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Perchè fu ucciso Bachelet?

Bachelet fu ucciso in quanto “tecnico della controrivoluzione, che continua a diffondere la convinzione che occorre reprimere la lotta armata” (dalla rivendicazione dell’omicidio fatto ritrovare dalle BR).

12 febbraio 1980: sono le undici e cinquanta del mattino ed il Prof. Vittorio Bachelet, ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, terminata la sua lezione, sta scendendo le scale per uscire dalla Facoltà. A poca distanza dietro di lui la sua assistente Rosy Bindi.

È arrivato quasi sul pianerottolo che dà sulla porta di uscita, al piano terra, quando una figura, giaccone, pantaloni, stivali e cappello di lana a caschetto, arriva dietro di lui, lo sopravanza, gli si para dinanzi ed esplode undici colpi da una pistola bifilare calibro 7.65.

Il professore cade a terra: un giovane uomo gli spara ancora alcuni colpi di pistola: uno lo raggiunge alla nuca e gli è fatale. I due feritori si dileguano rapidamente: si precipitano fuori dalla facoltà, salgono su una A 112 parcheggiata in seconda fila vicino all’ingresso, escono dall’Università su Viale Regina Elena: l’ingresso è chiuso da una catena che però la sera precedente è stata tagliata e richiusa con un lucchetto di cui i due hanno la chiave.

La rivendicazione dell’omicidio arriva puntuale alle 14.33 al giornale “La Repubblica”: ad ucciderlo sono state le B.R. Anna Laura Braghetti, la “vivandiera” durante la prigionia di Aldo Moro, intestatario dell’appartamento in cui fu rinchiuso, racconterà in un libro autobiografico (Il prigioniero, 1998) i particolari dell’omicidio, un atto lucidamente progettato dall’esecutivo delle Brigate rosse.

Assassinio Bachelet

Perchè fu ucciso Bachelet?

Il suo assassinio è da collocare nel contesto di una vicenda che aveva avuto inizio nel 1976, quando il 17 maggio si era aperto presso la Corte d’assise di Torino il primo grande processo contro le Brigate rosse, con ventitre brigatisti rinviati a giudizio, di cui undici detenuti. Tra gli imputati vi erano alcuni dei capi storici dell’organizzazione, come Curcio, Franceschini e Gallinari.

I Brigatisti rifiutano la difesa nel processo

Gli imputati presenti, già alla prima udienza revocarono il mandato agli avvocati difensori, accusando i giudici di voler processare la rivoluzione proletaria che, proprio in quanto rivoluzione, non poteva essere fermata con i processi: pertanto, qualora fossero stati nominati i difensori d’ufficio, gli imputati rifiutavano ogni collaborazione in quanto la loro nomina sarebbe servita solo a processare il comunismo.

Gli avvocati difensori (Giovannino Giuso, Corrado Costa, Paolo Rosati, Edoardo Arnaldi e Eduardo Di Giovanni) aderirono alla richiesta degli imputati e rinunciarono al mandato difensivo.

Il Presidente della Corte d’assise ne prese atto e nominò dieci difensori d’ufficio che però rifiutarono l’incarico adducendo come motivazione “l’arbitrarietà del criterio di designazione” oltre ad altre di carattere personale (impegni già presi, indignazione per le dichiarazioni rese in aula dai brigatisti).

Furono allora nominati difensori d’ufficio l’avvocato Fulvio Croce, Presidente dell’Ordine degli avvocati e procuratori di Torino e, per Rocco Micaletto, ancora latitante, l’avv. Pierangelo Accatino. L’avvocato Croce accettò l’incarico e delegò alla difesa otto avvocati che erano consiglieri dell’Ordine. La risposta dei brigatisti fu rapida: qualunque avvocato che fosse stato chiamato alla loro difesa, sarebbe stato un “difensore di regime” che come tale sarebbe stato combattuto.

