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No default, la soluzione è un’altra

Ho ricevuto molti commenti in reazione al mio articolo “L’Asino di Buridano” su MOONDO dello scorso 19 aprile. Alcuni hanno contestato la mia presunta opinione favorevole ad un “default pilotato” da parte dell’Italia, credo con ragione: sarebbe un trauma di dimensioni cosmiche. Il mio pensiero è diverso, e provo a formularlo in termini più chiari. Mi scuso per alcune ripetizioni ed auto-citazioni che trasferisco da quell’articolo.

  • Se non si farà nulla di nuovo e si procederà per inerzia, sarà inevitabile il default dell’Italia relativamente al proprio debito pubblico (insieme con quelli, assai pesanti, degli altri numerosi enti pubblici italiani), appena arriverà un trigger esterno sufficientemente violento (crisi mondiale, guerra, conseguenze della pandemia…). Se poi, a seguito della pandemia, l’Italia accenderà nuovi prestiti, allontanerà il momento del default, ma lo renderà ancor più inevitabile e traumatico. Per qualsiasi ragione siano accesi, i debiti sono poi da restituire.
  • L’Italia tra il 2000 e il 2020 ha perso tra un terzo ed un quarto delle sue capacità di produzione, rispetto a Germania e Stati Uniti, e molto anche rispetto a tutti gli altri paesi… e la pandemia non c’era. Capacità costruite nei precedenti cinquant’anni. Se si fa il conto, quella percentuale perduta corrisponde all’incirca a 10 milioni di posti di lavoro: i disoccupati di oggi. E’ questo trend che bisogna rovesciare, ma per farlo bisogna cambiare mentalità e prendere nuove e coraggiose iniziative (il cui elenco richiederebbero un lungo discorso), anche per far fronte ai nuovi debiti che ci venissero in eredità dalla pandemia.
  • Un default italiano produrrebbe nell’immediato gravissime miserie all’interno del nostro Paese, ben maggiori di quante già ci siano. Lo Stato non potrebbe accendere nuovi debiti, e dovrebbe far fuoco con la legna che ha, cioè pagare stipendi, forniture e donazioni a misura che incassa i soldi dalle tasse, quindi soltanto in modo parziale. Idem per gli enti pubblici: diverrebbero tutti forzatamente “virtuosi”. Cioè, dovrebbero tutti risparmiare all’osso. Quindi, meglio evitare, no?!.
  • Nessun paese, soprattutto se è una democrazia, ha mai fatto e mai farà beneficenza disinteressata nei confronti di un altro. Ogni paese alberga al suo interno un coacervo di problemi tale che l’opinione pubblica, e l’opposizione – è la democrazia – non acconsentiranno mai a stornare gratuitamente risorse interne a favore di paesi terzi, che peraltro potrebbero essere concorrenti sui mercati, e, in quanto stranieri, sono antipatici. Non si può chiedere, tanto meno pretendere, da nessun paese un aiuto senza contropartite. Dicono gli inglesi: “There is not such thing as a free lunch”. Una contropartita di successo ebbe, per esempio, il piano Marshall, che aiutò a salvare l’Italia (e parte dell’Europa) dalle conseguenze della guerra ma la legò (per sempre?) all’orbita degli Stati Uniti, allontanando l’intervento dell’Unione Sovietica, peraltro anche quello non disinteressato.
  • Non amo i frequenti richiami che politici e giornalisti italiani fanno alla “solidarietà” da parte di altre nazioni. Anzi, li considero perniciosi, perché presumono e sottolineano l’aspetto caritatevole, facendo immaginare alla gente (agli stranieri ma anche agli italiani) un’Italia più malandata e degenerata e incapace di salvezza di quanto in effetti sia, e, quindi, non chiedono la positiva partecipazione dell’Italia ad un’Europa unita divenuta “grande potenza mondiale”, ma ipotizzano un macro-ente benefico, una specie di “Società di San Vincenzo de Paoli” continentale dedicato ai poveretti del Sud Europa. L’Italia deve smettere di piangersi addosso e passare ad un atteggiamento costruttivo solido anche sul piano ideale.
