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Oro Bianco: l’epopea delle balie italiane che emigravano per vendere il loro latte

Con una felice intuizione, i ricercatori Federico Betta, Giacomo Cuva e Alice Campoli, definiscono Oro Bianco un mestiere che oggi non esiste più. Quello delle balie da latte. Una pagina quasi sconosciuta di quell’epopea migratoria scritta dalle donne  italiane tra l’800 e il 900.
Molti aspetti rendono particolare il baliatico. In primo luogo partivano da sole, non insieme o  per raggiungere il loro uomo. Una forma di emancipazione dettata dalla disperazione, dalla fame. Donne che non avevano altro da vendere.
Poi guadagnavano tantissimo. I loro stipendi arrivavano ad essere maggiori di anche tre volte di quello di un operaio o minatore.
Infine, si spostavano non solo in Italia, ma anche in paesi assai lontani, come l’Egitto. E facevano addirittura da viatico per i loro mariti, che emigravano chiamati dalle mogli precedentemente emigrate, che davano loro la possibilità di inserirsi con una certa facilità sul suolo egiziano (Gobbi, 2011).

Oro Bianco: l’epopea delle balie italiane che emigravano per vendere il loro latte

Quello delle balie in Egitto è l’aspetto più particolare

A dire il vero, le balie non erano le uniche ad emigrare in Egitto. Al Cairo, ma soprattutto Alessandria – a quei tempi, città cosmopolita e aperta a svariati influssi culturali – troviamo italiane impiegate come governanti, cameriere, cuoche, bambinaie, sarte. Venivano chiamate le “alessandrine”, tanto era comune il fatto che le nostre connazionali partissero per le metropoli egiziane. Nel 1820 la presenza degli italiani si attesta attorno alle seimila persone, per crescere notevolmente negli anni seguenti, anche – appunto – per il  cantiere di Suez, nel quale lavoravano  anche maestranze nostrane.

Il primo censimento ufficiale della popolazione, realizzato nel 1882, annota 18.665 connazionali. E nel 1903 i registri consolari dei passaporti di Alessandria evidenziano un saldo positivo tra arrivi e partenze relativamente alle «donne attendenti alle cure domestiche», categoria che comprendeva ovviamente anche le balie. 

L’altro grande polo di attrazione nella seconda metà del’Ottocento fu la Francia meridionale, meta privilegiata da tante «migranti temporanee» perché era vicina e il viaggio quindi costava meno.  In alcuni casi il baliatico diventava un’occasione di impiego per così dire  di «riconversione occupazionale».

Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento migliaia di donne italiane andavano  nelle filande transalpine, in particolare nei distretti della lavorazione della lana e del cotone. Ma per molte di loro il matrimonio, e più ancora la gravidanza, costituivano  la fine dell’esperienza lavorativa: quasi tutti gli  imprenditori – in Francia come in Italia, del resto – inserivano nel contratto una clausola con la quale la lavoratrice si impegnava a non rimanere incinta, pena il licenziamento. 

A volte, però, fare un figlio diventava il motivo di  un nuovo e più remunerativo lavoro : il baliatico.

In quegli anni, e fino grosso modo alla metà del 900, per chi poteva permetterselo, era abbastanza normale far allattare i figli ad altre donne. Non erano solo le “anemiche inglesi”, ma in generale le signore dell’alta borghesia e dell’aristocrazia d’Europa . Allattare “rovinava il seno” e condizionava la vita mondana : mica si poteva lasciare il ricevimento a metà per andare a dare il latte a pupo!
Le balie servivano anche per i brefotrofi o gli ospedali: a volte  venivano chiamate dalle suore o dalle dame di carità per dar da mangiare ai neonati abbandonati (il tasso di mortalità era alto più del doppio tra i bambini abbandonati e orfani).

