Una recente sentenza del Tribunale di Palermo a proposito dei rapporti tra mafiosi e uomini politici riapre un problema le cui origini risalgono all’immediato dopoguerra: forse è opportuno ricordare che cosa accadde in quegli anni lontani.
La Sicilia uscì dal secondo conflitto mondiale in una gravissima situazione non solo per le distruzioni conseguenti agli eventi bellici ma anche per la dissoluzione del tessuto sociale politico tradizionale. La fine del regime fascista, che aveva nella sostanza mantenuto in vita l’assetto sociale preesistente al regime, e di cui la mafia era stata una componente di primo piano, rappresentò anche una sorta di terremoto in quella che sembrava una situazione destinata a durare all’infinito. Il punto nodale erano i tradizionali rapporti tra mafia e politici esistenti già dalla fine del diciannovesimo secolo, quando la elezione alla Camera dei Deputati era condizionata dai capi delle provincie mafiose: basta ricordare la elezione a Trapani di Nunzio Nasi e quella a Palermo di Raffaele Palizzolo. Lo stesso Vittorio Emanuele Orlando in un celebre discorso tenuto il 28 giugno 1925 al teatro Massimo di Palermo non aveva esitato a palare della mafia come del “senso dell’onore portato fino alla esasperazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione portata fino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indugia al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte”.
Per quanto infatti possa apparire paradossale c’è stato anche chi ha ritenuto possibile una unità di intenti tra Stato e mafia per il perseguimento di interessi comuni: esemplare in questo senso è il film “In nome della legge”, diretto nel 1948 da Pietro Germi e tratto dal romanzo “Piccola Pretura” scritto da Giuseppe Guido Lo Schiavo, presidente di sezione della Corte di Cassazione, autore anche dell’elogio funebre di Calogero Vizzini, esponente di primo piano negli anni 40 della mafia. Nel romanzo infatti un capo mafia aiuta i carabinieri nella cattura di un pericoloso assassino, una favoletta senza importanza se non fosse per ilo fatto che l’autore del libro era un alto magistrato e che Calogero Vizzini, nominato dal Governo Alleato dopo l’invasione della Sicilia sindaco di Villalba, fu il primo a tentare l’inserimento della mafia nella dinamica dei poteri emergenti nella Sicilia del 1943.
Il governo italiano presieduto da Ivanoe Bonomi, che era anche ministro dell’Interno (1944-1945) non dimostrò particolare tendenza ad intervenire, dopo che era fallito il tentativo del precedente governo presieduto dal maresciallo Badoglio, di affidare il Ministero degli Interni ad un siciliano (Salvatore Alvisio) il compito di tentare di trovare una soluzione che in Sicilia diveniva ogni giorno più difficile, tra manifestazioni e conflitti con le forze dell’ordine con morti e feriti.
Finocchiaro Aprile approfittò dello spazio di manovra che la situazione gli offriva e continuò per la strada dei proclami, dei manifesti, delle lettere a Wiston Churchill ed al presidente Roosewelt ed a tutte le maggiori personalità per ottenere consensi al suo progetto indipendentista, che era solo quello di un uomo in cerca di un riscatto politico.
I rapporti tra i centri di potere siciliani si andavano intensificando fino a quando (6 dicembre 1943) si giunse ad una sorta di assemblea per concordare una linea comune. Alla riunione che si tenne a Villa Tasca a Mondello, alla periferia di Palermo, parteciparono una quarantina di persone: fra loro, oltre il capo del Movimento per l’indipendenza della Sicilia, Finocchiaro Aprile, c’erano Lucio Tasca, sindaco di Palermo, l’avvocato Antonino Varvaro, un indipendentista nettamente simpatizzante per il PCI (una volta espulso dal movimento indipendentista, diventerà deputato regionale del PCI), Stefano La Motta, Mario La Rosa, l’avvocato Attilio Castrogiovanni, che rappresentava gli indipendentisti catanesi e, ospite inatteso, Calogero Vizzini, delegato dagli indipendentisti di Caltanissetta. La sua presenza fu difesa da Tasca sostenitore dell’alleanza tra latifondisti e mafia, e osteggiata invece da Varvaro, che non voleva patti con i mafiosi, e dai rappresentanti catanesi, poco o nulla interessati ad un rapporto che poteva facilmente divenire sudditanza.
Al termine della riunione venne presa una decisione apparentemente solo formale ma che tale non era. Fu costituito dalle ceneri del vecchio comitato per l’indipendenza della Sicilia fondato nel 1942 il movimento per l’indipendenza della Sicilia configurato come forza politica organizzata di cui Finocchiaro Aprile divenne capo indiscusso.
