Roma non è città di mare anche se il mare è molto vicino, e le ricette dell’antica cucina romana ne sono testimonianza. Ostia, la sua spiaggia, è un quartiere distante una ventina di chilometri dal Campidoglio e poco più lontano è il comune di Fiumicino, dove sfocia il Tevere e si trova, fin dai tempi antichi un porto fluviale, oggi usato soprattutto da imbarcazioni da diporto, ma fino a mezzo secolo fa rifugio sicuro di piccoli pescherecci. Il pesce di là affluiva nei mercati cittadini fin dai tempi antichissimi.
I romani non hanno mai avuto una eccessiva predilezione per il pesce, preferendo gli scarti della macellazione di bovini ed ovini, che avevano tra l’altro il pregio di essere gratuiti, dono di chi aveva denaro abbastanza per cibarsi della carne degli animali. Forse anche per questo motivo la cucina romana non brilla affatto per la preparazione di cibi a base di pesci, con poche eccezioni, come il tortino di alici, capolavoro della cucina ebraico-romana e la pasta di broccoli con l’arzilla.
Arzilla è termine tipicamente romanesco per indicare la “razza chiodata”, uno strano pesce a forma di rombo, molto sottile, con un corpo centrale a siluro e due specie di ali ai lati. Privo di lische, sostituite da ossicini gelatinosi, con una carne dura e di gusto per nulla gradevole, vive in acque fangose e profonde. Alle foci del Tevere qualcuna finiva non di rado nelle reti dei pescatori. Era un pesce di scarto che costava poco e niente, in quanto destinato ad essere rigettato in mare: i romani, così come successo con le frattaglie di bue ed agnelli, riuscirono ad utilizzarlo in cucina, anche se con alcune variazioni sul tema.
La prima operazione era quella di eliminare il materiale vischioso di cui è coperta la pelle (grigia o marrone, con piccole macchie): l’operazione può essere facilitata dall’uso di uno spazzolino da denti. Tolta la testa e le viscere, tagliata a pezzetti della grandezza di una mano, il pesce veniva messo a cuocere a fuoco lento in acqua con cipolla, sedano e carota, una ventina di minuti.
A questo punto di poneva il primo problema: usare la (poca) carne e la (molta) cartilagine per condire fette di pane abbrustolito con l’aggiunta di olio o peperoncino o rendere più sapida la minestra?
Nel primo caso i pezzi del pesce venivano estratti dalla pentola e tolta la pelle ed il corpo centrale fino a formare pezzetti da mettere a bollire per altri venti minuti nella pentola.
Nel secondo caso il pesce continuava a bollire fino a quando dopo altri venti minuti iniziava a perdere consistenza. A questo punto il brodo veniva filtrato con colino fine e poi messo di nuovo nella pentola dove venivano messi a cuocere i broccoli tagliati a pezzi destinato alla minestra.
In un tegame a parte venivano collocate alcune alici (una a persona), senza lische, con un po’ d’olio ed uno spicchio d’aglio, lasciate soffriggere fino a che era possibile ridurle in poltiglia con la forchetta.
Era a questo punto che si distinguevano i romani veri da quelli venuti in città dai paesi del Sud. I primi, i discendenti di Romolo e Remo, gettavano olio ed alici nel brodo dove cuoceva il broccolo e quando questo era quasi cotto aggiungevano la pasta (solitamente spaghetti tagliati a pezzetti), e la minestra era pronta!
La “corrente sudista” preferiva invece aggiungere al soffritto il pomodoro e, dopo qualche minuto, una volta cotto il broccolo, aggiungere anche la pasta.
Chi aveva ragione? Chi aggiungeva il pomodoro o chi non lo usava? In ogni modo buon appetito!
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