Gli avvocati chiamati alla difesa cercarono una via d’uscita, sostenendo in un documento presentato alla Corte il 9 giugno che gli articoli del codice di procedura penale che vietava agli imputati in un processo penale di difendersi da soli (che era quanto i brigatisti volevano) era in contrasto con gli articoli 21, 24 e 26 lett. C) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per la salvaguardia delle libertà fondamentali.

Nella stessa udienza del 9 giugno Prospero Gallinari tentò di leggere un comunicato con il quale le B.R. rivendicavano l’uccisione di Francesco Coco, procuratore generale di Genova, e di due uomini delle sua scorta, avvenuta il giorno prima.

La Corte respinse l’eccezione presentata dagli avvocati e rinviò il processo al 16 settembre in attesa della decisione della Corte di cassazione a proposito di un conflitto di competenza territoriale con la Corte d’assise di Milano.

A questo punto l’avv. Croce prese l’iniziativa di una proposta di legge che consentisse agli imputati di difendersi da soli e, al tempo stesso, denunciò alla Procura della Repubblica di Bologna Prospero Gallinari e gli altri brigatisti per le minacce fatte agli avvocati durante l’udienza del 9 giugno.

Croce intuiva perfettamente le difficoltà della situazione: processare i brigatisti rispettando tutte le regole dello Stato di diritto sarebbe stato difficile, ma al tempo stesso lo Stato non poteva arrendersi e rinunciare a processarli: sarebbe stata una clamorosa sconfitta dalle conseguenze imprevedibili.

L’11 agosto la Corte di Cassazione decise che il processo doveva continuare a Torino dove però il processo fu nuovamente rinviato in attesa di una decisione della Corte d’appello di Napoli a proposito della questione di legittimità costituzionale sollevata dall’Avv. Croce.

La questione fu dichiarata non fondata: il processo di Torino poteva riprendere. Dopo una ordinanza che respinse la richiesta dell’Avv. Croce di essere esonerato dalla difesa per grave inimicizia degli imputati (25 febbraio 1977), l’inizio delle nuove udienze fu fissato per il 3 maggio, dopo che il 4 aprile il Tribunale di Bologna aveva respinto la denuncia degli avvocati difensori nei confronti degli imputati per le minacce ricevute, ritenendo che esse non erano né gravi né credibili.

Ormai bastava poco perchè per alcuni imputati si profilasse la scadenza dei termini della carcerazione preventiva: il 26 aprile i termini furono pertanto allungati con un decreto legge.

L’uccisione dell’avvocato Croce

La risposta dei brigatisti fu l’uccisione (28 aprile) dell’Avv. Croce: il nuovo delitto sconvolse l’opinione pubblica tanto che alla riapertura del processo fu constatato che solo quattro degli otto giudici popolari avevano accettato di far parte della giuria, ciò che costrinse il Presidente della Corte d’Assise a rinviare il processo a tempo indeterminato.

L’intervento del Consiglio Superiore della Magistratura con Bachelet

Il processo riprenderà il 9 marzo 1978 con imputati difesi da avvocati d’ufficio e si concluderà dopo 107 giorni con ventinove condanne e sedici assoluzioni. La sua sospensione in quel momento rischiava di essere una sconfitta per lo Stato di cui la magistratura in particolare sentiva tutto il peso: il Consiglio Superiore della Magistratura non poteva non intervenire ed infatti intervenne.

Suo Vice presidente in quel momento era Giovanni Bachelet (la presidenza spetta, in base all’art. 104 della Costituzione al Presidente della Repubblica). Bachelet era stato eletto membro del C.S.M. dal Parlamento il 21 dicembre 1976 dopo un duro confronto con il candidato delle forze politiche di sinistra Federico Mancini.

