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Niente di questo mondo ci risulta indifferente

Se, alla fine del 2019, qualcuno avesse ancora avuto la percezione di poter surfare sulle onde del mondo senza preoccuparsi delle correnti sotterranee che lo attraversavano, dopo lo scoppio della pandemia Covid-19 ha dovuto subire un brusco atterraggio sulla realtà. E di cosa è fatta questa realtà che, talvolta, nelle ovattate case dell’occidente europeo si faceva fatica a prendere atto?

Ci sono due modalità di affrontare i giorni che ci attraversano. Proviamo a osservarle insieme.

La prima parte dalla presa d’atto, dalla visione diretta, immediata, del giorno per giorno. È una forma “concreta”, istantanea, apparentemente “efficiente”, proprio perché sembra aderire alle necessità del “qui ed ora”. Analizza le morti, gli infettati, lo stato dei pronto soccorso o delle terapie intensive. Rivendica interventi urgenti qui e risposte immediate là. Molto spesso rinunciando a comprendere la natura di ciò che sta accadendo, le conseguenti prese di posizioni sono ispirate alla logica della ripresa, del voler “ripristinare” ciò che si è interrotto con l’arrivo del virus.

La seconda prova a ricercare le radici di questa crisi pandemica nella crisi verticale della struttura economica che sottostà agli accadimenti di questi giorni. La crisi deriverebbe dall’intrinseca struttura del nostro vivere e consumare, del modo di produrre e lavorare, degli squilibri ambientali prodotti, dalle inique distribuzioni della ricchezza accumulate, dalla logica distorcente di uno sviluppo che è arrivato a modificare le linee evolutive della vita nel pianeta intervenendo sui codici genetici dei viventi. Per queste persone poco importa, relativamente s’intende, come il virus si sia sviluppato e propagato: era il mondo della tecno-finanza, della globalizzazione, della rottura dei patti democratici tra istituzioni e élites, da un lato, e masse popolari, dall’altro, ad essere ormai incapace di garantire i processi vitali del pianeta. C’era addirittura chi, negli establishment delle nazioni, riteneva fisiologico e giusto che nelle democrazie avanzate andasse a voltare circa un terzo degli aventi diritto. Per il secondo gruppo la crisi rappresenta l’opportunità per una partenza nuova, per intraprendere tutti una strada differente.

Non importa, però, se voi vi inscriviate nel primo o nel secondo gruppo. Entrambi, infatti, devono prendere atto dei contenuti di questo bel libro Niente di questo mondo ci risulta indifferente, curato da Daniela Padoan per i tipi Edizioni Interno 4, sotto l’egida dell’Associazione Laudato Sì. Il libro indica già nel suo sottotitolo il terreno di proposta culturale e politica con una richiesta esplicita che le scelte nuove che servano per riprogettare la nostra presenza sul pianeta partano da una alleanza che mette clima, pianeta e giustizia sociale non in contrapposizione, anzi. È questa nuova forma integrata di “interessi” che deve e può segnare la necessità del fare politica oggi, che deve indicare il “senso” del fare collettivo e di una “ricomposizione” di un destino comune, un destino non ricercato all’interno di una comunità più ristretta e contrapposta ad un’altra, come i sovranismi indicano,  ma come collettività umana integrata nei cicli della vita del pianeta.

Il libro parte dalla descrizione della rottura degli equilibri climatici e della depredazione ambientale che il modello di produzione e di consumo hanno realizzato in pochi decenni. Si va dalle analisi sul riscaldamento globale alla connessione tra giustizia climatica e giustizia sociale, passando per la necessità di politiche ed economie che lavorino congiuntamente per la decarbonizzazione della produzione di energia, fino alle necessità di politiche per la salvezza delle foreste pluviali e di una nuova politica per l’acqua. La depredazione ambientale, inoltre, riguarda anche lo stesso modo di coltivare, di gestire le semenze per arrivare alla necessità di interrompere la logica delle grandi opere che spesso sono logica conseguenza di un capitalismo estrattivo, come viene indicato nel libro, che non tiene conto dei costi complessivi e delle conseguenze non inscritte a bilancio, della sua attività.

