Tutte le discussioni che stanno interessando la pubblica opinione sul cosiddetto “scudo penale” reclamato dai manager di Arcelor Mittal, attuali gestori dell’ILVA di Taranto, sono emblematici del caos globale che regna nel Bel Paese.
Gli Italiani sembrano incapaci di ragionare secondo logica e raziocinio e di trarre insegnamenti utili e validi non soltanto per il caso specifico da risolvere ma per tutto il complesso di problemi che affliggono la nostra vita collettiva. Lo “scudo” di cui si parla è, in buona sostanza, un’esenzione da responsabilità penale e amministrativa che è stata garantita dallo Stato a chi doveva operare per il risanamento del complesso industriale pugliese.
E’ l’effetto di una legge che i Romani avrebbero definita “in privos lata” che, invece, di rivedere “per tutti” regole che hanno dimostrato di essere ingiuste, dannose e nocive ne elimina gli effetti “per alcuni”, creando una situazione di “privilegio”, giudicata dai nostri antenati di per sé odiosa. Comunque, di là delle specificazioni puntigliose e delle posizioni conflittuali dei partiti politici – che hanno fatto cambiare lo “scudo” per ben due volte e sono al centro delle diatribe odierne – e di là delle contestazioni dei giudici circa la sua legittimità costituzionale, una conclusione di natura “pratica”, estensibile ad altri casi analoghi, si può trarre dalla semplice esistenza del problema: in Italia l’azione dei pubblici ministeri in determinate, delicate materie comincia a essere considerata un intralcio al normale svolgimento di un’attività industriale produttiva, ritenuta dalle forze politiche (e verosimilmente da un certo numero di cittadini) utile all’economia nazionale.
Perché ciò avviene nel Bel Paese e non altrove? Perché i nostri legislatori e governanti avvertono il bisogno di “bloccare” l’attività del potere giudiziario solo nei confronti di alcuni operatori economici e non di tutti per consentire lo svolgimento di un’attività utile alla nostra economia? E’ necessario ragionarci.
Se lo “scudo” ha messo a nudo l’aspetto di un’interferenza della pubblica accusa, ritenuta nociva, in presenza di circostanze date, per la crescita e il progresso del Paese, logica vorrebbe che si prendessero in esame anche tutti gli altri profili che, ipoteticamente, rendano la collocazione del potere giudiziario in Italia (che può dirsi veramente “unica” nel panorama delle liberal-democrazie occidentali) per valutarne la necessità di una riforma “non all’acqua di rose” (come le ipotesi sin qui prospettate da una classe politica incompetente e soprattutto impaurita) ma profonda e radicale. Andrebbe, in primo luogo, considerato lo status quo dei tre poteri dello Stato per individuare, possibilmente, le ragioni che fanno del sistema di governo italiano il peggiore, o almeno il meno coraggioso, di tutti quelli degli Stati-membri dell’Unione Europea.
Molti elementi di giudizio importanti si devono trarre dall’esame del potere legislativo e di quello esecutivo. Non v’è dubbio che la base migliore per il “buongoverno” del Bel Paese non può certamente essere costituita da rappresentanti del popolo in Parlamento e, per il sistema vigente in Italia, da membri del Potere Esecutivo scelti, in buona sostanza, dai capi-partito e imposti all’elettorato in una sorta di gioco del “prendere o lasciare”. E’ ciò che avviene, oggi, con il “Rosatellum”, un sistema elettorale, sostanzialmente anti-democratico, che prevarica e non rispetta l’autonomia del diritto di scelta dei cittadini. La domanda ulteriore, però, è: un sistema diverso ispirato ai modelli più consolidati di democrazia dell’Occidente potrebbe aiutare a migliorare le cose?
La risposta, a mio giudizio, dev’essere negativa. Non sarà possibile avere un buon governo di cittadini competenti, preparati, colti, capaci, bene affermati nella società civile fino a quando si chiederà loro, in modo non esplicito ma ugualmente chiaro, di correre il rischio, entrando nella vita politica, di vedere compromessi la reputazione, il buon nome, la stima nell’attività professionale svolta, frutto di una faticosa conquista. E ciò, perché raggiunti da un avviso di garanzia che, magari, dopo anni di fango si risolve in una bolla di sapone. In tali condizioni, si cimenta in politica soltanto chi non ha niente da perdere, non ha una professione, non esercita in modo soddisfacente un mestiere, non gode una considerazione sociale da salvaguardare.
Con Tangentopoli e con Mani Pulite gli Italiani, meno avveduti e più ingenui, speravano che fosse stato dato un colpo mortale alla corruzione e hanno dovuto accorgersi, invece, che essa è spaventosamente aumentata. E’ finita sì, una classe politica attinta in buona parte nella società civile, ma quella che è subentrata ha fatto amaramente rimpiangere quella precedente. E’ vero che non è soltanto italiano il pericolo di un degrado e di declassamento della classe politica, in un contesto, come quello eurocontinentale, dominato dai mass-media asserviti al potere finanziario e omologato in uno schieramento gauchiste ben definito e unico in tutto l’Occidente (democratici, laburisti, cristiano-sociali, socialdemocratici e pseudo-liberali). A esso non si sfugge in tutte le società liberal-democratiche dell’Occidente. Nel Bel Paese, però, esso appare più preoccupante che in altri Stati membri della stessa Unione Europea.
La risposta che ciò avviene perché in nessun altro Paese la pubblica accusa gode dei privilegi concessi ai pubblici ministeri italiani sarebbe certamente parziale e probabilmente malevola ma il dardo non andrebbe lontano dal segno. Le ragioni sono molteplici, ma basta ricordarne due:
Et de hoc satis (Di ciò basta ndr)
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