Il candidato ufficiale della D.C. era Bachelet ma nelle prime votazioni parte dei deputati e senatori democristiani e molti tra quelli dei partiti suoi alleati preferì votare a favore di Giovanni Conso, ritenuto più attento alla laicità dello Stato. Alla fine venne eletto Bachelet, che poteva contare sulla fiducia di Aldo Moro: nessuno può mettere in dubbio la sua preparazione giuridica e la sua rigida moralità.

Chi era Bachelet?

Nato a Roma il 20 febbraio 1926, ultimo di nove figli di un ufficiale superiore del Genio, a otto anni è già iscritto all’Azione cattolica, e si impegna nella Congregazione mariana.

Nel 1943 consegue la maturità classica, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma, opera sia a livello locale che nazionale nella Federazione degli universitari cattolici.

Nel 1947 si laurea in Giurisprudenza con lode discutendo una tesi sul rapporto tra Stato e organizzazioni sindacali e diviene assistente volontario presso la cattedra di diritto amministrativo all’Università “La Sapienza” di Roma. Nel 1950 è redattore capo della rivista di studi politici “Civitas” diretta da Paolo Emilio Taviani di cui diverrà successivamente vicedirettore responsabile.

Nel 1951 si sposa (avrà due figli) e dal 1956 insegna Istituzioni di diritto amministrativo presso l’Accademia della Guardia di Finanza. Entra a far parte del Consiglio di presidenza del Movimento dei laureati cattolici, scrive importanti saggi giuridici (L’attività di coordinamento dell’amministrazione pubblica dell’economia pubblicato nel 1959 è tra i più noti), nel 1957 ottiene la libera docenza in diritto amministrativo e dal 1958 al 1961 è professore incaricato presso l’Università di Roma per passare poi ad insegnare diritto pubblico all’Università di Trieste (1961-62).

L’Università e gli studi giuridici non sono i suoi unici centri di interesse: oltre ai numerosissimi scritti giuridici, pubblica articoli politici e culturali su riviste cattoliche (Civitas, Ricerca, Coscienza, Iniziativa, Studium) e collabora all’attività delle organizzazioni cattoliche.

Nel 1959 diviene vicepresidente dell’Azione Cattolica, con presidente Agostino Mattarello, legato a Luigi Gedda, dal quale succede nella Presidenza. È subito chiaro che Bachelet presto prenderà il suo posto: papa Giovanni XXIII ritiene che l’Azione cattolica debba mutare radicalmente rotta per seguire la strada tracciata dal Consiglio Vaticano II, a proposito dell’apostolato dei laici in particolare, per rigenerare la comunità cristiana e servire meglio la Chiesa e la società.

Per Bachelet l’Azione cattolica non aveva, come per Gedda, il compito di colmare le carenze del partito cattolico, ma quello di collaborare con la gerarchia ecclesiastica in un rapporto desiderato e non subito, senza rinunciare alle proprie responsabilità.

Era in sostanza una linea di equilibrio e di mediazione tra il nuovo ed il vecchio, centrato sulla funzione salvifica della Chiesa e al tempo stesso sul rinnovamento religioso individuale, con accenti che nel mondo politico richiamavano da vicino le tesi sostenute qualche anno prima da Giuseppe Dossetti, pur senza le punte polemiche e la estremizzazione delle posizioni che erano state proprie del politico (poi monaco) emiliano.

Nel 1964 Bachelet divenne come era nelle previsioni, Presidente dell’Azione Cattolica; l’anno prima era diventato papa Paolo VI, che Bachelet aveva ben conosciuto negli anni precedenti.

Il compito di Bachelet non per questo divenne più facile: l’Azione cattolica diminuiva rapidamente il numero degli iscritti (da tre milioni che erano nel 1973 diverranno solo 816.000) non tutti i cattolici erano disposti come Bachelet a vedere nella contestazione giovanile del ’68 una “crisi di speranza” e a sostenere a proposito della introduzione del divorzio in Italia “la possibilità di opinioni diverse tra cattolici circa le conseguenze”, fino a disapprovare il referendum del 1971 per il suo significato politico.