Niente di questo mondo ci risulta indifferente

È quasi naturale, a questo punto, comprendere la situazione di degrado e distruzione all’interno della quale si inscrivono i flussi migratori e l’accumularsi del numero dei profughi nel mondo. In un quadro in cui l’occidente estrae risorse, materiali e umane, secondo i propri interessi, non si può pretendere che ai suoi confini non si accalchi una massa di disperati in cerca di una vita diversa da quella che l’occidente ha disegnato per loro nei loro paesi.  

Questo quadro deve portare, quindi a ridisegnare non solo le politiche dell’accoglienza, ma quello della cittadinanza e la stessa forma della democrazia. Qui la proposta si fa direttamente politica, indicando la creazione di una sola “comunità d’interessi” che contempli il mediterraneo come centro di una relazione diretta tra Africa ed Europa. Un processo che guardi ad un progetto di sviluppo ecologicamente integrale, infatti, non può più separare con un muro d’acqua questi due continenti. Questa nuova visione non solo può ridurre le differenze rendendo più compatibile un disequilibrio planetario ormai crollato, ma lottare contro la “criminalizzazione dei poveri” rendendo i flussi migranti generatori di processi di rigenerazione ecologica.

Ovviamente questo nuovo quadro deve avere al centro un ripensamento della vita nelle città e nei borghi dell’occidente, una rottura del nesso criminalità sfruttamento delle condizioni di marginalità in cui i migranti sono costretti anche attraverso il mantenimento di una condizione di irregolarità e clandestinità coatta; il nuovo modello deve basarsi su una nuova logica distributiva della ricchezza e un modello di welfare inclusivo, anche attraverso l’uso sociale e imprenditoriale di nuovo tipo dei beni sottratti alla criminalità.

È naturale che le scelte di questa natura prefigurano un modello sociale ed economico che non sia sotto l’egemonia delle logiche della finanza. Si aprono, quindi, i territori per una riconversione ecologica del fare umano, lo sviluppo di politiche dei beni comuni e la cura del vivente. Occorre «prendersi cura di tutto ciò che esiste» e l’umanità, oggi, è obbligata a scegliere questa strada.

Il libro, ponendo a base del nuovo modello di vita necessario, ci indica il superamento dell’antropocentrismo come la tappa obbligata per il futuro del pianeta e connette a questa scelta la necessità di una società umana basata sul riconoscimento della differenza sessuata e della valorizzazione della diversità femminile. Da qui nasce anche il riconoscimento dei diritti delle persone con orientamenti sessuali non tradizionali. Una società, quindi, che fonda il proprio valore nel riconoscimento e nella valorizzazione delle differenze, pensate sempre più come ricchezze e non diversità di ricondurre “a norma”.

È qui che il passaggio dal riconoscimento dei diritti civili trasla a quello dei diritti sociali. Una proposta politica di nuova generazione mette il lavoro al suo centro. La nuova velocità del fare non solo distrugge il pianeta, ma mangia la sua stessa radice: il lavoro umano. Il processo di liberazione dalla vendita del proprio tempo di vita in cambio di un salario deve portare ad una nuova forma di lavoro. In quest’ambito, a mio avviso, il libro risente di un dibattito che, a mio avviso, risulta arretrato rispetto alla fase in atto. Il lavoro è sottoposto a una trasformazione qualitativa che lo renderà completamente diverso dal lavoro novecentesco e, in parte, è già così. I processi che lo investiranno si chiamano Intelligenza Artificiale, Robotica e cancellazione di molte figure lavorative oggi ancora esistenti e non sarà sufficiente, ad affrontare questa fase, la pur difficile riduzione d’orario a parità di salario. Qui servono analisi nuove e anche proposte differenti qualitativamente rispetto al processo produttivo capitalistico.

