Negli ultimi anni, sui social network, si assiste a gravi attacchi alla libera informazione. Attacchi autoritari e non conformi alle norme abituali. Gli episodi più recenti hanno visto addirittura la cancellazione di post e tweet da parte di YouTube, Facebook e Twitter, nei confronti di rappresentanti politici eletti dal popolo e addirittura del Presidente degli USA. Come mai ciò è possibile? Come sempre dipende da diversi aspetti giuridici e normativi che incidono sulla scena senza dimenticare comunque i motivi sociopolitici, economici e i rapporti di forza ai quali sottostanno.
La prima cosa su cui non si riflette abbastanza è che un “territorio digitale”, la rete Internet che si estende dovunque, è stato sovrapposto ai singoli territori fisici, intesi quali perimetro geografico all’interno del quale vige un sistema di leggi. Ciò è avvenuto nella quasi assenza di reazione da parte delle diverse autorità nazionali le quali, con immensa leggerezza, hanno voluto/dovuto considerare Internet e i giganti del web come “portatori di innovazione buona”.
Con “territorio digitale” (per esempio, Google, Facebook, YouTube, Amazon, eBay, ma anche Air B&B, Zoom, etc.) intendiamo quelle aree e “campi di influenza” frequentate dagli aderenti a una community e nelle quali si svolgono attività grazie a strumenti quali PC, tablet, smartphones, etc. Indicativamente: consultazioni di motori di ricerca, upload e download di contenuti, condivisioni, streaming, giochi o anche compravendita di beni e servizi, sondaggi, raccolta dati, etc.
Questi “territori”, frequentati dai membri attivi delle loro “communities”, si sono dati delle “norme interne” dette “condizioni d’uso” e ciò è stato fatto tenendo in minimo conto le “norme abituali” e fondando la relazione tra gestore e utenti in massima parte su nuovi ruoli, che si stanno rivelando “ibridi e ambigui”. Tra questi brilla quello previsto nel 1996, quando il Congresso degli Stati Uniti approvò, all’interno del Communications Decency Act, la Sezione 230, definita da qualcuno “le 26 parole che hanno fondato Internet”. Ovvero: “Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”. Questa frase solleva i social network dalla responsabilità dei contenuti che vengono pubblicati sulle loro piattaforme. Negli ultimi anni però le fake news, gli attentati, la pedo-pornografia e l’incitamento alla violenza hanno costretto i social a intervenire e così la “moderazione” dei contenuti è diventata una parte fondamentale delle loro attività. Sono nati team di fact checkers e strumenti di segnalazione che oggi si configurano quali veri e propri gruppi di censura, talvolta anche preventiva.
Un altro ruolo ambiguo concesso ai social media è quello che in buona sostanza concede (tra l’altro) al gestore della community di appropriarsi dei contenuti e imbottirli di pubblicità, stornando (non sempre) una quantità minima di proventi per il creatore proprietario dei diritti originali. Aggiungiamo a questi ruoli quello di “occulto raccoglitore e rivenditore di dati” e il gioco è fatto.
Quando un “utente” sottoscrive un “contratto” con un social media si stabilisce una relazione inedita e, come già detto, molto ambigua. Checché ne dicano alcuni giuristi, i quali sostengono che comunque il contratto debba tener conto delle leggi della nazione in cui opera l’utente, in realtà l’utente si addentra e opera in un territorio diverso e “accetta” incondizionatamente i termini e condizioni d’uso del fornitore – gestore, anche se difformi da quelli della propria tradizione giuridica.
Questo “addentrarsi”, unitamente all’accettazione, ovviamente avviene nel mondo fisico. L’utente mantiene i suoi piedi, la sua testa, il suo corpo – sia che entri da PC o da smartphone – sul territorio fisico ma… poco consapevolmente, quasi per magia, egli viene proiettato all’interno del territorio digitale. Si smaterializza e diventa più “membro della community” che non cittadino di nazionalità definita.
È come se attraversasse uno Stargate, come se passasse attraverso lo specchio di Alice. L’utente non se ne rende conto, ma da quel momento le sue “manifestazioni vitali”, sia attive che passive (upload – download), vengono “digitalizzate”, ovvero tradotte in sequenze numeriche sterminate di bit e bytes.
