L'”economic sentiment indicator” rilevato dall’Istat per il mese di marzo 2020 presenta un calo del -17,6% rispetto al mese precedente.
Sono tra coloro che ritengono che una parte consistente dell’opinione pubblica e di conseguenza dei decisori politici (per mancanza di informazioni o per pregiudizio) stia sottovalutando gli effetti di medio periodo della chiusura delle attività produttive. Non si tratta solo degli interessi, per altro legittimi, degli imprenditori ma di quelli di noi tutti. La drastica diminuzione della produzione di reddito inciderà, infatti, sulla occupazione, sul tenore di vita e sullo stesse possibilità di finanziare (e quindi realizzare) i servizi (e i trasferimenti) pubblici, compresi quelli a carattere sanitario e sociale.
Per questo tendo a considerare con attenzione tutte le proposte di ripresa delle attività e a essere, sinceramente, un po’ irritato dall’approccio retorico “moralistico” che, mistificando, contrappone la “salute” al “profitto”, non sono questi i termini della questione.
Continuo ad essere, inoltre, abbastanza perplesso nei confronti di un approccio di tipo “settoriale” basato cioè sulla individuazione dei settori che, per la loro rilevanza sociale o economica dovrebbero godere di una qualche corsia preferenziale. Se si escludono, infatti, le attività direttamente legate alla emergenza sanitaria e alla necessità di assicurare nell’immediato decenti condizioni di vita (servizi pubblici e funzionali) mi sembra difficile individuare tali priorità, stante la complessità delle interdipendenze che legano tra loro le diverse attività produttive. Non si tratta solo del fatto che, storicamente, i sistemi in cui è stato affidato alle autorità pubbliche il compito di decidere cosa produrre e cosa no (che è cosa diversa dal decidere quali produzioni vadano incentivate o sostenute) hanno prodotto molto meno benessere di quelli basate sulle dinamiche di mercato. Ma anche del fatto che in Italia la cultura della programmazione economica (o anche solo della “politica industriale” con qualche limitata eccezione) è stata sprezzantemente abbandonata da circa un quarto di secolo e quindi mancano alla pubblica amministrazione gli strumenti scientifici per operare in modo effettivamente consapevole determinate scelte.
D’altra parte mi sembrerebbe molto più ragionevole seguire i criteri assai più pertinenti della effettiva rischiosità. Questa può essere riferita al singolo luogo di lavoro (e in questo caso ciò che conta è l’implementazione di un efficace sistema di definizione e controllo delle disposizioni di sicurezza) oppure -per gli effetti indiretti sulla mobilità- ai territori (e in questo caso ciò che conta è il livello di diffusione territoriale dell’epidemia e le relative possibilità di controllo). Naturalmente questo non esclude che vi siano settori di attività che, per le loro modalità di esercizio, siano tendenzialmente più “rischiosi” di altri (un ristorante è più “rischioso” di una officina meccanica) e per i quali la definizione di standard di sicurezza sia più complessa e richieda, ammesso che sia possibile, più tempo. Ma non mi pare che tale criterio possa essere usato, ad esempio, per discriminare, in base al settore ATECO di appartenenza, le diverse attività manifatturiere.
Infine c’è un problema di metodo: è giusto che decisioni di questa portata, con effetti così consistenti sulla nostra vita futura, siano affidate esclusivamente all’esecutivo riservando, nel migliore dei casi, al Parlamento (cioè al luogo di rappresentanza democratica) al massimo un ruolo di frettolosa ratifica a posteriori? Io credo di no, ma questo è un altro discorso.
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