Il cambio della logica lavorativa comporterà un necessario cambio negli stili di vita e, quindi, nei consumi. Manca, in questa riflessione, un’analisi critica sul “motore socio-culturale” che produce e riproduce, incessantemente, queste dimensioni sociali del consumo. Senza una ridefinizione di quella che io chiamo L’Industria dei Sensi, i cambiamenti sugli stili di vita saranno impossibili oppure dettati solo dalle rotture prodotte dalla crisi. L’Industria dei sensi, però, sostiene l’intero mondo dei media e i media (di massa o individuali che siano) sono la struttura portante delle forme decisionali e partecipative delle democrazie così come le conosciamo. Un piccolo Uroboro, qui, sembra apparire tra le righe della proposta. La rottura che s’intravvede sembra sempre più sistemica e con la necessità di andare oltre alle forme conosciute, anche quelle che sembravano le più avanzate fino a ieri.

Che la rottura sia così profonda e di non semplice soluzione (non basta usare o meno il MES per fare politica) è acclarata dalla dimensione geopolitica dei processi in atto e dai rischi che derivano da una guerra forse già in atto anche se con forme diverse da quelle consolidate. Anche qui, infatti, sia i terreni di confronto risultano traslati verso il mondo apparentemente immateriale: le cyberwars che dilagano, infatti, non fermano lo sviluppo dei robot di guerra. Spiace non veder citato l’appello contro i Robot di Guerra lanciato dalla Associazione NOW (No Robot of War) quasi 10 anni or sono in Italia che per primo chiese all’ONU la messa al bando lo sviluppo e l’utilizzo dei Robot negli scenari di combattimento. Ma al tempo alla guida degli USA era collocato un premio Nobel per la Pace e troppi lavorarono per non “disturbarlo”.

L’ispirazione del libro risulta essere chiara: << Se partissimo da noi stessi, dai territori che abitiamo, dalla consapevolezza della forza e della bellezza dell’umano, del vivente, di una Terra fragile fatta da particelle in movimento e circondata da una sottile pellicola di atmosfera, e facessimo contemporaneamente un uso appropriato delle più attuali interpretazioni scientifiche della realtà che ci circonda coniugandole in partecipazione comunitaria, saremmo meglio attrezzati per sostenere la difficile prova che abbiamo di fronte.>>. Il punto di partenza nuovo deve essere la vita, di cui l’umano è parte importante ma non esclusiva. Anzi una parte con responsabilità maggiori che derivano dalla sua particolare forma di intelligenza che non è superiore alle altre, ma che può “servire” gli altri con una consapevolezza più grande dei propri atti.

Ripartiamo da qui.

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Sergio Bellucci

Sergio Bellucci, giornalista e scrittore, dirigente politico e manager, ha scritto numerosi editoriali, articoli e saggi sui temi della comunicazione e della società dell'informazione. Membro del Comitato d'Onore dell'Osservatorio Internazionale sull'Audiovisivo e la Multimedialità (OIAM) della Fondazione Roberto Rossellini per l'Audiovisivo. È stato dipendente del gruppo Fininvest dal 1978 e fino al 1993, durante tale periodo ha svolto anche attività sindacale nella CGIL come membro della Segreteria Nazionale della FILIS. Dal 1995 al 2006 è stato responsabile nazionale della Comunicazione per il Partito della Rifondazione Comunista. Dal febbraio del 2013 è direttore del quotidiano Terra e nel 2014 è diventato Presidente della Free Hardware Foundation Nel libro E-work. Lavoro, rete e innovazione analizza l'impatto delle nuove tecnologie digitali sulla vita umana con una particolare attenzione al mondo del lavoro. Secondo le sue analisi, l'avvento del digitale comporterebbe una "nuova organizzazione scientifica del lavoro", definita "taylorismo digitale", attraverso un impiego distorto della rete. Nelle tesi di E-work si prospetta la nascita del "lavoro implicito", il lavoro effettuato obbligatoriamente, senza nessuna retribuzione e attraverso strumentazione a carico del lavoratore, che le piattaforme digitali stanno espandendo nel loro ciclo produttivo. Insieme a Marcello Cini ha scritto “Lo spettro del capitale. Per una critica dell'economia della conoscenza” analisi del cambiamento epocale del capitalismo avvenuto negli ultimi venti anni: il passaggio da un'economia materiale ad un'economia immateriale, che produce un bene intangibile e non mercificabile: la conoscenza.

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