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Le sentinelle di cui abbiamo bisogno

«Il treno per San Benedetto Val di Sambro è in partenza dal binario 1 piazzale est». La voce metallica dei nastri registrati dalle Ferrovie dello Stato informa i viaggiatori di una partenza speciale. Domenica 2 agosto 2020. Stazione di Bologna Centrale. Ore 12: sul treno per San Benedetto viaggiano ferrovieri e autorità che, all’arrivo, deporranno una corona di fiori sulla lapide dedicata alle vittime della strage dell’Italicus e quella del Rapido 904 Napoli-Milano. Entrambe ebbero come teatro la grande Galleria dell’Appennino, a dieci anni di distanza. Rispettivamente 1974 e 1984. La prima di matrice eversiva: terrorismo di destra. La seconda considerata antesignana della guerra di mafia degli anni ‘90.

Il richiamo alla partenza è risuonato in quello che per Bologna è stato il giorno del ricordo. Quarant’anni dopo lo squarcio prodotto da un ordigno di 23 chili che, alle 10.25 di un afoso sabato di agosto, sventrò la sala d’attesa della stazione centrale. L’esplosione falcidiò 85 vite. La più piccola, Angela Fresu, di soli 3 anni. Lo sgomento fu tale che, quel giorno, tutti arrivarono in piazza Medaglie d’Oro per cercare di dare il proprio aiuto. Come potevano. Coi mezzi che avevano. Come Agide Melloni, autista dell’azienda di trasporto pubblico locale, che rientrò in servizio alla guida dell’autobus 37. Quello divenuto tristemente famoso per aver trasportato i corpi senza vita di chi, in quella strage fascista, rimase ucciso.

«Quando non ci saremo più noi, chi preserverà la memoria di quello che è stato?». Se lo chiede Agide da una delle Stazioni della Memoria che Cantiere Bologna, Cucine Popolari e le 6000 Sardine hanno allestito lungo via Indipendenza alla vigilia delle celebrazioni del 2 agosto. Se lo chiede Agide, preoccupato del clima che si respira nel Paese. Un clima di tensione e rimozione. Un clima che facilita l’alterazione della realtà per edulcorare o, peggio ancora, negare. Soprattutto ora che il quadro si fa sempre più chiaro. E si chiarisce il contesto torbido nel quale i fatti di Bologna, e non solo, presero corpo. Si parla di Licio Gelli e della Loggia P2.

Ecco che allora, nel momento in cui la verità pare più “vicina”, il monito di tutti si fa ancora più forte. Perché una quasi verità non può bastare né a Agide né a chi, come lui, porta dentro i segni di quella e di tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia. Non può bastare a nessuno di noi.

Sono forti le parole del giornalista Luca Bottura, che invita a tenere a mente i nomi degli uomini delle istituzioni che proprio della loggia P2 furono parte. Sono dure le parole di Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime di Bologna, che punta il dito contro narrazioni mediatiche che vorrebbero negare le verità. Malgrado atti e documenti desecretati. Sono acri le parole di Ada Bonfietti, che guida i parenti delle vittime di un’altra strage che Bologna ricorda da quello stesso, drammatico 1980. La strage di Ustica, il 27 giugno di quarant’anni fa.

E la stessa presidente del Senato, ora che le carte vanno (letteralmente) scoprendosi, non si è sottratta al confronto coi familiari di quanti, quel sabato 2 agosto, non fecero più ritorno. Quel giorno, tutta l’Italia ha perso una moglie, un figlio, un fratello, un padre che, per un qualsiasi motivo, si trovava a passare per quella sala d’attesa. Devastata da una violenza tale che, ancora oggi, sulla chitarra del giovane Davide Capriolo ci sono tracce di esplosivo. Davide aveva vent’anni e nessuna colpa. Se non quella di aver perso la coincidenza per tornare a casa, a Verona.

«Che Stato è quello che non consente ai suoi cittadini di conoscere la verità?». Si è chiesto Paolo Bolognesi dal palco di Piazza Maggiore. Ce lo chiediamo anche noi e ci chiediamo quale sia il reale stato di salute della nostra democrazia. Dove sempre meno si ricorda e sempre più si gioca sulla debolezza della nostra memoria collettiva.

Quando Agide e quelli come lui non ci saranno più, chi resterà a onorare il dovere della memoria?

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Giulia D'Argenio

Giulia D’Argenio, 33 anni, una laurea in relazioni internazionali e un dottorato in storia dell’Europa. Ha incrociato il giornalismo nel periodo della ricerca e per sei anni ha collaborato con il quotidiano indipendente Orticalab. La cronaca e le inchieste hanno viaggiato di pari passo all’impegno nel volontariato, prima di virare sul mondo degli eventi e della cultura, scoperto negli anni dell’università e nel periodo di collaborazione con la Fondazione Idis di Napoli. Oggi lavora con la Fondazione Francesco Saverio Nitti

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