  • Il messaggio che deve essere portato avanti dall’Italia è quello che ho cercato di delineare nel mio precedente articolo: ci troviamo a dover scegliere in un’alternativa di portata storica. Soprattutto la Germania deve cercare di non far fare all’Europa la fine dell’asino di Buridano, che muore di fame con due mucchi di fieno davanti a lui, per non sapere quale scegliere. Sul versante positivo del dilemma – sta la visione di un’Europa unita, guidata dalla Germania, che peraltro ne ricaverebbe i maggiori benefici. Infatti, uno dei principali obiettivi dell’Unione, è quello di raggiungere la “massa critica” in soldi spesi e persone impiegate nella ricerca, nella difesa, nell’economia, in modo da competere con gli altri: 450 milioni di abitanti l’Unione (senza più contare l’Inghilterra) si devono confrontare con Cina (1,400 milioni), India (1,300 milioni), USA (330 milioni), Russia (150 milioni). Ed è ovvio che la Germania, farebbe la parte del leone, avendo dalla sua i soldi, l’organizzazione, la credibilità, la coesione, l’industria… e persino la geografia. Sul piano negativo del corno l’inevitabile default dell’Italia trascinerebbe con sé terribili conseguenze a catena per tutti gli altri, certamente anche per la Germania, forse per il mondo intero, con esiti ben peggiori del “modesto” crack Lehman. Evidenziare questa seconda alternativa non deve apparire un ricatto – “muoia Sansone con tutti i Filistei!” – ma come la razionale previsione della conseguenza di una non scelta e quindi di una inevitabile belligeranza economica infra-europea, magari cavalcando il coronavirus – per chi può.
Popolazione mondiale
  • L’Italia non riuscirà mai a ripagare i propri debiti, ma lo stesso vale per tutti gli altri paesi, compresi Cina, Stati Uniti, Regno Unito, Giappone e Germania medesima. Ma a costoro non succede nulla, perché gli investitori ad ogni scadenza “si fidano”. Quindi, l’onere del debito effettivo per ogni paese consiste nel pagare ogni anno gli interessi sul debito, e in questo l’Italia è penalizzata malgrado i tassi di mercato siano bassi, per via dello spread, che non consegue a nulla di concreto ma alla “sfiducia” degli investitori, alimentata dalle notizie sulla conflittualità politica interna e dagli stereotipi sui quali sono stati allevati i funzionari degli enti di rating (stereotipi rinvigoriti dalla lettura dei quotidiani). Un debito europeo che integrasse tutti i debiti nazionali sarebbe affidabile, quindi per tutti a spread zero. Non è vero che i laboriosi operai tedeschi sarebbero chiamati a pagare per i fannulloni italiani. Né che noi dovremmo vendere il Colosseo. Una garanzia comunitaria al debito integrato non verrebbe mai escussa perché il debito complessivo dell’Europa unita sarebbe inferiore (rispetto al PIL) a quello degli USA, della Cina, degli UK, del Giappone.
  • Con tutto il presuntuoso orgoglio nazionale di “paese più bello del mondo”, l’Italia dovrebbe concedere che un’Europa unita sia in larga misura guidata da entità e mentalità straniere, e pour cause. In particolare, ripetendomi, “i tedeschi avrebbero tutto…. i soldi, l’organizzazione, la credibilità, la coesione, l’industria… persino la geografia e non dovrebbero fare come i piemontesi che per “fare” l’Italia sacrificarono il Piemonte, da regno autonomo a provincia periferica.” Sarebbe una guida economico-politico-culturale che viene da fuori per necessità, come il Meridione d’Italia sperimentò con i “piemontesi” dopo il 1861. Però per l’Italia non sarebbe una riedizione del motto “Francia o Spagna, purché se magna”, perché sono convinto che le giovani generazioni di italiani saprebbero conquistare molte posizioni nella nuova Europa, come fece in giro per il mondo la generazione del “miracolo economico”.
