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La non-utopia di Adriano Olivetti, allora ed oggi

Il professor Pacelli nel suo articolo del 30 giugno scorso “Adriano Olivetti non
era un utopista
” afferma di non condividere alcune delle considerazioni scritte nel
mio articolo – sempre sul Moondo – del 17 giugno, dedicato al grande industriale di
Ivrea
.

Un realista

Non trovo però che le sue opinioni siano molto diverse dalle mie relativamente alla figura e all’opera del personaggio. Soprattutto, entrambi condividiamo l’affermazione che Adriano non fosse un utopista, ma anzi avesse realizzato nella pratica industriale e sul territorio alcuni modelli che se fossero stati ampiamente condivisi avrebbero di gran lunga migliorato la prosperità e le condizioni di vita e la stabilità sociale del nostro Paese.

Nel mio articolo e nel mio libro sull’Olivetti mi sforzo di raccontare, persino con minimi dettagli di attività industriale, come l’Azienda fosse espressione evidente del pensiero di Adriano, e fosse proprio la sua effettiva performance di enorme successo nella realtà produttiva internazionale e sul territorio a impensierire i detrattori, provocando – secondo la definizione di Pacelli – quella “ostilità ad anelli concentrici che aleggiava attorno ad Olivetti”. E in quei gironi, anche se il professore non lo ricorda, ci stavano non soltanto gli industriali ed i partiti politici conservatori, ma purtroppo anche i sindacati ed i partiti di sinistra.

In effetti, l’accusa di utopia nei confronti di Adriano era l’arma più efficace e più subdola usata allora e dopo per contrare il suo pensiero da parte dei detrattori: “è (fu) solo un utopista” si diceva (si dice) con sollievo.

La crisi dell’Olivetti del 1964 venne descritta, più o meno esplicitamente, come la controprova dell’utopia: il “modello Olivetti“ sembrava bello ma non era applicabile né sostenibile nella pratica del capitalismo moderno. In realtà, il collasso fu provocata dalla crisi dei mercati di allora, dall’onere per la ristrutturazione dell’Underwood, dalla mancanza di appoggi nella grande finanza internazionale (gli “gnomi di Wall Street”), da una famiglia di azionisti allargata e poco propensa al rischio, e dalla scarsa vocazione industriale della Mediobanca di Cuccia e della Fiat di Valletta.

Invece il modello operativo dell’Azienda era modernissimo ed efficacissimo: basato sull’innovazione di prodotto, sulla capacità tecnica, sul marketing, sull’immagine a livello mondiale, e sulla facoltà data ai collaboratori di ogni ordine e grado di realizzare le proprie potenzialità. Ed ancor più efficace era il coinvolgimento del territorio (“comunità”) nelle ricadute della fabbrica.

Che penserebbe Adriano Olivetti oggi?

Con Pacelli siamo invece agli antipodi su un altro tema degli articoli: il professore afferma che lo Statuto dei Lavoratori “segnò il punto di partenza per il riconoscimento dei lavori e dei diritti di chi lavorava”. Secondo me, fu l’opposto: segnò il punto di arrivo, l’acmè.

Si potè varare quella legge perché per oltre vent’anni il Paese aveva creato valore, generando una ricchezza che aveva sì favorito coloro che già erano superricchi, ma, proporzionalmente, aveva arricchito molto di più i poveracci, come gli ex abitanti dei monti e gli emigranti del Sud, che dalle nuove industrie ottennero inusitati benefici: salari in contanti (garantiti anche in caso di siccità o di piogge eccessive), mutua e assistenza medica, pensione, abitazioni confortevoli (con riscaldamento e servizi inclusi), mobilità (motorette e poi automobili), vacanze pagate, accesso alle informazioni (giornali, televisioni, cinematografi) e possibilità di far studiare i figli. Il tutto senza indebitare lo Stato, creando oneri insostenibili per i discendenti.

Lo Statuto sancì ulteriori garanzie, che in parte poi si rivelarono eccessive e controproducenti, e certamente non contribuirono a nessuno dei benefici elencati
sopra, già acquisti prima, e neppure al mito della stabilità del posto di lavoro, che
purtroppo dovette sottostare ai colpi delle crisi aziendali e delle “delocalizzazioni”.

E’ sempre avventato fantasticare su quale sarebbe adesso il pensiero di persone che non ci sono più, ma, avendo vissuto il “clima” dell’Olivetti al tempo del “miracolo economico”, mi sento di immaginare che Adriano sarebbe fortemente contrario alla moderna diffusione di caritatevole assistenza alle masse senza che ci sia creazione di valore sufficiente a sostenerla, né merito a giustificarla, diseducando i giovani all’impegno e trascurando la bellezza nell’ambiente e la cultura nella vita della gente sul territorio.

