Nel corso dell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un progressivo mutamento dei mercati come effetto della recessione economica, della globalizzazione, dell’entrata di nuovi paesi emergenti, dello spostamento della ricchezza da ovest verso est. Come effetto dello strapotere del mercato dei soldi sul mercato delle merci. Come effetto della vittoria del potere degli uomini della finanza sul potere dei politici.
Correva l’anno 2014. Nulla era come prima: sei anni di recessione ci avevano messo in ginocchio, ci eravamo mangiati tutti i nostri risparmi, le famiglie erano più povere e le imprese facevano fatica a rimanere aperte. La ripresa era lenta e i consumi non ripartivano. Era necessario cambiare strada, e la speranza fu Matteo Renzi. Ma il nostro popolo, stremato dalla crisi, si sentì incompreso. Ben presto la protesta diventò rabbia e le piazze si riempirono di folle urlanti alla ricerca di un nuovo Capo. Così è maturata la soluzione più idiota, conservare ciò che rimaneva dei privilegi corporativi e una buona dose di antipolitica.
E fu il successo dei 5 stelle di un anno fa. Purtroppo un movimento che aveva avuto il merito di canalizzare i malumori dei ceti popolari e le velleità rivoltose di un ceto medio impoverito e umiliato si era trovato improvvisamente sulla soglia del governo non avendo una classe dirigente capace di governare. Sono bastati 12 mesi e il giudizio dei suoi elettori non si è fatto attendere: metà di loro si sono trasferiti armi e bagagli sul carroccio del nuovo leader leghista.
Come produttore di olio voglio richiamare l’attenzione dei lettori su un fatto che non trova spazio nei giornali e nelle reti televisive, di cui non si parla nei social e nemmeno nei bar. Eppure riguarda centinaia di migliaia di imprese e tutti i cittadini del nostro Paese. La scomparsa nel mercato dell’olio italiano.
Abbiamo toccato il fondo, siamo a 175mila tonnellate di olio prodotto, un quarto di quello che si consuma. È emersa, senza tema di smentita, la crisi più drammatica dell’olio d’oliva italiano. Un disastro che sembra non interessare nessuno. Salvo gli importatori/imbottigliatori di olio spagnolo di casa nostra e gli importatori di olio di semi dall’Ucraina che fanno festa insieme ai commercianti dei discount.
O meglio, cosa bisognerebbe fare (se avessimo un personale politico e di governo degno di questo nome)? La crisi non ci ha lasciato solo macerie: si sono affermate nuove realtà imprenditoriali, piccole imprese innovative e aggressive, capaci di intercettare nuovi bisogni e di “produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”, come ha scritto Carlo M. Cipolla. Se questo è vero allora si può ripartire dalle piccole e medie aziende manifatturiere cui dovrebbe fare riscontro, anche ai fini occupazionali, lo sviluppo di una agricoltura di qualità che faccia leva sulla cultura tradizionale dei campi e su una trasformazione dei prodotti agricoli che punti sulla unicità e sulla qualità, a fare da contrappunto alla produzione massificata e priva di specificità dei prodotti dell’industria agroalimentare.
In questo contesto alcuni produttori di olio hanno puntato all’obbiettivo dare valore all’olio italiano e quindi ai frantoi artigiani. Hanno ottenuto l’albo professionale dei mastri oleari e una legge che qualifica il frantoio artigiano come produttore di olio dalle olive. Una conquista che sarà utile se si costruirà un mercato del cibo sano, buono e nutriente, garantito dalla trasparenza e tracciabilità della filiera produttiva, nel quadro del riconoscimento dei diritti dei consumatori. Ma sappiamo che la politica agricola si fa a Bruxelles e non a Roma.
Per questo ci vorrebbe che nel nuovo Parlamento Europeo e nella Commissione i rappresentanti dell’Italia si mostrassero capaci di assumere una iniziativa politica e legislativa che blocchi il monopolio dell’olio spagnolo e sostenga il recupero di produttività delle aziende olivicole e delle imprese olearie artigiane. Una rappresentanza che assuma su di se la responsabilità di difendere e rilanciare i prodotti dell’agroalimentare made in Italy. Purtroppo sembra che si occupino d’altro mentre dei problemi che interessano le imprese italiane non si sente parlare e ancora una volta prevale un mix di cinismo e opportunismo da campagna elettorale permanente che a nulla serve e che nulla risolve.
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