Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.
È vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se non fossero mai esistiti.
Ora rammento con chiarezza:
la gente, vedendomi, si interrompeva a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.
Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.
Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita dal proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque,
prima di –
È andata come dicevo io.
Però non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.
da Uno spasso, 1967
Sono versi intensi che ho sempre amato tanto e su cui in questo “malo tempore” ritorno spesso a riflettere: si affidano alla forza del mito, “di ciò che non avvenne mai ma che è sempre”. (Sallustio)
Essi ci riportano ad una scelta di grande responsabilità: rivolgere lo sguardo verso un futuro “dove nulla è più facile che vedere la morte” o tenerlo fisso “sull’istante, uno qualunque prima di…” dell’ineluttabile. Sta qui il limite ma anche la forza più grande dell’uomo: accontentarsi del subito perché tanto si morirà comunque o andare oltre la propria breve esistenza e collaborare ad un progetto di futuro accettando responsabilità grosse e difficili da gestire. Per tutti c’è una Cassandra che incombe, che implora di essere ascoltata ma che è dimenticata e relegata in un angolo, tenuta nascosta a noi e alla nostra anima. La sua voce è dura da ascoltare, ci chiede ragione del cavallo di Troia che abbiano trascinato entro le mura della nostra coscienza e a cui abbiamo affidato la nostra sorte, ci mette in guardia dalla nostra irresponsabilità, dalla nostra illusoria onnipotenza, ci invita a non abbassare lo sguardo di fronte al reale, ai “giusti presagi che accendono il cielo”.
Ma se il destino di Cassandra è quello di non essere ascoltata e se le sorti degli uomini sono “già decise” e i loro sono “corpi da commiato” a che serve parlare, a che serve ascoltare, darsi da fare? Perché togliersi la gioia della speranza per quanto sia una fiammella nutrita dal proprio luccichio e che prende coraggio dal proprio riflesso? Basterà una Cassandra a cambiare il corso della storia se ciò che deve accadere accadrà nonostante tutto e tutti?
A che serve denunciare, guardare la realtà per quello che è se molti non vogliono sapere e capire: gli intrighi di potere, le logiche distorte, la superba vanagloria, la sete di prestigio e di riconoscimenti, spesso ridicoli, le sopraffazioni, l’ignoranza , l’ignobile compromesso? Non è meglio tacere? Fermarsi ancora prima del quid e del quia di verità scomode, non è meglio fermarsi al quotidiano, alla rassicurante mediocrità senza porsi problema alcuno di ciò che accadrà e che comunque dovrà accadere?
È questo il mio dubbio quando vedo vanificare tutto il mio piccolo impegno per le mie piccole battaglie. È questo il motivo della “testa piena di dubbi” di Cassandra: ha avuto ragione, la città è distrutta ma non ha vinto, la sua azione è stata inutile, l’ha solo condannata ad una infelice solitudine.
Ma lei afferma: gli uomini “li amavo dall’alto, da sopra la vita… Guardatevi dall’alto delle stelle, gridavo…”.
Non poteva fare altrimenti, pertanto, che mostrare la gravità del pericolo, l’enormità del rischio, non poteva esimersi dal dire la verità, era un compito e un dovere a cui non poteva venir meno proprio per amore della vita e degli uomini, per amore della sua essenza.
E l’uomo ?
L’uomo che abbassa lo sguardo e si sottomette inerme al destino se pure ineluttabile è un uomo che non ha saputo neanche ribellarsi ed emanciparsi per essere un dissidente e in dissonanza, è un uomo che non è stato mai veramente vivo.
A questo punto:
È meglio ascoltare Cassandra e preservare almeno se stessi, non tacere perché si sappia, alzare gli occhi e guardare in faccia a ciò a cui si andrà incontro, se non lo si potrà evitare almeno non si diventerà corresponsabili.
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