Il governo Bonomi comprese che un atteggiamento di totale chiusura verso le spinte indipendentiste siciliane sarebbe stato un grave errore, capace di scatenare una guerra civile. Francesco Musotto, ex deputato socialista, fu nominato Alto Commissario per la Sicilia con vasti poteri amministrativi (R.D.L. 18 marzo 1944, n.91). Seguì la istituzione di una consulta, presieduta da Salvatore Alvisio, succeduto a Musotto nello stesso anno quale Alto Commissario e composta da 40 membri, per la predisposizione di una bozza di statuto che attribuisse ad organi di governo eletti nell’isola poteri, anche legislativi, fino a quel momento svolti da organi dello Stato.
Era chiaro l’intento di svuotare di contenuto il progetto indipendentista, mentre si andava diffondendo la conoscenza dei programmi politici dei partiti, la DC e il PCI in primo luogo, anche se non mancavano una miriade di piccole organizzazioni politiche locali, spesso eredità di antiche clientele, tutte decisamente orientate verso il ritorno all’Italia prefascista, con gli antichi rapporti di potere, a prendere atto del mutamento dei tempi ed al profilarsi conseguente di un nuovo assetto del potere pubblico, con riconoscimento e garanzia di quei diritti sociali e politici, che erano totalmente mancati durante la vigenza dello Statuto Albertino del 1848.
Gli indipendentisti si resero conto che il loro spazio si andava restringendo. Il governo da una parte ed i partiti politici di massa, schierati decisamente per l’autonomia ma contro l’indipendenza dell’isola, coadiuvati anche da formazioni politiche di centro sinistra siciliane, come il fronte unitario fondato da Enrico La Loggia, un ex deputato social riformista prefascista, spinsero il movimento indipendentista ad alzare la posta assumendo posizioni estremiste.
Il 2 novembre 1944, nel primo congresso del movimento indipendentista che si svolse a Taormina, fu deciso il passaggio alla lotta armata, con un “esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia”, di cui fu affidato il comando ad Antonio Canepa, un personaggio quanto meno controverso. Fascista rivoluzionario prima, poi docente di mistica fascista all’università di Catania, quindi agente segreto inglese, fondatore a Firenze dove arrivò con le truppe alleate di un partito poi dissoltosi (il partito dei lavoratori) assunse il nome di battaglia di Mario Tuti: sarà ucciso dai carabinieri il 17 giugno 1945, forse in seguito ad una delazione di un appartenente al M.E.S., ma non è da escludersi che si sia trattato di un’operazione condotta dal battaglione 808, che costituiva il fulcro del nuovo servizio militare. Sembra che Canepa, alias Tuti, avesse mantenuto i contatti con i servizi segreti inglesi mentre secondo altri sarebbe divenuto un agente russo: sta di fatto che gli avvenimenti che portarono alla sua uccisione non sono stati mai completamente chiariti.
L’arruolamento di Salvatore Giuliano, che ebbe il grado di tenente colonnello dell’esercito indipendentista, avvenne ad opera di Tasca e fu solo apparentemente un errore: corrispondeva infatti ad un preciso disegno eversivo degli estremisti del movimento indipendentista, consapevoli che il loro progetto politico non avrebbe mai acquisito la maggioranza dei consensi di un elettorato tenacemente monarchico e conservatore, come dimostrarono le elezioni per l’assemblea costituente del 2 giugno 1946. L’unica scelta possibile era dunque la lotta armata, fino se necessario alla guerra civile, fidando da una parte nella mafia e dall’altra in un aiuto internazionale contro il pericolo comunista nell’isola, che avrebbe significato per gli indipendentisti prima che l’ingresso dei comunisti nelle stanze del potere un nuovo assetto proprietario delle terre.
Molti documenti statunitensi desecretati in epoca recente comprovano ampiamente l’attenzione dei servizi segreti americani per le vicende siciliane ed il rapporto tenuto attraverso l’agente segreto Michael Stern con Salatore Giuliano , ritenuto (e forse non a torto) il nocciolo duro dell’indipendentismo siciliano.
Che Salvatore Giuliano facesse parte della mafia, secondo quanto affermato da alcuni mafiosi pentiti come Tommaso Buscetta, non è provato: è certo invece che i rapporti con la mafia del periodo bellico vennero dagli Stati Uniti ampliati a Giuliano ed alla sua banda.