La rappresentazione di se stesso, il suo avatar digitale comincia, dunque, ad agire e muoversi al di là del territorio fisico: all’interno del territorio digitale. Ad esempio, la sua immagine, in ottemperanza al fair use diventa di proprietà sia dei gestori che di ogni membro della comunità; può essere modificata e proiettata e vista a distanze sterminate in tempi che tendono a zero; oppure le sue singole azioni possono essere replicate e comunicate ad un numero molto alto di referenti online. Il gestore della community crea fra l’altro un archivio in cui conserva la storia e le azioni dell’utente, le menzioni fatte da altri, i successi sì ma anche le sentenze, le accuse vere o false… e spesso si rifiuta di cancellare le tracce, mantenendo l’utente in ostaggio del suo stesso passato, negando il diritto all’oblio. Infine, grazie ad altri veicoli digitali, quali carte di credito e (uno per tutti) PayPal, l’utente può compiere azioni commerciali: pagamenti e incassi anche rilevanti.
Quali sono le caratteristiche “poco conosciute” di questo territorio digitale e estranee alle tradizioni giuridiche dei territori fisici?
Perché?
Ovviamente tutto ciò genera effetti nefasti sugli utenti.
In primis confusione e frustrazione. Ma tali sensazioni sono alimentate dai gestori perché ciò li pone in una posizione dominante. Una posizione molto simile a quella che era del dominus nei confronti dei servi della gleba durante il feudalesimo. il dominus può far ciò che vuole, l’utente può solo accettare o andarsene.
Il grande problema interviene quando l’utente non può più semplicemente “andarsene”, perché ha investito tempo, lavoro, denaro e creatività e ha alimentato aspettative lecite nei confronti della community e del suo effetto alone nella socialità materica. Andarsene significherebbe “ricostruire altrove”, comunque un altrove digitale, tutto ciò che ha costruito nel luogo dal quale viene esiliato.
È così che l’utente diventa un ostaggio che vive una situazione bivalente: vorrebbe rivendicare i propri diritti e difendere i propri interessi, ma teme la cacciata.
Esistono senza dubbio altri “territori digitali” nei quali ricollocarsi, ma appaiono periferici e molto meno rinvenibili e frequentati dei grandi social network che pertanto, secondo alcuni analisti, sono definibili “monopoli” di fatto.
Ora analizziamo in dettaglio altri ruoli.
Quello che (per semplicità) abbiamo chiamato finora “utente” in realtà assume ruoli variabili al variare delle azioni attive o passive da lui compiute nel territorio digitale.
Può essere semplice “fruitore” di servizi (utente passivo); produttore e creatore di contenuti (utente attivo o prosumer); consumatore-acquirente di beni e servizi; innovatore partecipante dei servizi fruiti da lui e/o da altri; inserzionista pubblicitario; piccolo gestore di business autorizzati; fornitore di dati più o meno consapevole; raccoglitore di donazioni; promotore di petizioni, etc.
Al variare dei diversi ruoli, che talvolta si possono assumere anche contemporaneamente, variano i diritti e doveri e variano (quando ci sono) le norme di riferimento. Per esempio, nel caso dei consumatori o dei fornitori inconsapevoli di dati personali, questi possono far riferimento a codici e regolamenti in parte transnazionali come quelli dell’UE, che comunque non sono riconosciuti quali norme planetarie. Mentre nel caso di prosumer, le norme spaziano ambiguamente da quelle applicabili agli editori-produttori a quelle applicabili agli utenti finali.
Anche quello che finora abbiamo chiamato “gestore multinazionale” può assumere contemporaneamente o distintamente diversi ruoli: provider di servizi, editore mascherato da garante e gendarme della community, venditore di beni e servizi, datore di lavoro “paradipendente”, raccoglitore occulto o manifesto di dati personali, fino a diventare censore e arbitro non contestabile di vero o falso.
I gestori sono stati chiamati più volte a chiarire il loro ruolo, recentemente anche di fronte alla commissione antitrust del Congresso USA, ma non l’hanno voluto fare. Perché? Perché se assumessero chiaramente il ruolo di editori sarebbero responsabili di fronte alle magistrature nazionali di tutti i contenuti pubblicati e dovrebbero anche pagare le tasse sui guadagni maturati su ogni territorio. Preferiscono dunque assumere il ruolo di tecno-providers che li manleva dalle responsabilità e comportarsi comunque da editori, quindi riservarsi anche di chiudere o meno un account, quando lo ritengono opportuno. Questa posizione “ibrida” si è rivelata per loro molto vantaggiosa e la tendenza è quella di mantenerla ad ogni costo.
Da luglio 2020 si susseguono le audizioni delle Commissioni Antitrust che hanno condotto alla produzione di imponenti report. Da più parti si chiede un cambiamento importante del ruolo dei social media (e delle Big Tech in generale) ma non sappiamo se l’amministrazione Biden vorrà confermare l’atteggiamento duro dell’amministrazione Trump.
Riassumendo: questo groviglio di ruoli, diritti e norme è dovuto:
In questa scena i governi, le magistrature nazionali e le figure professionali della tradizione chiamate alla difesa dei diritti sono molto, molto confuse. Perché?
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