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Ma siamo nella fase due, nella fase tre o nella fase quattro?

Il rischio è che, mentre i tedeschi si preparano al piano sociale della spesa pubblica con le regole europee, noi facciamo esplodere mille soggettività all’insegna del liberiamoci dal lockdown.

C’è persino incertezza nei media – e quindi tra la gente – se oggi (3 giugno 2020) si sia aperta la fase due oppure la fase tre. L’importante è che si sia espliciti sul fatto che non siamo più nella fase uno. Cioè che il lockdown impositivo, separativo, precauzionale con sorveglianza di polizia, abbia lasciato il posto a una più generica e più autoregolata “prudenza”.

Poi legato a questo c’è attaccato il numero due per chi intende che le regole precauzionali devono ancora essere considerate dirimenti. E c’è attaccato il numero tre – alla Bolsonaro – per chi non trattiene l’impazienza di tornare al “tutto come prima” per i più meglio se in deregulation.

Finché tra un po’ – per chi pensa che il marketing sia una scienza creativa – arriverà l’irrinunciabile ipotesi della fase quattro, che è rappresentata dal pieno diritto di pattinare sulla Terra intera, dalle Maldive al Machu Picchu, alla faccia degli albergatori di Cesenatico che speculano sulla conversione almeno per un anno degli italiani al turismo domestico.

Questa confusione non riguarda solo il tira e molla del negoziato tra Stato e Regioni; o il pencolare del capo del Governo tra l’una e l’altra delle ragioni in campo; o l’approssimazione di una comunicazione istituzionale che non fa chiarezza nemmeno su questi aspetti formali perché non pensa che nella testa della gente ad ogni simbolo è attaccato un adattamento delle leggi ai cavoli propri. Tutto ciò esiste ma c’è qualcosa in più. In verità in questa confusione c’è una reale articolazione delle soggettività degli italiani dopo i tre mesi di isolamento. Non stiamo reagendo tutti allo stesso modo.

  • C’è chi non sta più nella pelle nel tornare alla libertà di circolazione, di frequentazione e di assembramento.
  • C’è chi, al lato opposto, ha trovato più protettivo l’auto-separarsi da un mondo con troppe istanze competitive e frenetiche.
  • C’è, a metà strada, chi pensa che mettendo fuori la testa molti conti che ora può nascondere a se stesso diventerebbero difficoltà conclamate.
  • C’è, sempre a metà strada, chi vorrebbe riprendere mestieri o esperienze che solo fino a un certo punto possono svolgersi in smart-working e, accettando il distanziamento, non vuole conclamare la solitudine.
  • C’è in infine la variante di quest’ultima posizione, che non sente il lavoro trasferito in rete come “solitario”, ma al contrario, lo sente come interessante e impegnativo, ma ha paura di ritrovare alla fine una disumanizzazione urbanistica e commerciale che stravolga i suoi ambienti abituali.

L’improvviso riattivarsi della polemica tra gli operatori sanitari e della ricerca (che era esplosa all’inizio dell’epidemia e poi si era composta) sulla persistenza o la sparizione del virus rischia di diventare benzina sparsa sul conflitto evidente che c’è tra queste soggettività. Che in realtà andrebbero pazientemente riportate a sintesi o quanto meno portate a convivere, soprattutto a fronte di chiari e condivisi obiettivi di percorso.

Diciamo che queste e altre “taglie da fine lockdown” – il modo diverso di sentirsi dopo cento giorni di inusuale esperienza –  sono oggi paradigmi più importanti del peso sulla bilancia, delle allergie di stagione o, per altri versi, delle intenzioni di voto per riclassificare sociologicamente il rapporto tra società e salute e soprattutto tra società e socialità.

Il Coronavirus ci sta cambiando le categorie di appartenenza

E così tra poco vedremo anche il modificarsi dell’offerta di politica a seconda di come nelle prime due o tre settimane, cioè quelle di chiarimento, si assesterà il sentiment di essere nella fase due o nella fase tre.

