di Antonio Ferraro
di Pupi Avati. Con Stefania Sandrelli, Isabella Ragonese, Renato Pozzetto, Lino Musella, Fabrizio Gifuni Italia 2021
Nino Sgarbi (Pozzetto) è a letto con la moglie Rina (Sandrelli) e, preoccupato, per il ricovero in ospedale al quale lei di dovrà sottoporre, le ricorda la lettera che gli aveva dato prima di entrare in chiesa per il loro matrimonio, nella quale scriveva: “se mi giuri sull’altare che ci ameremo sempre come adesso, saremo immortali”. Lei non tornerà più dall’ospedale e i figli, Vittorio (Matteo Carlomagno) ed Elisabetta (Chiara Caselli), per non dargli un ulteriore dolore – ma la notizia lui l’aveva avuta dal cognato Bruno (Alessandro Haber) che, morto, gli era apparso in sogno – vanno da soli al funerale, lasciando il padre in compagnia del fedele Giulio (Nicola Nocella). Nino continua, nei mesi successivi, a parlare per ore con l’adorata moglie, trascinandosi cupamente per la casa. Elisabetta decide che gli sarebbe di grande aiuto scrivere un libro nel quale raccontare quell’amore così grande ed assoluto ed incarica un’agente letterario (Gioele Dix) di cercare uno scrittore adatto al compito di mettere insieme quei ricordi.
La scelta cade su Amicangelo (Gifuni), ghostwriter per necessità (scrive finte autobiografie di calciatori, cantanti e attori), con un romanzo nel cassetto e una vita sentimentale e professionale complicata: è separato, costante moroso nel mantenimento di moglie e figlia e convivente con una ragazza giovanissima. L’accordo prevede che la Sgarbi, oltre a pagarlo per il suo lavoro, si impegni a leggere – ed eventualmente a pubblicare – il romanzo (dal pretenzioso titolo Di cosa parliamo quando parliamo di Carver) che fino a quel momento tutti gli editori gli avevano rifiutato. Amicangelo si reca a Ro Ferrarese e raggiunge la villa Sgarbi; qui Nino gli dice che può rifocillarsi, ammirare le opere della loro bella collezione ma niente di più: lui non ha intenzione di condividere i suoi ricordi con uno sconosciuto. Rabbioso, lo scrittore intima a Giulio di portarlo in stazione ma una tempesta di neve li ferma. Di lì a poco lo raggiunge, inaspettata, Elisabetta che scoppia a piangere e, abbracciandolo, lo prega di non desistere. Il padre, più che altro per far piacere alla figlia, comincia a raccontare e, pian piano, si lascia andare a memorie piene di tenerezza.
Vediamo così i giovani Nino (Musella) e Rina (Ragonese) che si conoscono e si innamorano subito, i loro momenti sereni con Bruno (Filippo Velardi) e gli amici, il matrimonio (osteggiato dai parenti di lei per via delle umili origini dello sposo); segue il loro trasferimento nella casa in campagna di lui, dove un gineceo di aspre sorelle e zie – capitanate dalla madre Clementina (Serena Grandi) – le rende la vita impossibile, tanto da indurlo a chiederle di non rimanere in quel luogo ostile: lei sulle prime gli darà retta ma poi – ricordando a promessa della lettera – torna sui propri passi e, insieme, prenderanno le due farmacie la villa di Ro. L’ultima parte del racconto è dedicata all’avventurosa ricerca e acquisizione delle opere della loro collezione d’arte, sino ad un prezioso Guercino. Nino, mentre racconta di sé, convince Amicangelo a non dispendere gli amori della sua vita e lui comincia a frequentare con nuova consapevolezza paterna la figlia Gioia (Giulia Pricigalli). Quando il lavoro è finito lo Sgarbi saluta l’amico scrittore con una frase di Pavese: “L’uomo mortale non ha che questo di immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Poco dopo Bruno chiama in sogno Nino perché raggiunga lui e Rina.
Lei mi parla ancora, va detto subito, non è un film avatiano: è un film di Avati, ha momenti e personaggi nei quali lo stile del regista viene fuori appieno (la festa in riva al fiume, la balera improvvisata, il cognato fan dei Radio Boys, le pettegole parenti di Nino) ma non lo si coglie come un “suo” racconto. Certo, però, il tema dell’amore che sfida tutto, la poesia di un quotidiano scandito dai tortellini e la splendida capacità di concertare attori e arredi in modo che niente stoni in un insieme assonante sono tutte ascrivibili alla poetica (e alla tecnica) dell’autore. E’ vero, pur in un racconto così concentrato, manca un vero centro narrativo (anche dal punto vista visivo: luci e chiaroscuri si alternano con eleganza ma non sempre ci fanno partecipi di un racconto) e questo rende un po’ legata la recitazione di un attore di testa come Gifuni; mentre Pozzetto, contemporaneamente tenuto ad un testo preciso e lasciato libero di esporre la propria malinconia, ci dà un Nino Sgarbi che rimarrà nelle storie del cinema.
Lui sostiene, in un intervista, di aver avuto solo un’altra occasione di vero impegno attoriale, in Gran bollito Bolognini; in realtà era stato già grande in Sono fotogenico di Dino Risi che aveva sfruttato perfettamente la sua recitazione “in levare”, dandoci un personaggio profondamente delceamaro. Ora, 40 anni dopo, Avati ci consegna un Pozzetto meravigliosamente fotogenico.
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