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La politica manca, ma la casta c’è

Monsù Travet è un ricordo appannato, anche per i pochi che forse hanno ancora memoria dell’iconico personaggio nato dalla penna di Vittorio Bersezio.

Impiegato modesto nella vita e nelle aspettative, oltre misura dedito a un lavoro sbiadito e monotono, la tiepida esistenza di Ignazio Travet ha avuto numerose trasposizioni sceniche; teatrale nella sua origine di commedia in cinque atti per l’esordio al Teatro Alfieri di Torino nel 1863, cinematografica nel 1945 per la regia di Mario Soldati e con Carlo Campanini perfetto a dargli volto e postura e con la presenza acerba di Alberto Sordi e già importante di Mario Cervi e che, peraltro, ha avuto il caso o l’onore di essere il primo film trasmesso all’esordio delle trasmissioni ufficiali della RAI il 3 gennaio del 1954, una sorta di anticipazione rispetto alla fiction che la stessa RAI produrrà poi nel 1982.

Figura iconica letteraria che grazie a un vastissimo repertorio di produzioni cinematografiche che ne ritraevano la vita ordinaria, minuta, senza emozioni salvo la scossa improvvisa, il battito d’ali a volte eroico che gli riscattava tutta l’esistenza, l’impiegato tipo è diventato un archetipo sociale dentro al quale ritrovare uno spaccato profondo della società italiana.

Un archetipo che è passato sostanzialmente indenne attraverso la storia turbolenta del novecento, delle sue tragedie, delle sue crisi, delle sue opportunità e dei suoi cambiamenti.

Un archetipo che per lungo tempo ha avuto la sua gerarchia, con gli impiegati comunali al di sotto degli impiegati ministeriali, gli impiegati bancari sopra a questi, quelli della Banca d’Italia e della Presidenza della Repubblica sopra a tutti e nel mezzo il limbo degli impiegati privati.

Un archetipo, ma anche una classe sociale sostanzialmente omogenea, autoreferenziata in stili di vita e consumi nei quali si riconosceva a vista, dileggiata nel sarcasmo nero dell’epopea fantozziana ma organizzatissima nel presentarsi compatta rispetto al corpo sociale italiano.

Un archetipo popolato di luoghi comuni, ma anche di sacrosante verità fatte di borse semi aperte lasciate sulle sedie, di cappotti appesi ad arte in stanze ministeriali desolatamente deserte, di invalicabili faldoni accatastati sulle scrivanie, di crocicchi nei corridoi umbertini di via XX Settembre, di pratiche lasciate sopite in attesa di una buona motivazione spintanea che gli trovasse soluzione, tutte iconografie comuni almeno tra gli anni ottanta e novanta e di cui chiunque quelle stanze abbia un minimo frequentato è stato personalmente testimone.

Un archetipo che nella liturgia esistenziale dell’inamovibilità dal posto pubblico garantito a vita ha alimentato leggende metropolitane, distorsioni sociali, contorsioni politiche e una sindacalizzazione monolitica.

Nella malconcia organizzazione del pubblico impiego, e quindi dell’azione amministrativa dello Stato, della sua efficacia, della sua trasparenza e della sua responsabilità, segni di cambiamento rispetto al vetusto testo unico del 1957 si iniziano a scorgere nel 1990 con due leggi, la 142 e la 241, con il processo d’informatizzazione della pubblica amministrazione, in gran parte governato dai piani triennali dell’allora Dipartimento della Funzione Pubblica e dalle linee guida della Presidenza del Consiglio, e con la legge  di riforma del pubblico impiego del 1993, che mette in moto la cosiddetta privatizzazione del lavoro pubblico; un insieme di fattori che sembrarono allora essere forieri di novità effettive seppur non particolarmente amate, quando non apertamente osteggiate, dal deep state formalista burocratico.

Lo snodo, di fatto, si affaccia al passaggio del secolo, epocale e quindi particolarmente adatto nonostante la paura del millenium bug.

Il riconoscimento formale del merito, inspiegabilmente sempre distante dalle battaglie di retroguardia sindacali, inizia a trovare la sua strada, l’efficienza degli uffici pubblici prova a dare segni di vitalità, l’impiego pubblico inizia a non essere più visto come l’allettante ripiego vitalizio, ma inizia ad attrarre per la sua prospettiva e non per la sua comodità.

