Quando nel 1982 scrivevo su “Mondoperaio” della necessità di separare la carriera dei pubblici Ministeri da quella dei magistrati giudicanti e motivavo il mio assunto con la necessità di evitare la politicizzazione della vita giudiziaria italiana, ero effettivamente fiducioso che quella misura potesse bastare.
In buona sostanza, proponevo unicamente di affidare all’avvocatura dello Stato, che già curava gli affari civili e amministrativi dello Stato nelle liti giudiziali con i privati, anche il compito di attendere a quelli penali, sempre come rappresentante nel processo, dello Stato. Rilevavo, allora, che l’indipendenza di “giudizio” era necessaria in chi “giudicava”, non in chi proponeva accuse da sottoporre al vaglio dei giudici.
Osservavo, pure, che in tutti i Paesi civili le priorità nel perseguimento dei crimini erano stabilite dal Parlamento o comunque da organi collegiali di natura democratica e popolare e non di certo da impiegati dello Stato assunti per concorso dal potere amministrativo, gestito e controllato dagli uomini politici.
Nel corso degli anni sono ritornato più volte sull’argomento ora occupandomi diffusamente dell’assurdità della composizione corporativa (nel senso medioevale del termine) del Consiglio Superiore della Magistratura; ora della cosiddetta “obbligatorietà” dell’azione penale che nel progressivo aumento dei crimini e nell’insufficienza dell’organico dei pubblici accusatori si trasformava in “discrezionalità” assoluta del pubblico dipendente preposto all’accusa; ora, infine, della balordaggine di volere applicare la cosiddetta teoria dell’emenda, emblema del perdonismo e del lassismo giudiziario, in un Paese in preda al terrore di diverse organizzazioni criminali operanti sul suo territorio e a una corruzione endemica sempre più diffusa e capillare.
In scritti, non strettamente pertinenti al tema della giustizia, notavo anche che l’effetto politico di Tangentopoli, di Mani Pulite e di altre “colorate” denominazioni, era stato solo quello di tenere lontana dal Parlamento e dal Governo la gente per bene. Da quei momenti, infatti, la corruzione politico-amministrativa era enormemente aumentata e la politica era finita sempre più nelle mani di chi “non aveva niente da perdere”; con quanto scadimento dell’attività relativa, era facile immaginare. Oggi, abbiamo la prova che la “corruzione” che si dichiarava di voler debellare è penetrata persino nella stessa vita giudiziaria come un cancro dagli effetti imprevedibili e, quel che è peggio, difficilmente curabili con gli stessi rimedi, anche da me illustrati, proposti da “addetti ai lavori” nel corso di questi anni di progressivo degrado.
Certamente, la Costituzione va modificata sia per la presenza dell’ingannevole obbligatorietà dell’azione penale sia per la perdonistica “teoria dell’emenda”, fonte di scoramento anche per le Forze dell’Ordine che vedono, con metodica frequenza, rimessi in libertà delinquenti che essi ritenevano di avere affidato alla Giustizia e non a una Misericordia, diversamente togata.
E’ tutto l’ordinamento dell’Accusa pubblica e dei Giudici che va, però, cambiato ab imis, perché la situazione è notevolmente peggiorata.
L’indipendenza si è esasperata per lo strapotere conquistato dalle predette categorie su tutto e nei confronti di tutti (si dice che la dipendenza è solo dalla legge che, peraltro, è solo da essi interpretata). La corruzione di cui si parla e si scrive in questi ultimi tempi circa le manovre correntizie della Associazione di categoria per nomine, promozioni e trasferimenti è il campanello d’allarme che ha spaventato più di ogni altro suonato in precedenza. E’ diventata incontestabile la sempre più penetrante interferenza dei magistrati in tutte le funzioni pubbliche, comprese quelle di difesa dei confini della Nazione.
Il depotenziamento di tutti gli altri poteri dello Stato per la minaccia sempre incombente di “avvisi di garanzia” e di “rinvii a giudizio” con l’aumentata problematicità dell’avvio dei pubblici investimenti per effetto, in sede parlamentare, della trasposizione in leggi dello Stato dei suggerimenti contenuti nelle sentenze dei giudici ha paralizzato l’attività economica del Paese, favorendo la linea dei poteri finanziari mondiali di New York e di Londra e dei tecnocrati di Bruxelles. La persistente (e praticamente insuperabile) “sostanziale irresponsabilità” dei magistrati per il loro operato è in piena contraddizione con l’illusione di molti giuristi italiani di vivere ancora nella “culla del diritto”.
In conclusione, ricorrono tutte le condizioni perché il tempo dei “pannicelli caldi” possa ritenersi abbondantemente scaduto.
Al tempo dei nostri predecessori nel campo del giure, gli avvocati concludevano i loro atti con l’espressione: e valga il vero!
L’ordinamento giudiziario della nostra democratica Repubblica deriva da quello autoritario elaborato, nel corso dei secoli nella nostra Europa, da fior di tiranni.
In particolare: andando a ritroso nel tempo da Benito Mussolini, duce del Fascismo; da Napoleone Bonaparte, imperatore; da Luigi XIV, Re Sole, al cui consigliere Jean Baptiste Colbert si deve l’intuizione di asservire totalmente i magistrati al potere politico, facendone dei pubblici impiegati selezionati dalla classe politica con concorsi nei vari “palazzi degli esami”. Orbene, che dei pubblici impiegati servano per mandare avanti anche la macchina della giustizia, sempre più complessa, è un conto, se il riferimento è circoscritto alla “manovalanza” necessaria; altro conto è se si vuole portare il discorso sulle posizioni verticali dei magistrati, non solo di direzione, con reali ed effettivi poteri gerarchici, ma soprattutto di responsabilità per il loro operato.
E’ fin troppo prevedibile l’osservazione con finalità “gattopardesche” che l’Italia (con l’Europa Continentale) non è ancora “matura” per portarsi nell’alveo delle vere liberal-democrazie (britannica e statunitense) e per poter mutuare un sistema giudiziario che metta in risalto e utilizzi le competenze professionali acquisite con l’esercizio dell’attività forense per lunghi anni, sottoponga gli aspiranti giudici al vaglio di organi che non siano alle dipendenze dello Stato-Amministrazione e possano rispondere a manifestazioni di consenso o di dissenso popolare.
Un “processo giudiziario” può rappresentare l’elemento dirimente per la conoscenza di una realtà sociale e le immagini animate sonore dei film e dei serial televisivi ce ne offrono la prova. Le pellicole e le riprese digitali anglosassoni hanno fatto del cinema imperniato sui giudizi nelle aule dei Tribunali e delle Corti (legal thriller) un “genere” di grande suggestione spettacolare e, soprattutto, di grande interesse anche per masse a digiuno di diritto.
Ne “Il Traditore”, un film imperniato sulle confessioni di Tommaso Buscetta, Marco Bellocchio ha rappresentato con dovizia di scene molto movimentate (e urlate) un processo all’italiana. Vedere per credere.
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