Di Federica Bassetti
C’è qualcosa di eterno ed incomprensibile anche nel cibo che mangiamo e quando si mangia, non si soddisfa solo il proprio istinto di auto-conservazione ma si cerca se stessi. Nella predilezione per certi cibi e nell’avversione per altri, nella scelta quasi mai consapevole del nostro nutrimento, andiamo alla ricerca di un appagamento che rischierebbe di intorpidire la nostra anima, se fosse soltanto dettato dall’istinto per la sopravvivenza. F. Nietzsche (1814 1900) che ha davvero realizzato un’invasione di campo nel mondo culturale ufficiale della sua epoca distruggendo a colpi di piccone le vecchie tavole dei valori morali, filosofici, religiosi e civili della sua Europa di cui profetizza i prossimi funerali del ‘900, era assillato dal problema dell’alimentazione. In “Ecce homo”, l’ultima opera e congedo spirituale e lucido del grande mistico dei nuovi valori che da allora sarà assalito dalla follia, afferma di preoccuparsi più di qualsiasi altro problema o sottigliezza da teologi, proprio del problema dell’alimentazione.
Un uomo che possa elevarsi al di sopra della meschina realtà contemporanea, deve saper rispondere ai bisogni del corpo, di un corpo che ha bisogno di un buon clima e di una buona tavola, che sa quello che vuole e che cerca soprattutto cibi sani, leggeri, francesi o italiani, lontani dalla originaria cucina tedesca che non sa digerirsi e che propina la minestra prima del pranzo e fantomatici dessert-fermacarte come punizione finale.
Il corpo saggio fa buon uso anche del vino e rincorre l’ideale della dieta piemontese, la migliore e la più soddisfacente per il filosofo tedesco che non dimentica il bel periodo trascorso a Torino dove l’amico Overbeck lo trova sul finire del 1888 in uno stato confusionale e quasi terminale tra l’inconscio satirismo dei coreuti dell’antico Dioniso e la disperazione del genio incompreso e solo, mai scaldato dall’amore di una compagna.
Nietzsche racconta di aver mangiato male tutta la vita, perenne esule in giro per l’Europa, costretto alle impersonali tavole dei ristoranti e delle pensioni che lo accolgono di volta in volta e da buon filosofo del grande disprezzo, odia la birra, bevanda nazionale rovinosa e pesante per lo stomaco e disprezzata persino da quel vecchio categorico e prussiano di ferro come Immanuel Kant che preferisce di gran lunga la bevanda inventata da Dioniso-Bacco per il diletto degli uomini e del cui abuso “compromettente” traccia anche un’originale analisi nella sua “metafisica dei costumi” preferendo alla sbornia da birra che rende rozzi e volgari, proprio l’ebbrezza provocata dal vino, più raffinata e salutare, ma non meno pericolosa.
Kant ama le minestre di orzo, se possibile con i vermicelli, adora il burro con il quale unge le sue tartine non sempre perfettamente geometriche come vorrebbe la sua mente di fine ordinatore e critico della ragione e dei suoi limiti, mangia con gusto arrosti e precotti di vitello ma in vecchiaia, non più provvisto di una buona dentizione, preferisce masticarla e sputarne i bocconi di nascosto che sotterra sotto le croste del pane.
Una sera tornato da un’osteria dove era solito rifugiarsi nella sua amata e natale Koningsberg dalla quale mai si sposta ci mise un po’ per ritrovare la strada per casa. I suoi occhi non erano molto critici in quei momenti e le sue categorie mentali che tanta importanza hanno avuto nella sua dialettica trascendentale, non agivano più come avrebbero dovuto sul materiale empirico-reale, Kant ci vedeva doppio e quando arrivò finalmente sulla porta di casa, il suo fedele domestico Lampe tirò un sospiro di sollievo. Era lui a preparare i pasti per Immanuel e a segnare su ordine del filosofo i piatti preferiti degli amici in modo che al loro ritorno trovassero le pietanze preferite sulla tavola kantiana dove il filosofo non sedeva mai da solo e una storia- leggenda forse un tantino romanzata racconta di un simpatico ed accorto Lampe che su ordine del maestro corre in strada in cerca di un ospite di passaggio da invitare a casa Kant.
Ma il criticismo kantiano, si sa, è stato superato e inglobato nell’idealismo di Hegel e Hegel è stato messo in panchina da Nietzsche e Nietzsche diventa l’incubo del novecento, degli esistenzialisti, di coloro che tentano di recuperare l’uomo dai frammenti delle esplosioni belliche e che durante il disperato processo di ricostruzione del pensiero, sono colti da quel senso di vertigine che prende alla vista dell’abisso che diventa nausea per un’epoca che ha ingurgitato morte e sangue ed eterna fame di impossibili verità.
Jean Paul Sartre della Nausea ha fatto il titolo di una delle sue maggiori opere letterarie e da bravo francese anticonformista, ha sviluppato un senso di orrore proprio per gli emblemi sacri della cucina francese dei ricchi. Le ostriche, i molluschi in genere e le aragoste con gamberi, scampi e polipi costituiscono la dieta macabra da evitare, rappresentano l’idea di un mondo fossile sigillato nei suoi gusci che non si deve violare, sono l’ombra nascosta dietro il cibo, il lascito di un mondo arcaico che una volta ci è appartenuto e che ora si ribella di fronte all’uomo, vorace mangiatore di altri esseri con i quali tappa i buchi della sua anima. Se una volta fu proprio l’alimentazione marina in guscio ricca di acidi grassi a conferire al cervello umano l’approvvigionamento necessario per una evoluzione in grande stile, Sartre vede nel cibo-antenato della nostra storia di uomini, la presenza di sinistri messaggi tabù che lo preservano dal consumare pesce e lo indirizzano verso una cucina più casereccia, elaborata se possibile proprio dall’uomo: il pane, i dolci, i formaggi, i biscotti, i salami sono cose trasformate dalla mano dell’uomo e sono cose umane, mangiarle fa bene allo spirito sociale e rende liberi dalle incursioni in mondi diversi, stranieri, al limite del nulla che si apre sotto le onde del mare e sotto la terra.
Una sera raggiunta la sua compagna storica “Simone de Bouvoir”, Sartre si chiude in fretta la porta alle spalle, è febbricitante e agitato, nel pieno di uno dei suoi esperimenti sull’immaginazione e quindi sotto l’effetto della mescalina che gli fornisce un amico medico. Scuote la testa disperato, si siede e dice a Simone, spaventato e confuso: “Tieni chiusa la porta per carità, sono inseguito da un’aragosta“.
Federica Bassetti è laureata in
filosofia ed è autrice di monologhi su argomenti di
storia e
filosofia.
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