Il primo governo De Gasperi, succeduto nel 1945 al breve governo presieduto da Parri, venne a trovarsi in una situazione molto complessa: il sistema delle alleanze uscito dalla conferenza di Yalta impediva all’Italia, che ricadeva nella zona di influenza americana, di entrare in aperto conflitto con gli Stati Uniti per l’appoggio dato a Giuliano e attraverso di lui alla lotta armata indipendentista in Sicilia. Al tempo stesso il governo non poteva ignorare la situazione pre rivoluzionaria esistente nell’isola. La via prescelta da Giuseppe Romita, nuovo Ministro degli Interni, fu molto semplice: avvalersi del vecchio apparato della polizia politica fascista per riportare l’ordine nell’isola con operazioni coperte di spionaggio e contro spionaggio. A capo dell’Ispettorato di P.S. per la Sicilia fu nominato Ettore Messana, a suo tempo ricercato per crimini di guerra in relazione al suo operato quale questore di Lubiana (1941-1942).
Messana sgominò le bande che imperversavano nelle campagne, solitamente indicate coi nomi dei loro capi (Stimali, Dottore, Gulino), represse duramente le manifestazioni contadine ma si guardò bene dal contrastare la banda Giuliano: si limitò a costruire un solido rapporto con Salvatore Ferreri, un luogotenente di Giuliano detto Fra Diavolo destinato a finire i suoi giorni (1947) in una caserma dei carabinieri in circostanze tali da determinare seri dubbi sulla versione ufficiale dell’accaduto.
La linea di Messana, il suo chiaro collegamento con la destra monarchica, il frequente uso della forza pubblica, contro manifestazioni contadine con morti e feriti, i numerosi omicidi rimasti impuniti, di uomini politici di sinistra furono più volte oggetto di valutazioni politiche divergenti nel Consiglio dei Ministri (1946-1947): Messana che aveva trovato in Mario Scelba, Ministro degli Interno nel terzo governo De Gasperi (1947) restò al suo posto fino al 15 gennaio 1948: la strage di Portella delle Ginestre rese insostenibile la sua posizione anche per il potente Ministro dell’Interno.
Gli indipendentisti erano andati man mano scomparendo dalla scena politica. La mafia a partire dal 1946, dopo i deludenti risultati delle elezioni per l’assemblea costituente in cui M.I.S. era riuscito a far eleggere solo quattro deputati (Finocchiaro Aprile, Varvaro, Gallo, Castrogiovanni) aveva abbandonato il movimento. Nobili e proprietari terrieri siciliani (quando le due qualificazioni non coincidevano) si erano andati organizzando nelle file del partito monarchico e nelle piccole formazioni politiche legate alla Massoneria, mentre erano sempre più attratti da una DC che andava lanciando segnali di sostegno alla proprietà terriera ed al ceto medio contro il comune nemico comunista, forte anche dell’appoggio del clero, con in testa il cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, interlocutore privilegiato del giovane avvocato Bernardo Mattarella, stretto collaboratore di Alvisio.
Ormai in Sicilia il problema non era più il separatismo ma il banditismo o meglio Salvatore Giuliano e la sua banda. Messana aveva fallito il compito di sgominarlo, Verdiani aveva tentato di instaurare un rapporto con il bandito per contenerne l’azione in attesa dei tempi necessari per eliminarlo. Luca, malgrado gli indubbi successi parziali dei suoi carabinieri comprese che contro Giuliano occorreva usare mezzi diversi ed usò l’arma che conosceva meglio: utilizzare un bandito come talpa nella banda per colpire il capo al momento giusto. Il prescelto fu Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano che secondo quanto dichiarò poi nel processo che si svolse davanti alla Corte d’Assisi di Viterbo ebbe in cambio molte promesse di cancellazione delle sue colpe.
Il 5 luglio 1950 nella casa di Gregorio De Maria a Castelvetrano Giuliano fu ucciso. Le prime notizie ufficiali parlarono di morte durante un conflitto a fuoco con i carabinieri ma questa versione dei fatti fu smentita dalle fotografie del cadavere e sostituita con una diversa: Giuliano era stato ucciso nel sonno da Pisciotta.
E’ possibile pensare che un uomo abile ed esperto come Luca abbia fatto l’errore di far divulgare una prima versione dell’avvenimento di facile smentita? Anche la versione successiva sa molto di racconto improvvisato che aveva un punto debole: Pisciotta avrebbe sempre potuto smentire quella ricostruzione dei fatti, una forma di ricatto nei confronti di uno Stato che dopo il processo di Viterbo e la pesante condanna inflitta all’ex luogotenente di Giuliano non poteva certamente mantenere i patti che Pisciotta stesso asseriva stipulati.