E certamente, come il prof. Pacelli (ed anch’io), Adriano criticherebbe le scelte impresentabili del “capitalismo italiano” ai suoi tempi ed in quelli successivi, ma senza considerare “formidabili” gli anni rievocati da Mauro Capanna, la cui ideologia contribuì alla distruzione del “miracolo italiano”, promuovendo non il miglioramento ma il disfacimento di quel sistema di industrie che in vent’anni aveva affrancato gli italiani dalla servitù della gleba.

A questo punto una considerazione mi si impone. Non sto sostenendo una tesi politica, tanto meno reazionaria. Nemmeno quando, la scorsa settimana su questo stesso giornale, ho scritto che in Italia i contratti di lavoro dovrebbero essere negoziati su base regionale. Il fatto è che ho passato la mia vita di lavoro in industria, alla ricerca di iniziative di sviluppo internazionale, nell’interesse del Paese e di chi lo abita. Ora si vede dai numeri pubblicati dall’OCSE (che secondo me sono più espressivi del PIL) che dall’anno 2000 ad oggi l’Italia ha perso tra un quarto ed un terzo della produzione di beni e servizi nei confronti dei paesi concorrenti avanzati, come Germania e Stati Uniti, per tacere della Cina, ed anche ha perso nei confronti di Francia e Spagna e di quasi tutte le nazioni del globo terracqueo. Dopo la
pandemia il gap si allargherà ancor di più.

Tra i molti stabilimenti industriali che ho visitato in vita mia, tanti non esistono più, e ogni anno ne scompare ancora qualcuno. Sono know how e presenze sui mercati internazionali, costruite con impegno e capacità su lunghi periodo di tempo da imprenditori, dirigenti, tecnici ed operai specializzati, che sarà difficile, forse impossibile, ricostituire una volta perdute, in un mondo sempre più competitivo e sofisticato, e sono posti di lavoro che scompaiono, irrimediabilmente.
E, senza offesa per i giovani camerieri impiegati nelle imprese del turismo e della
ristorazione, è triste che scarseggino sempre di più i posti di lavoro ad alta qualificazione, dove in anni ormai lontani trovavano impiego quelle aristocrazie operaie e tecniche che il mondo ci invidiava per le tante loro realizzazioni. Era allora in atto un fenomeno di “mobilità sociale” in senso verticale unico al mondo in un lasso di tempo così breve (forse con l’eccezione della Cina di Deng Xiaoping), di cui Adriano Olivetti e la sua industria furono tra i più evidenti protagonisti e che certamente non furono graditi agli esaltatori delle virtù uniche del “proletariato” o della presunta felicità della “decrescita”. Tale epocale progresso si è invertito oggi sotto i nostri occhi, così che la classe media, nerbo della democrazia e del benessere del Paese, si sta gradualmente proletarizzando come manco Lenin avrebbe auspicato. E l’iper-garantismo di molte istituzioni, Statuto compreso, ha dato il suo
contributo.

Non mi sento reazionario affatto se penso che ci dobbiamo opporre a questo trend con tutte le nostre forze, non certo per interesse di noi vecchi ed arrivati, che quel che dovevamo fare l’abbiamo fatto e ciò che dovevamo avere l’abbiamo avuto, ma per i giovani, le future generazioni. E se dobbiamo fare dei sacrifici, ebbene facciamoli, come fecero le generazioni della guerra e del “miracolo”.

