forze politiche un “Governo del Presidente” guidato dalla più autorevole personalità in circolazione come unica strada per evitare le elezioni anticipate.

Il resto è cronaca di questi giorni: l’immediata disponibilità di Renzi e delle altre forze riformiste intermedie (Bonino, Calenda) e l’altrettanto immediata abile mossa di Berlusconi (che riesce non solo a tornare in gioco ma a farlo addirittura come “padre della patria”)  che aprono lo spazio all’azione della parte della Lega  più consapevole dell’obsolescenza dell’antieuropeismo e della marginalità della questione immigrazione. Il ritrovarsi di fronte alla prospettiva della formazione comunque un governo altamente qualificato e difficilmente attaccabile (almeno inizialmente) induce un attento esploratore degli umori diffusi nell’opinione pubblica come Beppe Grillo  (a sua volta consapevole dell’improponibilità dopo tre anni di mediocre azione di governo della riproposizione del vecchio profilo antisistema) a rientrare precipitosamente  in campo, sottraendo il suo movimento all’abbraccio mortale dei risentimenti contiani per indirizzarlo verso un futuro da partito ecologista di massa comunque istituzionalmente “responsabile”.

In tutto questo il PD, o almeno la sua leadership ufficiale, sembrano aver giocato un ruolo  secondario, apparendo sistematicamente in ritardo sugli eventi e costantemente sulla difensiva.  Il che è abbastanza sorprendente considerando il legame sia storico che specifico  di tale partito con la Presidenza della Repubblica. Cosa sia effettivamente avvenuto all’interno del PD non è dato sapere (almeno a me) così come non è facile prevedere quanto, e fino a quando, possa essere mantenuta la linea del tiepido  sostegno al governo Draghi sovrapposta a quella dell’accanito perseguimento dell’alleanza organica con il M5S alle amministrative e in prospettiva alle politiche.

Il governo Draghi è qualcosa di effettivamente inedito nella politica italiana, combinando in modo assai più pronunciato dei precedenti simili (Ciampi, Dini, Monti) l’apparente fragilità dell’ampio supporto parlamentare con la forza dirompente della autorevolezza della leadership. Anche la composizione della squadra è abbastanza peculiare, con il core business affidato a personalità vicine ai due presidenti e un attento dosaggio dei pesi parlamentari negli altri, anche importanti, ruoli.

Più  dell’impegno a condurre nel porto europeo la ristrutturata nave del PNRR (che appare tecnicamente e politicamente alla portata di un capitano che è forse a livello continentale  il più abile ed esperto conoscitore dei mari che deve attraversare ) e della distribuzione di secondarie bandierine identitarie ai vari partiti i veri banchi di prova sembrano essere altri.

In primo luogo la ridefinizione di una più efficace campagna di contenimento degli effetti sanitari della pandemia che la comparsa delle “varianti” e le difficoltà di approvvigionamento dei vaccini rendono indispensabile. Auspicabilmente qualche cambio di responsabilità lo potrà aiutare nel migliorare il confuso rapporto con le regioni, nel definire meglio compiti e responsabilità e anche – speriamo- nel rendere più trasparenti le informazioni e i meccanismi decisionali.

In secondo luogo, al di là di una prevedibile proroga di breve termine, la questione veramente cruciale appare quella del superamento dei non più sostenibili strumenti emergenziali di contenimento dell’impatto sociale (blocco dei licenziamenti, espansione indefinita della CIG, ristori e bonus a pioggia). Questo è il tema veramente complicato per affrontare il quale occorrerà una straordinaria capacità di individuazione (e comunicazione) dei nuovi, più strategici e sostenibili, strumenti da attivare. Anche in questo campo al nuovo Presidente del Consiglio non mancano capacità e competenze, tecniche e politiche, ma la spinta, legittima, delle forze politiche a ritagliarsi su questo fronte visibilità con battaglie di difesa degli strumenti esistenti sarà, presumibilmente, fortissima.

Se Draghi riuscirà ad ottenere risultati percepiti come soddisfacenti da una parte consistente dell’opinione pubblica su questi tre fronti allora (e solo allora) potrà aprirsi  davvero una fase nuova, più sana, nella politica italiana in cui potranno essere affrontate le grandi questioni strutturali della ripresa produttiva, del recupero della coesione sociale, del ristabilimento delle garanzie alle libertà individuali. Chi scrive, per tanti motivi, non può che augurarselo.

Chiedere a Draghi di farsi carico di una prospettiva politico-partitica sarebbe totalmente sbagliato e controproducente. Ma chiedere ai leader politici delle varie formazioni iscrivibili in una prospettiva europeista/riformista di ridurre il tasso di competizione e di impegnarsi alla ricerca di convergenze mi pare giusto e, auspicabilmente, produttivo.

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Daniele Fichera

Daniele Fichera. Ricercatore socioeconomico indipendente. Nato a Roma nel 1961 e laureato in Scienze Statistiche ed Economiche alla Sapienza dove è stato allievo di Paolo Sylos Labini, ha lavorato al centro studi dell’Eni, è stato a lungo direttore di ricerca al Censis di Giuseppe De Rita e dirigente d’azienda e business development manager presso grandi aziende di produzione e logistica italiane e internazionali. E’ stato inoltre assessore al Comune di Roma dal 1989 al 1993 e Consigliere regionale del Lazio dal 2005 al 2010 (assessore dal 2008 al 2010) e dal 2015 al 2018. Attualmente consulente per l’analisi dei dati e l’urban innovation per diverse società e centri di ricerca.

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