Il modello di Bachelet era, come lui stesso scrisse (Civitas, 5 (1954) n. 12) De Gasperi e la sua politica di faticosi equilibri in una situazione che la lotta armata, con decine di morti sulle strade, rendeva sempre più difficile.

Nel 1973 Bachelet, che nel 1968 era divenuto professore di Scienze dell’Amministrazione presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università “Pro Deo” di Roma, lasciò la Presidenza dell’Azione cattolica e diventò Vicepresidente della commissione italiana lustitia et Pax e del comitato italiano per la famiglia.

Nel 1974 l’ultima tappa della sua vita universitaria: aveva scritto numerosi altri saggi giuridici, era un giurista conosciuto ed apprezzato e fu è nominato professore di diritto pubblico dell’economia presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma per passare poi nel 1977 alla cattedra di diritto amministrativo presso la stessa facoltà.

Nel 1976 fece ingresso nella vita politica attiva con la elezione al consiglio comunale di Roma nella lista della Democrazia cristiana e pochi mesi più tardi fu eletto dal Parlamento al Consiglio superiore della Magistratura che a sua volta lo elesse suo Vicepresidente.

Quello che lo attendeva era un compito tutt’altro che facile: il Paese era lacerato dalla lotta armata, la magistratura era sotto il tiro dei terroristi che uccidevano senza esitazione i magistrati “scomodi”, i giudici erano spaccati al loro interno da forti contrasti di natura politica.

Bachelet, cattolico democratico, non perse occasione per ribadire che il suo unico punto di riferimento era la Costituzione, che doveva essere attuata nell’esperienza di ogni giorno, ricca com’era “di valori umani e cristiani” (Bachelet, Per l’animazione cristiana della società temporale, Ricerca, 1968, n. 4 — 5, pag. 15) ma al tempo stesso espressione dell’unità ideale di tutti gli italiani.

Convinto della necessità di questa unità, esercitò il suo nuovo ruolo cercando di mediare tra le opposte tendenze presenti nel Consiglio, di smussare gli angoli, di trovare soluzioni ai problemi che si ponevano che potessero aggregare il consenso più vasto tra i consiglieri.

I motivi dell’omicidio di Bachelet

Bachelet, come affermò nell’autunno del 1979 commemorando un magistrato, Emilio Alessandrini, ucciso dalle brigate rosse, si rendeva ben conto che la lotta armata portava con se il germe della dittatura e che era quindi necessario porvi fine, ma restando negli stretti limiti della legalità e riaffermando l’autorità dello Stato: quando il processo di Torino contro le B.R. fu sospeso, non si limitò a scrivere (Corriere della Sera, 16 febbraio 1978) che era necessario dare assoluta precedenza “alla trattazione dei processi contro la criminalità, comune e politica” con chiaro riferimento al processo di Torino, ma, ben rendendosi conto della pericolosità della scarcerazione dei brigatisti per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva, fece approvare dal C.S.M. (28 aprile 1977) il suggerimento al Governo di modificare con un decreto legge l’art. 272 del codice di procedura penale allora vigente disponendo la sospensione dei termini stessi nei casi di impossibilità di formazione del collegio giudicante a causa di fatti di eccezionale gravità o per comportamenti dell’imputato o del suo difensore tendenti ad impedire lo svolgimento del giudizio. Il Governo aderì all’invito ed alcuni giorni più tardi emanò un decreto legge in tal senso.

Nella risoluzione strategica del febbraio 1978 le B.R. presero in esame anche la posizione del C.S.M., fino a quel momento ignorato, affermando che esso era la massima espressione della dipendenza dalle direttive dell’Esecutivo: si era con il suo suggerimento preoccupato di fornire al Governo la giustificazione del decreto legge che aveva impedito la scarcerazione dei terroristi a Torino.