Anche la politica non è tutta uguale, ovviamente. C’è l’Italia di Codogno che si riconosce nel pensiero civile responsabile che il presidente Mattarella sollecita compiendo proprio lì, nel cuore originario della crisi, un degnissimo gesto simbolico. E c’è l’Italia sguaiata e negazionista che torna a interpretare più il rancore che il coraggio di questo paese. Ne abbiamo viste troppe negli ultimi anni per non temere che, alla fine, cavalcando a ore alterne i dossier di governo e le visceralità alimentate ogni giorno da gesti e parole che hanno in Donald Trump un leader mondiale, la sintesi della politica italiana finisca per scegliere l’equivoco e non la chiarezza evitando di fare le cose serie che, arrivati a questo punto della crisi, dovrebbero essere fatte.

Insomma c’è il rischio che si lasci crescere la vaghezza, quella della comunicazione istituzionale e quella della reattività sociale, così che l’aria di vacanza si sommi agli smarrimenti di fronte al richiamo per tutti di una responsabile ricostruzione, fatta di investimenti partecipati (istituzioni, imprese, famiglie) attorno a un razionale piano di sacrifici e progetti.

Se con questo giugno non si forma una alleanza morale e civile – che oggi assomiglia politicamente più all’Italia dei sindaci che a quella dei partiti –  per generare dal basso una domanda di serietà, rischiamo di veder formarsi in questo giugno la strana idea che, dopo tre mesi di regola, adesso nessuna regola. Nemmeno quelle elementari su come chiamare (due, tre o quattro) la successione rigorosa dell’allentamento.

Abbiamo qualche dubbio sul fatto che i tedeschi stiano per procedere in questo modo? Abbiamo qualche dubbio sul modo con cui la cancelliera sceglierà di accompagnare la sperimentazione? E si fa riferimento ai tedeschi perché, se noi consideriamo “eroico” (insomma…) l’atteggiamento degli italiani di essere rimasti a casa loro per un bel po’ giustificando ora il rompete le righe, i tedeschi (basta vedere la loro stampa) capiscono che è proprio ora invece il momento di essere efficacemente e competitivamente organizzati. E’ probabile che – nella forte fasatura che in questa stagione c’è tra governo europeo e governo di Berlino –  la transizione sarà ben regolata, ben programmata, ben caratterizzata e con adeguate diciture. 

Germania e Italia alla prova della ripartenza

La via maestra in Germania sarà quella di fare il piano di spesa pubblica consentito dalle misure europee e tuttavia stra-regolato dai format procedurali di quelle misure. Questo metodo sarà l’autostrada centrale delle regole (per la politica) e dei comportamenti (per i cittadini). Soprattutto sarà l’oggetto più importante della comunicazione istituzionale. Sarà il tavolo del negoziato tra categorie e tra länder, sarà la forma di organizzazione del consenso basata sul tornare a lavorare programmando il modo di ammortizzare il deficit accumulato e di arrivare rapidamente al rilancio.

Il rischio che corriamo è di approfittare di qualche piazza ululante per scegliere l’opposto, cioè la delega e la non partecipazione alle scelte difficili. E’ un film che conosciamo. Appunto delegare bellamente ai professionisti delle diatribe, in cui la polemica nasconde spesso l’incompetenza, una partita che invece riguarda tutti i cittadini, quelli che lavorano, quelli che hanno perso il lavoro, quelli che non devono stare fuori campo a lungo correndo il rischio di una vita ai margini. Cittadini che mai come in questo momento avrebbero bisogno di corpi intermedi – sindacali, associativi, funzionali – per capire meglio e per ritrovarsi in ragioni collettive condivisibili.

Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi è entrato in campo con rudezza sulla mancanza delle premesse stesse del “negoziato alla tedesca”. La politica gli ha detto che stiamo contando i morti e che questi toni sono fuori luogo. Un po’ sarà anche vero. Ma l’adattamento che la politica sogna non è quello ipotizzato dai rudi imprenditori, ma è quello che corrisponde alla sostanziale, continuista, morbida e vagante vaghezza degli italiani (tra poco in vacanza) presi – come scrivono i magazine del sabato –  dal problema tra sentirsi in solitudine o a favore degli assembramenti, ovvero dal dilemma, impoverito dalla mancanza di un vero piano, di essere – in termini ancora soggettivi – nella fase due, nella fase tre o nella fase quattro.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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