Nasce  così una nuova tipologia di lavoratrici italiane, che – si legge nel Dizionario enciclopedico delle migrazioni nel mondo – cominciò addirittura ad essere pubblicizzata ed esportata.
In genere, nel paese di provenienza c’era una sorta di “sensale”, prete, medico, levatrice, che segnalava la partoriente e contemporaneamente faceva da garante sulla salute e la moralità della donna. «Nel 1887, per mettere ordine in tutto questo viavai femminile e limitare i rischi per i bambini, un regolamento (la Circolare Nicotera) stabilì che per esercitare il mestiere di balia era necessario un certificato che attestava il buono stato di salute. Per evitare brutte sorprese, le famiglie andavano a casa dell’aspirante balia o inviavano il proprio medico di fiducia per valutare la qualità del latte: una procedura umiliante, cui si aggiungeva la richiesta di referenze» (Giammatteo, 2016).

Una volta arrivate nelle case  dei “padroni” , le balie erano trattate bene: manipolavano una merce preziosa. Non erano accomunate alla servitù, anzi, venivano servite, spesso mangiavano a tavola con i padroni, i quali  così potevano controllare che assumessero un’alimentazione adeguata. spettava loro un corredo di indumenti intimi, vestiti da casa, vestaglie, grembiuli, pettorali ricamati. Portavano cuffie e gioielli di corallo, pietra considerata portafortuna per conservare il latte buono ed abbondante. Spesso i padroni erano attenti anche a spostarle in residenze fresche d’estate. Per queste contadine  poverissime e disperate si trattava di uno stravolgimento enorme rispetto alla vita precedente. Una vita da signore  che non avranno più possibilità di provare. Tanto che molte decidevano di restare dalla famiglia ospite come balie asciutte o come guardarobiere.

Ma il prezzo che pagavano era altissimo. L’oro era bianco, ma il sapore amarissimo.

Lasciavano il proprio bambino magari ad una sorella che aveva appena partorito, ad una madre ancora feconda, ad un’altra balia al paese, cui spesso giravano circa un terzo del proprio stipendio. A volte, per risparmiare, quella che partiva ricorreva al “latte vecchio” di una donna che aveva messo al mondo un bambino da diversi mesi. Oggi si chiamerebbe economia dell’indotto.
Un distacco così pesante da non dover mai guardare indietro. Una lacerazione che lasciava segni profondi. In più, una volta tornate a casa dovevano fronteggiare a riprovazione della “gente”. La chiesa le condannava perché vedeva  nella baliomania (così era definita)  delle contadine un attentato alla maternità – scrive l’antropologa Daniela Perco (1984) –  dall’altro lato molti benpensanti accusavano le balie di maternità mercenaria, considerata vicina al meretricio.
Inoltre, l’esperienza lavorativa e di vita vissuta soprattutto in Egitto, le aveva emancipate  e rese diverse  rispetto alle  loro compaesane rimaste in terra d’origine. Le Alexandrinke – scrive Makuk nel  2006 –  avevano assorbito abitudini, comportamenti e idee delle famiglie borghesi straniere, una volta ristabilite in Italia si resero conto di essere visibilmente differenti dalla gente del contesto rurale della realtà di origine. Avevano  la pelle chiara e non consumata dal lavoro nei campi, portavano i gioielli regalati, gli spilloni nei capelli, e venivano guardate con sospetto dalla gente locale. La loro maggiore autonomia personale tuttavia si dimostrò nel tempo capace di apportare positivi benefici nello sviluppo economico, contribuendo attraverso il baliatico, allo sviluppo economico e sociale dei vari territori italiani da dove provenivano. Donne, come ha sostenuto P. Rumiz, che all’ombra dei minareti hanno paradossalmente gustato il sapore della libertà, hanno assorbito una cultura sincretica, si sono emancipate e hanno realizzato i propri sogni.

La pratica del baliatico è finita con il secondo dopoguerra. Era arrivato il latte in polvere e dopo pochi anni, arriva pure i miracolo economico che porta la possibilità di maggiori consumi – anche per bambini – e una povertà, ancora presente, ma meno disperata. e  le vicende umane delle balie italiane all’estero restano uno dei capitoli ancora poco esplorati dell’emigrazione femminile italiana, che pure rappresenta un aspetto importante del grande movimento in uscita che ha accompagnato per decenni la storia del nostro Paese

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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