Nel 1979 Bachelet fu tra i primi a rendersi conto che gli strumenti giuridici usati fino a quel momento per la lotta contro l’eversione armata erano insufficienti: occorreva rompere la compattezza delle formazioni armate puntando sulla dissociazione di coloro che venivano arrestati: approvò pertanto il decreto legge 5 dicembre 1979, divenuto poi legge il 6 febbraio dell’anno successivo (la cosiddetta “legge Cossiga”) che prevedeva sconti di pena per chi, arrestato per delitti di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, si dissociava e coadiuvava la polizia o l’autorità giudiziaria nella individuazione o la cattura dei corresponsabili.

Era un grosso colpo per il terrorismo: alcuni degli arrestati presero spunto dalla nuova legge (secondo alcuni, anche per l’uso in taluni casi della forza) e iniziarono a collaborare con le autorità provocando numerosi nuovi arresti.

Convinto che non spettasse al giudice ma al potere politico la individuazione degli interessi meritevoli di tutela (Bachelet, Scritti giuridici, III, p. 333), cercò in ogni modo di tutelare al tempo stesso la magistratura rispetto ai tentativi di invasione di campo dei politici.

L’occasione per dimostrarlo gli fu data all’inizio del 1980, quando un gruppo di senatori democristiani (primo firmatario il senatore Claudio Vitalone) presentò al Senato una interpellanza in cui si chiedeva al Governo se era a conoscenza dei rapporti tra un gruppo di magistrati ed appartenenti ad organizzazioni eversive, come risultava da un documento rinvenuto in seguito ad una perquisizione disposta dalla Procura della Repubblica di Roma in una sede di Potere operaio.

Il 21 gennaio 1980 il Ministro della giustizia Morlino, rispondendo agli interpellanti, fece rilevare che di alcuni dei casi richiamati era stato già investito il Consiglio superiore della Magistratura, competente ad assumere le eventuali sanzioni disciplinari e che la prima Commissione del Consiglio aveva già iniziata una indagine e chiesto ai senatori firmatari dell’interpellanza di collaborare agli accertamenti in corso.

Bachelet da parte sua si preoccupò di sottolineare (C.S.M., Notiziario, n. 1, 31 gennaio 1980) che un corretto rapporto tra le istituzioni repubblicane richiedeva una collaborazione tra esse, ciascuna restando nell’ambito delle sue competenze e nel rispetto delle diversità di opinioni, ciò che significava in pratica che il Consiglio si riservava di dire l’ultima parola sulla questione in quanto assumere ogni decisione di carattere disciplinare sui fatti denunciati rientrava, in base alla Costituzione, nella sua esclusiva competenza.

Ne scaturì un vivace dibattito all’interno del Consiglio e Bachelet riuscì con una accorta opera di mediazione a far calare la tensione. Alla fine della seduta del Consiglio, presieduta dal Presidente Pedini in cui fu discussa la questione (7 febbraio 1980) fu infatti emesso un comunicato approvato dal Consiglio in cui si respingeva “ogni congettura e sfiducia nei confronti dell’intero Ordine giudiziario” ed al tempo stesso si auspicava che la verità sui fatti denunciati in Senato fosse accertata nel più breve tempo possibile.

Il Bachelet Vicepresidente del C.S.M. che si esponeva direttamente nella lotta contro il terrorismo e che aveva fornito un aiuto di grande importanza per il corretto svolgimento del processo di Torino non poteva non essere ucciso dai brigatisti, così come era avvenuto per il magistrato Riccardo Palma, che aveva diretto i lavori per riadattare la caserma La Marmora di Torino per consentire la celebrazione del processo nei locali ristrutturati, ucciso a Roma il 14 febbraio 1978, per Carlo Casalegno, vicedirettore del giornale “La Stampa”, ucciso a Torino il 16 novembre 1977, che aveva scritto che sarebbe stato “suicida accettare che impicci procedurali sulla giuria o sulla posizione degli avvocati impedissero ancora di processare Curcio e i brigatisti rossi” (28 ottobre 1977).

