Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania, che invoca l’esercito e la galera per i cittadini che contravvengono alle disposizioni del governo centrale per limitare l’epidemia, è il risvolto folkloristico di un Attilio Fontana che chiede di chiudere la Lombardia. Con sfumature diverse sono l’immagine dell’impotenza della politica al cospetto dell’anarchia incosciente che accomuna gli italiani. Ognuno con le proprie sfumature dialettali e stilistiche.
Una lezione che andrebbe appresa da questa crisi è quella della corresponsabilità civica. In una democrazia, la limitazione delle libertà personali e l’imposizione dello stato di emergenza rappresentano una gravosa contraddizione di principio. Implicano la costruzione di un delicato equilibrio cui gli stessi cittadini dovrebbero contribuire. Attivamente. Con un esercizio responsabile della propria libertà.
La conversione dell’Italia in “zona protetta” – espressione meno impattante di “zona rossa” – è stata un processo graduale ma progressivo. Un’escalation comparabile alla diffusione del contagio. Nelle quarantott’ore successive all’adozione del decreto “Io resto a casa” (una dicitura da filastrocca della buonanotte che racconta la difficoltà a imporre un sostanziale stato di polizia), la porosità dei divieti era ancora notevole. Spostarsi non era del tutto impossibile e non solo per la difficoltà a interpretare la norma. Serviva un tempo cuscinetto, entro il quale le persone potessero rielaborare le rinnovate condizioni esterne e adattarvisi. Magari rispettandole spontaneamente.
Un esperimento sociale fin qui riuscito in maniera parziale e che dice molto dell’idea di spazio pubblico che hanno gli italiani. La più o meno marcata propensione a violare i divieti, l’assenza di prudenza e buon senso sono gli stessi sentimenti che fanno dell’Italia un Paese caotico, propenso a furberie e divisioni. L’evasione delle tasse; l’insofferenza verso il contributo individuale al benessere collettivo; il disprezzo delle regole – che troppo spesso viene declassato a fenomeno di costume – fino ai più vistosi fenomeni delinquenziali, tutto questo affonda le radici nella stessa subcultura che ha affollato i Navigli a Milano, le spiagge di Genova e Rimini e i vicoli di Lecce e Napoli. Fino all’ultimo momento utile.
Sono tutte facce di una stessa medaglia tenuta lucida da una politica che, travolta da una bulimia elettorale, ha perso di vista la sfida principale per l’Italia: quella culturale. La cultura della cittadinanza, della corresponsabilità, della libertà esercita nel rispetto del bene comune.
Una cultura che rischia di uscire ancora più indebolita da questa crisi, che ha avuto tra le prime vittime la scuola e l’università. La tele-scuola di queste settimane è un racconto emozionante e avvincente che parla a quelle realtà del Paese, familiari e territoriali, che hanno gli strumenti per potervi accedere. Ci sono tantissimi bambini e ragazzi che in questo momento sono tagliati fuori dai circuiti dell’istruzione perché gli istituti non erano pronti o perché essi stessi non hanno gli strumenti. Non hanno una connessione internet, un pc e/o un adulto che possa aiutarli a connettersi alla scuola del futuro.
Nella crisi, le disparità sociali stanno emergono in tutta la loro drammaticità. E non tagliano solo l’Italia in due da Nord a Sud: l’attraversano in maniera trasversale C’è il tema, redivivo, delle carceri; quello dei centri di accoglienza; dei senzacasa e il dramma delle disabilità psichiche e fisiche che già in tempi normali fatica a trovare risposte di dignità. Figurarsi ora.
La più grande lezione che l’Italia dovrebbe trarre da questa emergenza, anziché autoassolversi nella rappresentazione di Paese civile che si abbraccia virtualmente, è che c’è un enorme lavoro da fare. Per la propria cultura civile e per colmare le diseguaglianze che, anche in tempi non eccezionali, ne fanno un corpo debole e attaccabile. Da qualsiasi virus.
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