Non è che un contenitore. La sua anima è virtuale eppure palpita ed emoziona come le nostre. Ad esso ci affidiamo.
Una giornata come un’altra e un’altra ancora.
In ricordo di chi ci ha lasciato, familiari, amici, personaggi. Di eventi come il matrimonio e le successive ricorrenze, la nascita di figli e nipoti, l’orgoglio di una laurea, le vacanze ovunque siano state consumate ma anche stanze e letti d’ospedale.
Racconti brevi, fermo immagine di tante vite, raccoglitore di speranze, di richieste d’aiuto o di un’amicizia, sia pure virtuale, che sostenga solitudini e speranze.
Vivo interprete di tutto ciò, Facebook, imperterrito, rimanda però alla certezza che l’animo umano non cambierà mai. Lui si, potrà farlo, mutare, svilupparsi, essere controllato o degenerarsi.
I fruitori di questo strumento invece si affidano ad esso con lo stupefacente ed infantile bisogno di ascolto, sostegno, condivisione, apprezzamento, confessione e con l’altrettanta necessità di esprimersi.
Un insieme di parole adulte che nascondono bisogni primari di relazionarsi, confrontarsi, fare branco, costruire schemi condivisi o dibattere in quelli divisivi, ipotizzare futuri oltre le regole.
Schermo e filtro del loro aspetto, Facebook consente di agire o interagire anche offendendo, giudicando, ironizzando, provocando, disprezzando, minacciando. Soddisfacendo bisogni nascosti di prevaricazione, di dominio o di sfida.
Confondendo, tra privato e pubblico, le proprie emozioni attraverso faccette, simboli d’emoticon sempre più adattabili, veloci e mutevoli a seconda della variabilità dell’anima e del pensiero.
Dunque Facebook è buono o cattivo, utile o pericoloso? Cosa avrebbe detto Freud? Che è solo uno strumento virtuale o un modo subdolo d’insinuarsi nelle vite altrui? Tutto il conosciuto o lo sconosciuto vive in un unico e solo “corpaccione cannibale” che si nutre di navigatori.
Non c’è nessun centro di psicoanalisi che potrebbe sostituire questa cornucopia virtuale di coraggio per chi non ne ha, di soddisfazione narcisistica, di location per imbrogli, di strizzate d’occhio al bisogno d’esistere anche senza esserci.
Il mezzo di comunicazione più utilizzato dalla gente e forse il più importante dei social network ha ampiamente smentito il suo fondatore secondo il quale la tecnologia “deve unire e dare potere alle persone, non renderle schiave e controllate”. Questa sorta di amico generoso ogni volta trova il modo perché si creino gruppi funzionali a intenti non sempre palesati, permettendo una connessione sempre meno sofisticata ma sempre più a rischio di controllo personale.
Questa è l’era della digitalizzazione e questo biglietto è il biglietto da visita.
Miliardi di persone navigano felici e inconsapevoli, illudendosi di essere protagonisti, di abbattere le barriere e le differenze solo nel gestire un piccolissimo spazio chiamato “pagina personale”, la propria vita chiamata “profilo”, i propri sentimenti esponendoli alla platea virtuale.
Come salvare l’anima?
Cercare di domare i cavalli che corrono a briglia sciolta è complicato.
Facebook non è solo e con lui marcia un esercito di altri social in continua espansione, protagonisti e responsabili di un cambiamento epocale non solo a livello tecnologico ma anche individuale.
Milioni e milioni di persone si stanno abituando così ad una forma di apprendimento e di comportamento che, come è avvenuto milioni di anni fa, modificheranno forse anche le facoltà percettive. Si perderanno alcune doti pur facendo acquisire nuove abilità.
Certamente, Facebook e i suoi “compari” creeranno continui stimoli ma l’uso sconsiderato dei social sta cambiando le abitudini di tutti gli individui oltre le appartenenze.
Non esiste quasi più un povero che non possieda un telefonino su cui connettersi, uno studente che non lo usi anche durante la didattica o una relazione che ne prescinda.
La dipendenza, parziale o totale che sia, determinata dalla loro influenza sulle “anime” rischia di portare come conseguenza una visione diversa dal reale.
Il pericolo di perdere un mondo umanistico per un mondo tecnologico rischia di instaurarsi soprattutto sulle nuove e nuovissime generazioni alle quali, in contraddizione, non si sottrae lo studio di antiche lingue come latino e greco, considerate formative. Non s’insegna, viceversa, il nuovo linguaggio che la tecnologia importa nel vivere quotidiano, la differenza tra un uso corretto e uno scorretto esattamente come le declinazioni dei verbi.
I cambiamenti hanno bisogno non solo di regole ma anche di cultura perché, affinché l’insieme possa funzionare, c’è bisogno che ogni cosa e ogni mente si amalgami.
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