Il mondo cambia rapidamente e i primi venti anni del duemila, se da una parte lasciano vivere di una patinatura di benessere diffuso, dall’altra mettono in luce debolezze infrastrutturali e affrontano crisi di sistema come il crack dei subprime del 2007/2008 e il deprezzamento immobiliare, le cui conseguenze ancora oggi non sono del tutto risolte.

L’evento pandemico di questi mesi è la ciliegina sulla torta. Oppure la goccia che farà traboccare il vaso.

Il mondo cambia rapidamente e oggi emergenze sanitarie, crisi economica, fragilità psicologiche e incertezze sul futuro diventano un mix esplosivo pronto a deflagrare alla prima occasione e, in questo scenario, la nuova configurazione sociale che emerge in maniera prepotente è la spaccatura tra una classe a impiego e reddito garantito e una classe a lavoro e benessere incerto e precario.

Sullo sfondo, oltre all’evidente problema del coacervo burocratico, il dilemma non risolto dell’equità e della sostenibilità fiscale italiana con l’inaffrontabile questione morale dell’evasione per necessità e della colpevolizzazione aprioristica, fiscalmente parlando, della libera impresa, del commercio e delle professioni, ovvero di tutta quella parte di società  che deve garantirsi sul mercato il presente e il futuro della propria vita.

Ebbene mai come in questa sciagurata coincidenza pandemica il divario sociale corre proprio attraverso questi due mondi, quello del reddito garantito e quello del reddito da guadagnare.

Nei mesi di chiusura forzata, il reddito garantito con ogni probabilità ha speso meno per vivere e, quindi, avrà risparmiato di più; nei mesi d’incertezza che seguiranno alla chiusura forzata, il reddito garantito continuerà a non vedere compromessa la propria capacità di acquisto anche se, prevedibilmente, la eserciterà di meno.

Esattamente il contrario di quello che ha vissuto il reddito non garantito, che ha guadagnato di meno, ha dato fondo ai risparmi, ha anticipato stipendi ai dipendenti nella lentezza cronica di erogazione delle promesse provvidenze statali e che oggi si trova alle prese con prescrizioni di fatto riduttive e coercitive della libertà d’impresa, ovvero a quella facoltà che il codice civile riconosce all’imprenditore di organizzare la propria attività con mezzi, strumenti e modalità ritenuti idonei al proprio esercizio d’impresa.

Gli strenui fautori della chiusura forzata e dello stare a casa sono fatalmente i tutelati del reddito garantito ai quali, di fatto, la pandemia ha cambiato poco, culturalmente distanti dal concetto di rischio e di convivenza calcolata con questo, incapaci di immaginare approcci diversi alla sedentarietà esistenziale.

Gli strenui fautori della chiusura forzata e dello stare a casa trovano un humus culturale nella formalità burocratica, nella multa appioppata alla famiglia che porta la figlia a fare un’inevitabile visita specialistica fuori regione – cancellata d’ufficio a posteriori, ma di quella mentalità figlia legittima -.

La casta, inattaccabile, irraggiungibile, dopata di antipolitica e di giustizialismo, oggi è questa ed è sotto gli occhi di chiunque, capace di osservare la società e i suoi cambiamenti, mantenga libertà e onestà intellettuale.

Il vaso è colmo, il travaso è iniziato, la diga non necessariamente reggerà e mai come oggi si avverte la mancanza della buona politica, quella che riesce a farsi sintesi sociale, capace di dare prospettive e forse anche sogni.

Mai come oggi, la politica manca.

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Marco Panella

Nato a Roma nel 1963, laureato in Scienze Politiche con indirizzo internazionale, si occupa di comunicazione dal 1989 come imprenditore e consulente di aziende ed enti pubblici. Curatore di mostre e festival culturali, esperto di storia del costume italiano ed heritage communication, coniuga all’attività professionale interessi personali che spaziano dalla geopolitica all’etica dell’innovazione. Ha esordito nella narrativa con il romanzo nero Tutto in una notte, edito a settembre 2019 da Robin Edizioni.

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