  • L’unità vera é certamente una prospettiva aborrita dalle attuali grandi capitali europee, la cui struttura burocratica diverrebbe inutile. L’Unione gestirebbe la politica estera, la macro-finanza, la difesa… Le restanti politiche, più vicine ai cittadini (educazione, sanità, ordine pubblico, cultura, industria…) si farebbero a livello regionale. Per i lander tedeschi cambierebbe poco; per le (ipotetiche) macro-regioni che nascerebbero all’interno dell’Europa unita (per esempio il Nord Italia) ci sarebbero indubbi vantaggi. Ma sarebbe dura per le principali ex-capitali. Pensate a Parigi quando la Bretagna e la Provenza fossero autonome, o a Madrid con la Catalogna che facesse da sé, né meglio andrebbe per Berlino. In effetti le capitali attuali (con burocrazie in parte parassitarie) sono un ostacolo all’unità d’Europa ancor più rilevante del debito italiano. Si innalzerebbero inevitabilmente accorati richiami storico-patriottici alle “patrie”, cioè, in sostanza, alle passate guerre pan-europee, vinte o perse, all’interno di un piccolo sub-continente. Non conosco il computo degli europei morti ammazzati tra loro sotto le bandiere nazionali, da Napoleone in avanti, ma mi è bastato vivere da bambino tristi episodi dell’ultima guerra, per averne avuto abbastanza.
  • In passato, le divisioni sul territorio sono state superate soltanto con la forza. Le grandi unificazioni di popoli sono state realizzate sulla punta delle spade: dalle dinastie Qin e Han che misero insieme la Cina due millenni or sono, all’impero Romano, ai franco-longobardi di Carlo Magno, alla conquista del West da parte dei coloni americani, all’India dell’impero Moghul e della corona britannica, agli Incas sull’altopiano del Titicaca, ai piemontesi aiutati da Napoleone III e Garibaldi per la contestata unità d’Italia, alla diffusione dell’Islam dopo la morte di Maometto. La prospettiva di un’unità europea “spontanea” che nasca a furor di popolo è di certo un’ingenuità. Scartata l’idea di un nuova guerra di unificazione (fallite quelle recenti di Napoleone e di Hitler), si potrebbe sostituire la violenza con la minaccia del default collettivo e l’attrazione di una preminenza economica a livello mondiale, magari arricchita dal ricordo di un’unità culturale che dura dal tempo dell’espansione degli indo-europei, forse diecimila anni or sono. Se la pandemia del coronavirus avesse a contribuire a questo processo, le tante morti che ha provocato non sarebbero state inutili per i posteri.

Dunque: Europa great davvero, per usare uno slogan caro a Trump; great magari già dai prossimi giochi olimpici – queste le medaglie d’oro nel 2018: Europa 64, Stati Uniti 46, Gran Bretagna 27, Cina 26, Russia 19.

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Giorgio Garuzzo

Giorgio Garuzzo nasce a Paesana (Cuneo) il 30 novembre 1938. Laureatosi nel 1961 nel primo corso di laurea in Italia per ingegneri elettronici, ha iniziato la sua lunga carriera in industria nel febbraio 1962, lavorando per dodici anni nel centro di ricerca sui grandi calcolatori elettronici fondato da Adriano Olivetti, partecipando allo progettazione degli elaboratori italiani delle serie Elea e GE che negli anni 1960 fortemente contribuirono alla prima informatizzazione dell’industria italiana. Nel libro “quando in Italia si facevano i computer”, pubblicato come e-book nel 2015, racconta la sua giovanile esperienza nell’ambito di quell’avanzata avventura industriale. Tra il 1973 ed il 1976, è stato membro del Comitato Esecutivo di Gilardini, un gruppo quotato in Borsa, in rapida espansione nei settori dei componenti automobilistici ed industriali. Nel maggio del 1976 l’ing. Carlo De Benedetti, presidente di Gilardini, venne nominato Amministratore Delegato di Fiat, e l’ing. Garuzzo lo seguì in Fiat come suo consigliere personale. Tra il 1976 ed il 1978, l'ing. Garuzzo è stato responsabile dell’ufficio Nuove Iniziative del Gruppo Fiat, promuovendo, tra l’altro, la creazione di Comau, complesso nel campo delle macchine utensili e dei sistemi di