La soluzione del problema fu trovata l’8 dicembre 1954, quando Pisciotta morì avvelenato nella cella dove era rinchiuso nel carcere dell’Ucciardone, alla vigilia di un incontro chiesto ed ottenuto con un magistrato al quale aveva preannunciato importanti rivelazioni. Gli autori dell’uccisione di Pisciotta sono a tutt’oggi ignoti così come molti particolari su quanto avvenuto in quegli anni bui in Sicilia, ad iniziare dal senso del biglietto scritto da Ciro Verdiani a Giuliano e ritrovato nelle sue tasche dopo morto con l’avvertimento “stai attento: Luca e la mafia sono d’accordo”: Il vecchio spione dell’Ovra diceva la verità?
Il 4 dicembre 1992 Leonardo Messina, collaboratore di giustizia ed ex sottocapo della provincia mafiosa di Caltanissetta affermò davanti alla Commissione Parlamentare di inchiesta sulla mafia che ad uccidere Giuliano era stato il mafioso Luciano Ligio in base ad un accordo “preso a monte“. Nello stesso senso erano le voci correnti a Palermo dopo la morte di Giuliano: dovevano avere una certa consistenza se secondo un’autorevole testimonianza, convinsero anche Giovanni Falcone.
Peraltro il problema non è se fu o meno Ligio ad uccidere Giuliano ma se vi fu un’intesa in questo senso e tra chi avvennero le intese. Difficile ritenere che tutto abbia fatto capo al colonnello Luca: un alto ufficiale dei carabinieri non avrebbe avuto quei comportamenti se non precise indicazioni da parte di un potere maggiore del suo. Non è dunque fuori luogo ritenere che Luca per quanto riguarda la morte di Giuliano si sia frettolosamente adeguato ad un piano da altri elaborato ed eseguito e che della avvenuta uccisione del bandito sia stato informato solo dopo che era avvenuta costringendolo ad una versione ufficiale abborracciata ed oggettivamente insostenibile.
Se le cose andarono così (ed è quanto meno possibile che così sia avvenuto) ne deriva che alla base della morte di Giuliano vi fu un accordo con la mafia stipulato tra interlocutori rimasti sconosciuti. Coloro che avrebbero potuto fornire informazioni sullo svolgimento dei fatti sono ormai tutti deceduti: Luca nel suo letto, Pisciotta avvelenato, Verdiani forse suicida (ma si parlò di stricnina) nel 1952 alla vigilia della sua deposizione nel procedimento giudiziario in cui era inquisito per i suoi anomali rapporti con Giuliano.
La vicenda riguardante la morte di Salvatore Giuliano è probabilmente all’origine di quel rapporto tra mafia e uomini politici dell’Italia repubblicana, in cerca di una soluzione semplice a problemi complessi quando non di consensi per la elezione a cariche pubbliche a tutti i livelli.
La mafia, similmente ad una società di servizi è stata utilizzata perfino per fini eversivi, come nel caso del tentativo di “golpe” di Borghese (1970) o per risolvere problemi economici a livello internazionale (morte di Enrico Mattei nel 1962), o come strumento per crimini economico-finanziari, come nel caso dell’affare Sindona.
Il processo di Palermo a Giulio Andreotti ha aperto vasti squarci su questa realtà di cui le vicende del movimento indipendentista siciliano hanno costituito solo un piccolo dettaglio. L’indubbio senso politico di alcuni capi mafiosi ha evitato il crollo della organizzazione insieme al sistema di potere semi feudale dominante nella Sicilia degli inizi del secolo scorso: ha cominciato a perdere terreno quando l’opinione pubblica ha intravisto le connivenze tra mafia ed uomini politici messe in evidenza dalle decisioni dei giudici di merito. Al tempo stesso l’art. 416 bis (concorso esterno in associazione mafiosa) introdotto nel 1992 nel sistema penale ha consentito di punire comportamenti che un tempo sfuggirono ad ogni sanzione ed hanno costituito terreno fertile per la pianta mafiosa, mentre l’avocazione allo Stato di beni già appartenenti a mafiosi ha tentato di tagliare i rami dell’economia mafiosa.
Legami tra mafia ed uomini politici (e non genericamente con la politica) ci sono stati e forse continueranno ad esserci ancora. Per eliminarli esiste una sola arma totalizzante: l’esercizio consapevole del diritto di voto.
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