“Io sono il potere”, confessioni di un capo di gabinetto anonimo che si dichiara “della Prima, della Seconda e della Terza Repubblica”, che Giuseppe Salvaggiuolo (capo della redazione politica della Stampa) ha raccolto e trasferito agli editor di Feltrinelli, è stato il “best seller” dell’estate per un mondo romanocentrico che ruota attorno alle dinamiche politico-istituzionali del sistema di governo.
Per l’esattezza nel triangolo Palazzo Chigi, Ministeri, Magistrature amministrative. Tutto il resto essendo marginale, nel testo e nella vita dell’anonimo autore.
Già questa iper-baricentrazione esistenziale, professionale, relazionale, gergale, è la chiave stilistica di un libro a cui manca l’aria del nostro tempo, del mondo che ci circonda, delle meraviglie e delle nefandezze per le quali si sogna e ci si indigna. Nell’ansia di confermarsi in ogni pagina “anche oggi al centro del Potere, anzi: anche oggi io sono il Potere”, non c’è più spazio per nulla. Non c’è un teatro, uno spettacolo, un viaggio, una lingua straniera, una partita di calcio, un artista, una donna con cui misurarsi con l’intelligenza e le buone letture (perché è sempre e solo una storia “tra uomini”).
Ma c’è di peggio: non c’è neppure la politica, quella che al di là della frontiera cinica dei “posti” ha ancora qualche palpito da offrire a chi per mestiere si vuole occupare di …politica. Così alla fine da far pensare ai classici giri del cinismo organizzato che nella nostra storia repubblicana hanno nomi e cognomi, sommati alla cultura delle canne al vento (“loro passano, tu resti”) che, in generale, è stata la colonna sonora di una certa burocrazia (appunto, non tutta, ma forse quella maggioritaria).
Non so se è già coniata l’espressione sociologica, ma vien da dire “un’Italia palamarizzata”.
In 280 pagine non c’è il soffio di un progetto, di una battaglia, di un principio di cambiamento. C’è anzi la pretesa di omologare al condizionamento perpetuo da parte dei tre eserciti di “alta dirigenza in affitto” (Consiglio di Stato e Avvocatura dello Stato, con la Corte dei Conti in leggero distacco) tutto e tutti. La politica (quella competente e quella incompetente), le culture interne alle istituzioni (quindi le “vocazioni” istituzionali), il cambio dei paradigmi di quel “potere” che è raccontato immoto, asettico, statico, concentrato sul “potere” di scrittura di un decreto.
Tutto ciò per l’anonimo autore è un “sentito dire”, a cui per altro non presta grande attenzione. Lui è febbrilmente concentrato sulla possibilità – che si è trasformata, grazie al “radicamento”, in un diritto – di essere ricevuto con discrezione da Gianni Letta, di raccogliere qualche indiscrezione dallo storico e bravo capo del Cerimoniale di Palazzo Chigi Massimo Sgrelli, di ammirare la sempiterna concentrazione di incarichi di Pasquale De Lise. E di far credere al lettore meravigliato che le crudeltà e le potenzialità di un tratto di penna su un atto sono state in tutta la storia repubblicana nella mani di tre perverse virtù: il posizionamento flessibile, il controllo del “rinvio di legge”, la tecnica di rimandare le cose.
Per capire il quadro più pressante delle fonti dell’anonimo autore basta andare nelle sei smilze paginette a fine testo dell’indice dei nomi e guardare chi ha diritto almeno a due righe di rimandi. In testa Berlusconi e Conte. Seguono Renzi, Monti e i due Letta (zio e nipote). Staccati Napolitano, Andreotti, Amato, Prodi, Giorgetti, Tremonti. Ancora più staccati D’Alema (per rimproverargli che non capiva il “cerimoniale”), Ciampi e Gentiloni. Poi – entrando in quello che per l’autore è il mondo che conta – la lista si stringe: Enzo Fortunato, Roberto Garofoli, Goffredo Zaccardi, Pasquale De Lise, Luigi Carbone, Antonio Catricalà. Staccato Alessandro Pajno. Unica donna in campo Maria Elena Boschi, rispetto a cui l’autore non cela la “fascinazione botticelliana”.
Sull’aneddotica – non ingente, ma necessaria in questo genere di narrazioni – ci sono svarioni (un caso riguarda il viaggio di Stato di Sandro Pertini in Francia nel 1982, che prende più di un pagina, che è pasticciato e non è il caso qui di correggere (ero lì a un metro e l’ho già raccontato da qualche parte).
La frequentazione almeno storica del sistema democristiano è segnalata dall’aggettivo con cui “ISIP” (Io Sono Il Potere) definisce l’Avvocato dello Stato (e altri ruoli) Nino Freni: “socialista fino al midollo”.
Ma al di là di questa insufficiente geografia – anche fosse solo per raccontare non l’Italia ma l’Italietta – la testimonianza resta un documento utile per capire meglio il volto meno noto al pubblico dei fattori per i quali – nella prima, nella seconda e nella terza Repubblica – si sono sempre perse le occasioni per riformare davvero lo Stato. Cioè per venire a capo di una modernizzazione delle culture politiche e amministrative grazie a cui fare dell’Italia un paese moderno, più competitivo e con una democrazia meglio alimentata.
Aggiungo che questo “volto segreto” (ora anche “anonimo”) che si vuol raccontare come anima della Repubblica confina con altri volti “segreti” che dominano i più gravi irrisolti italiani di molti e tenebrosi anni per i quali abbiamo da tempo perso il treno di ogni soglia minima della democrazia, quella della trasparenza.
Non mi sono occupato della questione che agita il dibattito estivo, chi è l’autore. Lascio aperto un dubbio.
L’autore, assalito da interrogativi sugli aspetti torbidi di questa prestigiosa professione, racconta in modo stressato questo mondo per emendarsi, ovvero per introdurre il sospetto nei cittadini che, forse alla fine di un ciclo, prevale la visione dei vizi. Oppure l’esatto opposto. L’autore, assalito soltanto da horror vacui, non avendo da scrivere altri dpcm, propende per un racconto che lo ripaga da una vita in penombra e, convinto che questa Italia premi volentieri più il torbido che il trasparente, racconta – distribuendo qualche pagella – una somma di vizi che in fondo gli piacciono.
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