produzione, nato dall’integrazione di sette aziende pre-esistenti. Tra il 1979 e il 1984 fu Direttore del Settore Componenti Fiat che includeva oltre 50 aziende del comparto componentistico per l’auto e per l’industria, aziende che riunì in nove raggruppamenti, di molti dei quali fu anche presidente o amministratore delegato: Aspera (compressori per refrigerazione e piccoli motori), Borletti (strumenti di bordo, condizionamento), Comind (componenti in plastica e in gomma), Gilardini, IVI (vernici), Fiat Lubrificanti, Magneti Marelli (componenti elettrici ed elettronici), Weber (carburatori e sistemi di iniezione), Sepa (sistemi elettronici); il Settore raggiunse nel 1982 un fatturato aggregato di 2.250 miliardi di lire, con un buon profitto complessivo. Dal 1984 al 1990 l’ing. Garuzzo fu CEO - Chief Executive Officer di Iveco, la società multinazionale del gruppo Fiat produttrice di veicoli industriali. Dopo le forti perdite riscontrate sino ad allora, Iveco raggiunse il punto di pareggio nel 1985; venne successivamente sviluppata anche tramite acquisizioni (Ford Truck e Seddon Atkinson nel Regno Unito, Pegaso in Spagna, Astra in Italia, Ashok Leyland in India), fino a raggiungere nel 1989 un fatturato superiore agli 8.000 miliardi di lire, con una posizione di leadership sul mercato europeo e un ragguardevole profitto. Da tale posizione Iveco condusse un programma di rinnovamento totale della gamma di prodotto e di 22 stabilimenti in 6 paesi d’Europa, con un investimento di oltre 5.000 miliardi di lire, in larga misura autofinanziato. In aggiunta, nel 1989 l’ing. Garuzzo assunse la responsabilità di Fiat Agri e promosse l’acquisto della divisione dei trattori e delle macchine per l’agricoltura di Ford, coordinando la creazione di un gruppo integrato, che, con la denominazione di New Holland e con un fatturato nel 1990 di 5,1 miliardi di dollari, divenne uno dei due leader mondiali nel comparto, giungendo rapidamente ad un ragguardevole profitto, che ne consentì la quotazione in borsa alcuni anni dopo. Tra il 1991 ed il 1996, l'ing. Garuzzo ha ricoperto il ruolo di direttore generale di Fiat, con responsabilità di tutti i settori autoveicolistici, che includevano Fiat Auto (automobili), Iveco (camion ed autobus), New Holland (trattori, macchine agricole e macchine movimento terra), Magneti Marelli (componenti), Teksid (fonderie), Comau (sitemi di produzione), Ceac (batterie elettriche) e Centro Ricerche Fiat. Tale carica comportava la presidenza del Consiglio di Amministrazione di Fiat Auto S.p.A., di Iveco N.V., di New Holland N.V. Nel 1992 la responsabilità dell’ing. Garuzzo fu estesa a tutto il settore industriale, con l'aggiunta di Fiat Ferroviaria (treni ad assetto variabile), Fiat Avio (parti per aerei ed elicotteri, turbine a gas e propulsori spaziali), Snia (bioingegneria, fibre e prodotti chimici). Nel 1991 partecipò alla fondazione di ACEA, l’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili, di cui fu presidente negli anni 1994 e 1995. Nel libro pubblicato nel 2006 “Fiat – I segreti di un’epoca” (ed. Fazi, traduzione inglese ed. Springer), racconta gli eventi della sua esperienza in Fiat e delle realizzazioni industriali nel contesto economico e sociale dell’Italia di quel ventennale periodo. Dal 1996 si occupò di investimenti in “private equity”, esperienza che lo indusse nel 2007 a promuovere la fondazione e la quotazione di Mid Industry Capital SpA (da lui presieduta sino al 2015). E’ sposato con Rosalba Avaro ed ha un figlio, Carlo. L’Istituto Garuzzo per le Arti Visive (IGAV) è un’organizzazione “non-profit”, fondata nel 2005 e finanziata in gran parte dalla famiglia Garuzzo, che ha lo scopo di supportare l’arte contemporanea e in particolare ad aiutare i giovani artisti italiani emergenti a farsi conoscere sia in Italia sia, soprattutto, nei contesti internazionali. Ha sinora organizzato 86 mostre in 58 musei di 19 nazioni, e gestisce l’esposizione della Collezione Permanente alla Castiglia di Saluzzo.

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