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Mascherina: protettiva, ma non non solo…

Ormai la portiamo tutti da un anno. La mascherina è entrata nella nostra vita quotidiana e anche se è oggettivamente fastidiosa, ci siamo rassegnati. Ma al di là della ffp2 e quella chirurgica, la mascherina ha una nobile storia e non sempre l’uso è stato sanitario.

Senza soffermarci sulle maschere funerarie egizie per i faraoni (la più famosa senza dubbio è quella di Tutankhamon), la prima notizia di mascherina protettiva ci viene da Plinio Il Vecchio (23-79 d.c.) che parla di pelli di vescica per proteggere gli schiavi impiegati nelle miniere dalla polvere del piombo e ci racconta che i romani più ricchi, se dovevano proteggersi o tossire, usavano dei panni di seta. Analoghe informazioni ci vengono da Marco Polo: nel XIII secolo i servi della corte dell’imperatore cinese quando si gli si avvicinavano dovevano obbligatoriamente coprire naso e bocca con un panno di seta e filo d’oro. Nel XVI secolo Leonardo Da Vinci propone una pezza immersa nell’acqua per tutelare i marinai da un’arma fatta di polvere tossica che lui stesso aveva progettato.

Abbiamo parlato di nobile storia, perché la maschera sta a pieno titolo anche nell’arte e nella letteratura. Icona dell’ipocrisia, dell’arcano, del bisogno di nascondersi. Nell’antichità è l’emblema delle forze sovrannaturali della divinità. Nel primo quadro cubista di Picasso, Demoiselles d’Avignon, rappresenta il bisogno di protezione dell’uomo e ma anche di trasformazione; in Magritte è il simbolo del mistero della vita dell’uomo. Pirandello scrive in Uno, nessuno, centomila: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Solo per citarne alcuni.

Simbolo di classe (sociale) per un uso decisamente ludico ed estetico. Nel XVI e XVII secolo venivano usate per il Carnevale dagli attori ma anche, nella vita “civile” dalle dame. Le signore più ricche si proteggevano la pelle e si ammantavano così di un’aura di segreto. Avere la pelle chiara voleva dire essere ricche o nobili. Dimostrava che non si aveva bisogno di lavorare: i contadini e gli artigiani stavano all’aria aperta e quindi si abbronzavano e immediatamente erano riconoscibili come poveracci. Per questo l’ideale di bellezza femminile, a quel tempo, era una donna pallida. Più pallida era, meglio era. La famosa pelle di perla. E per questo evitavano di esporsi il più possibile al sole. Ma quando non potevano evitare l’aria aperta – per esempio quando andavano a cavallo o durante una passeggiata – si mettevano una mascherina. In genere di velluto ma anche seta, quadrata o a semicerchio. L’inglese Philip Stubbes nel 1538 scrive: “due fori permettono di guardare. Se le incontrasse un uomo che non conosceva prima il loro aspetto, penserebbe di essersi imbattuto in un mostro o un demonio perché non vedrà nessun volto”. Può essere un handicap perché non si può usare l’arma del bel visino, ma anche il contrario: un volto invecchiato, brutto o rovinato dai segni di una malattia (vaiolo, tubercolosi cutanea e simili erano all’ordine del giorno in quei secoli) veniva nascosto. E’ il gioco della seduzione, madame.

In Francia le chiamano loup perché all’inizio spaventano i bambini (loup vuol dire lupo): sono quadrate grandi – per la campagna – o piccole per la città ma tutti e due i tipi si reggono in bocca con un bottone. Dovevano essere scomodissime soprattutto per parlare, ma cosa non si fa per piacere, signora mia! Comunque sia, la moda esplode e la mascherina diventa obbligatoria per ogni signora raffinata. Londra e Parigi dettano le regole per la mise invernale: sciarpa, manicotto di pelliccia e mascherina per proteggere la pelle. Le loup o visard vengono usate anche per mantenere l’anonimato quando andavano nelle sale da gioco, che a volte potevano essere anche raffinati bordelli. Al punto che in Inghilterra nel 1704 la regina Anna Stuart proibisce quelle a volto intero.

A proposito di regine, si narra che Maria de’ Medici, madre del re Luigi III, fosse così altera che in visita a Bruxelles, nonostante la festosa accoglienza ricevuta, non si degnò mai di togliersi la mascherina se non in chiesa. La maschera come simbolo di potere e superiorità.

Città della mascherina per antonomasia era ed è Venezia, dove il Carnevale era ed è (in tempi di covid no) sacro. Nel sedicesimo e diciassettesimo secolo le usavano gli attori, tipiche quelle della Commedia dell’arte, le classi più elevate se la mettono anche in altri periodi dell’anno e in altre occasioni, per esempio  per non farsi riconoscere quando si ha voglia di trasgressione. Le opere di Goldoni stanno lì a ricordarcelo.  I gentiluomini usano la bauta, una maschera a forma di becco con gli zigomi in evidenza e i fori per gli occhi, in genere bianca. Le dame la moretta, ovale in velluto o seta nero con decorazioni che variavano a seconda delle disponibilità economiche: piume, perle o più semplicemente pizzi. Si reggeva con una asticella da far salire all’altezza degli occhi. L’uso della mascherina però è più antico. Già nel 1436 nella Serenissima c’era la corporazione dei Maschereri, ovvero l’associazione dei fabbricatori di maschere. E ci sono ancora oggi, anche se magari scopriamo che quelle vendute nei negozi per turisti vengono dalla Cina. 

Nel XVI e XVII secolo la Serenissima raggiunge il massimo del suo splendore, della sua potenza e dello sfarzo. E le maschere non sono da meno dell’abbigliamento, quanto a splendore. I dogi ritengono necessario costituire un magistero delle pompe, ovvero un organismo per controllare l’eccesso dell’ostentazione e il comportamento delle prostitute. Misura analoga a quella presa dalla citata regina inglese. Mascherina infatti spesso si coniugava con peripatetica.

Infine, il bisogno di nascondersi. “Ti conosco mascherina” è un detto popolare per dire che nonostante il travestimento, non ci si è fatti ingannare. Risale al Medioevo, quando il Carnevale era un libera tutti per tutti. Nel suo piccolo si è inserito nella cultura italiana. Al modo di dire ha dedicato un film il grande Eduardo, un libro la scienziata Ilaria Capua, un disco Mina, una collezione il brand Cevoli (ma usa la K) per mascherine (questa volta sanitarie) di super lusso.

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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