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Giorgio Garuzzo

Giorgio Garuzzo nasce a Paesana (Cuneo) il 30 novembre 1938. Laureatosi nel 1961 nel primo corso di laurea in Italia per ingegneri elettronici, ha iniziato la sua lunga carriera in industria nel febbraio 1962, lavorando per dodici anni nel centro di ricerca sui grandi calcolatori elettronici fondato da Adriano Olivetti, partecipando allo progettazione degli elaboratori italiani delle serie Elea e GE che negli anni 1960 fortemente contribuirono alla prima informatizzazione dell’industria italiana. Nel libro “quando in Italia si facevano i computer”, pubblicato come e-book nel 2015, racconta la sua giovanile esperienza nell’ambito di quell’avanzata avventura industriale. Tra il 1973 ed il 1976, è stato membro del Comitato Esecutivo di Gilardini, un gruppo quotato in Borsa, in rapida espansione nei settori dei componenti automobilistici ed industriali. Nel maggio del 1976 l’ing. Carlo De Benedetti, presidente di Gilardini, venne nominato Amministratore Delegato di Fiat, e l’ing. Garuzzo lo seguì in Fiat come suo consigliere personale. Tra il 1976 ed il 1978, l'ing. Garuzzo è stato responsabile dell’ufficio Nuove Iniziative del Gruppo Fiat, promuovendo, tra l’altro, la creazione di Comau, complesso nel campo delle macchine utensili e dei sistemi di produzione, nato dall’integrazione di sette aziende pre-esistenti. Tra il 1979 e il 1984 fu Direttore del Settore Componenti Fiat che includeva oltre 50 aziende del comparto componentistico per l’auto e per l’industria, aziende che riunì in nove raggruppamenti, di molti dei quali fu anche presidente o amministratore delegato: Aspera (compressori per refrigerazione e piccoli motori), Borletti (strumenti di bordo, condizionamento), Comind (componenti in plastica e in gomma), Gilardini, IVI (vernici), Fiat Lubrificanti, Magneti Marelli (componenti elettrici ed elettronici), Weber (carburatori e sistemi di iniezione), Sepa (sistemi elettronici); il Settore raggiunse nel 1982 un fatturato aggregato di 2.250 miliardi di lire, con un buon profitto complessivo. Dal 1984 al 1990 l’ing. Garuzzo fu CEO - Chief Executive Officer di Iveco, la società multinazionale del gruppo Fiat produttrice di veicoli industriali. Dopo le forti perdite riscontrate sino ad allora, Iveco raggiunse il punto di pareggio nel 1985; venne successivamente sviluppata anche tramite acquisizioni (Ford Truck e Seddon Atkinson nel Regno Unito, Pegaso in Spagna, Astra in Italia, Ashok Leyland in India), fino a raggiungere nel 1989 un fatturato superiore agli 8.000 miliardi di lire, con una posizione di leadership sul mercato europeo e un ragguardevole profitto. Da tale posizione Iveco condusse un programma di rinnovamento totale della gamma di prodotto e di 22 stabilimenti in 6 paesi d’Europa, con un investimento di oltre 5.000 miliardi di lire, in larga misura autofinanziato. In aggiunta, nel 1989 l’ing. Garuzzo assunse la responsabilità di Fiat Agri e promosse l’acquisto della divisione dei trattori e delle macchine per l’agricoltura di Ford, coordinando la creazione di un gruppo integrato, che, con la denominazione di New Holland e con un fatturato nel 1990 di 5,1 miliardi di dollari, divenne uno dei due leader mondiali nel comparto, giungendo rapidamente ad un ragguardevole profitto, che ne consentì la quotazione in borsa alcuni anni dopo. Tra il 1991 ed il 1996, l'ing. Garuzzo ha ricoperto il ruolo di direttore generale di Fiat, con responsabilità di tutti i settori autoveicolistici, che includevano Fiat Auto (automobili), Iveco (camion ed autobus), New Holland (trattori, macchine agricole e macchine movimento terra), Magneti Marelli (componenti), Teksid (fonderie), Comau (sitemi di produzione), Ceac (batterie elettriche) e Centro Ricerche Fiat. Tale carica comportava la presidenza del Consiglio di Amministrazione di Fiat Auto S.p.A., di Iveco N.V., di New Holland N.V. Nel 1992 la responsabilità dell’ing. Garuzzo fu estesa a tutto il settore industriale, con l'aggiunta di Fiat Ferroviaria (treni ad assetto variabile), Fiat Avio (parti per aerei ed elicotteri, turbine a gas e propulsori spaziali), Snia (bioingegneria, fibre e prodotti chimici). Nel 1991 partecipò alla fondazione di ACEA, l’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili, di cui fu presidente negli anni 1994 e 1995. Nel libro pubblicato nel 2006 “Fiat – I segreti di un’epoca” (ed. Fazi, traduzione inglese ed. Springer), racconta gli eventi della sua esperienza in Fiat e delle realizzazioni industriali nel contesto economico e sociale dell’Italia di quel ventennale periodo. Dal 1996 si occupò di investimenti in “private equity”, esperienza che lo indusse nel 2007 a promuovere la fondazione e la quotazione di Mid Industry Capital SpA (da lui presieduta sino al 2015). E’ sposato con Rosalba Avaro ed ha un figlio, Carlo. L’Istituto Garuzzo per le Arti Visive (IGAV) è un’organizzazione “non-profit”, fondata nel 2005 e finanziata in gran parte dalla famiglia Garuzzo, che ha lo scopo di supportare l’arte contemporanea e in particolare ad aiutare i giovani artisti italiani emergenti a farsi conoscere sia in Italia sia, soprattutto, nei contesti internazionali. Ha sinora organizzato 86 mostre in 58 musei di 19 nazioni, e gestisce l’esposizione della Collezione Permanente alla Castiglia di Saluzzo.

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