Il nome di Bachelet fu trovato in un elenco delle persone da colpire durante una perquisizione ma il professore rifiutò la scorta e continuò la sua normale attività.

Nell’appartamento di Giovanni Senzani, il capo del Partito della guerriglia, l’ala intransigente delle B.R., al momento dell’arresto (9 gennaio 1982) fu trovato un dossier per il rapimento di Bachelet, in quanto ritenuto dall’Esecutivo del gruppo “l’unico interlocutore capace di ricomporre i rottami della magistratura”.

Secondo il racconto di Anna Laura Braghetti, fu la Direzione strategica delle B.R. di cui faceva parte a decidere l’esecuzione. L’incarico fu assegnato alla Brighetti che avrebbe avuto l’appoggio di Bruno Seghetti, altro capo storico delle B.R., proveniente dal gruppo Lotta armata per il potere proletario, confluito nelle B.R. nel 1977 dopo lo scioglimento del gruppo di Potere operaio.

L’omicidio fu preparato con estrema attenzione: Bachelet fu seguito per diversi giorni, i brigatisti accertarono che ogni giorno si recava ad ascoltare la messa e che il momento in cui era più indifeso era quello delle sue lezioni universitarie.

La Braghetti sparò 11 colpi che non raggiunsero tutti il professore ed altri, alcuni fatali, li sparò Seghetti. Rosy Bindi, all’epoca assistente di Bachelet e presente al fatto, ha affermato che Bachelet si rese conto immediatamente di quanto stava accadendo e gli si scolpì sul volto la paura.

Ai funerali, che si svolsero il 14 febbraio nella chiesa di San Roberto Bellarmino a Roma, il figlio Giovanni (poi deputato P.D.) disse di pregare “anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perchè, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e non la vendetta”.

Il volantino delle B.R. che ne rivendicò l’uccisione (Patrizio Peci quando il 19 febbraio 1980 fu arrestato ne aveva in tasca 13), affermò che Bachelet era stato colpito in quanto tecnico della controrivoluzione che continuava a diffondere la convinzione che occorreva reprimere la lotta armata: era la maglia di quella catena di omicidi di uomini della giustizia che proseguì subito dopo con la uccisione del procuratore capo di Salerno Nicola Giacumbi e due giorni dopo a Roma del magistrato Girolamo Minervini, capo della segreteria della direzione degli Istituti di prevenzione e di pena del Ministero della Giustizia.

Anna Laura Braghetti fu arrestata a Roma il 27 febbraio 1980 con altri due brigatisti, Giacomantonio Zanetti e Salvatore Ricciardi: stavano preparando la uccisione del procuratore Capo di Roma De Matteo. Anche Bruno Seghetti fu arrestato (19 maggio 1980) insieme ad alcuni appartenenti alla colonna napoletana delle B.R. dopo l’uccisione di Pino Amato, assessore al bilancio della Regione Campania.

Per l’uccisione di Bachelet sia la Braghetti che Seghetti, l’autista della Fiat 131 del rapimento Moro, il 24 gennaio 1983 (processo Moro bis), furono condannati all’ergastolo. La condanna fu confermata dalla Corte di Cassazione nel 1985.

Entrambi furono liberati (la Braghetti dal 2002, Seghetti di recente dopo essere tornato per tre anni in carcere per aver disatteso le prescrizioni della semilibertà).


Bibliografia

  • A.A. V.V., Vittorio Bachelet, Roma, 1983
  • Barbara Balzerani, Compagna luna, Milano, 1998
  • Anna Laura Braghetti, ll prigioniero, Milano, 1988
  • Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Roma, 2008
  • Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli, Milano, 2006
  • Gigi Moncalvo, Oltre la notte di piombo, Roma, 1984

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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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