In questo periodo dello scorso anno, lo Stato italiano era come un individuo sospeso tra la libertà vigilata e gli arresti domiciliari. Diminuito nel suo rango, nel suo ruolo, nella sua autorità, nelle sue capacità di agire e nei suoi strumenti; invocato dal primo pataccaro di passaggio ma al fine di dimostrare la propria inesistenza per poi farsi, come prima e più di prima, i fatti propri; e, infine, votato a immancabile estinzione dalla stessa divinità, l’Europa, davanti alla quale si prosternava.
Oggi, però, con la comparsa di uno dei cavalieri dell’Apocalisse – e quindi per un qualche disegno divino – i muri intorno a lui sono caduti. Ed è tornato al centro della scena: libero di, anzi chiamato a, spendere e spandere in ogni possibile direzione; ma soprattutto di governare, come mai era accaduto, se non in tempo di guerra, la vita dei suoi cittadini.
Il tutto all’interno di una bolla in cui la politica, il conflitto, la necessità di scegliere (e tra percorsi spesso alternativi) sembrano sospesi per incanto.
Rimane però il fatto che la pandemia ci ha colti completamente impreparati. E non parlo dei baci dati ai cinesi o del ritardo con cui le misure di quarantena sono state applicate; o dell’insufficienza di mascherine o di ventilatori.
Parlo di uno Stato da sempre costretto a spendere, perché sollecitato dalle pressioni e dai bisogni derivanti dalla sua incapacità di progettare e di governare. Parlo di una burocrazia abbandonata a se stessa e che ha ritrovato come ragione della propria inazione la possibilità di ostacolare in ogni modo le azioni altrui.
Parlo di una timidezza, ai limiti dell’autocensura, nei confronti dell’Europa di Bruxelles, giunta al punto di autoimporci dei tabù non richiesti e non contenuti negli accordi di Maastricht.
Parlo della totale passività con cui abbiamo assistito al culto dell’individualismo e del privato; fino al punto di far credere alle persone di potere rimanere belle e magre sino a cent’anni e di potere guadagnare mille euro al giorno senza fatica; mentre veniva considerato impossibile riparare una buca davanti casa.
E parlo, infine, del totale disinteresse di fronte al problema della disuguaglianza; o peggio della pretesa che questa potesse essere affrontato parlando di “uguaglianza delle opportunità” (?!).
Oggi, siamo ancora in piena tempesta. I cui effetti catastrofici devono ancora dispiegarsi in tutta la loro drammaticità. Se non sapremo governare la situazione saremo travolti; precipitando dal vecchio ordine, anch’esso definitivamente travolto, nel caos e nella guerra di tutti contro tutti.
In un futuro non troppo lontano, gli italiani usciranno dal polmone d’acciaio in cui erano stati chiusi: più sobri e consapevoli nelle loro esigenze individuali e nei loro rapporti con il mondo che li circonda e, forse, ma non automaticamente (se non sollecitati ad esserlo…) più solidali; ma sicuramente più esigenti nel loro rapporto con lo Stato. E gli faranno domande; cui dovrà necessariamente rispondere. E in tempi brevi.
Gli chiederanno come mai il nostro impegno finanziario sia salito faticosamente, nel giro di qualche settimana, da uno stanziamento iniziale di 2/3 miliardi per arrivare poi a 25 e magari domani a 50; in uno spazio di tempo in cui gli altri stati europei veleggiano intorno ai 400/500. Da una parte una vecchia Beretta arrugginita; dall’altra un Bazooka. Come mai? Per colpa dei vincoli di Bruxelles che per noi rimarrebbero in vita? Perché non possiamo attingere in alcuna forma (tassazione? prestito?) alla ricchezza privata che da noi tanto consistente quanto poco equamente distribuita? Ce lo facciano sapere; e possibilmente al più presto.
Gli chiederanno, ancora, come contemperare l’esigenza di far ripartire l’economia con quella di garantire la vita delle persone. Qui ci troviamo di fronte a due modelli contrapposti: il primo è quello anglosassone e olandese (cui si aggiungerebbe, ma in un contesto assai diverso, quello svedese); sul fronte opposto, a quanto ci è dato di capire, noi. Ci sarà pure una via di mezzo; ma non ci è dato ancora di capire quale.
Gli chiederanno, poi, come si possa decidere quali sono le industrie strategiche e i lavori da proteggere o da sostenere senza avere una politica industriale o, più esattamente, senza rivendicare il diritto/dovere ad averne una.
E, infine, essendosi definitivamente accorti, e sulla propria pelle, del fenomeno della disuguaglianza, a partire dal fatto che tutte le precedenti, come ancor più le attuali politiche del governo hanno contribuito ad accrescerla, in particolare nel Sud, e con rischi evidenti per le tenuta complessiva del sistema, ci domanderanno un’inversione netta della rotta.
Non si tratta di una rivendicazione ideologica o di parte. Ma di una richiesta legata all’evidenza dei fatti. Oggi la grande crisi ha conferito allo Stato un potere immenso e un ruolo decisivo. E allora o questo potere sarà esercitato in modo razionale e nell’interesse della generalità dei cittadini; oppure avremo la lotta di tutti contro tutti, in attesa del Salvatore di turno.
Una volta funzionava così: accadeva che la voce della generalità dei cittadini venisse da lontano e potesse essere tranquillamente ignorata; mentre le pressioni delle varie corporazioni trovavano sempre orecchie pronte all’ascolto;
Ma, qui e oggi, e nel futuro prevedibile, non potrà più continuare a funzionare in questo modo.
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