Immagino che i più, letto il titolo, abbiano pensato: ma che “anniversario” è mai questo? Che diavolo è successo di così straordinario in quell’anno?
Esattamente questa ragione “indistinta”, un anno come sempre carico di cose da ricordare ma soprattutto di “ponte” e di transizione tra due diversissimi decenni, ha mosso gli organizzatori di un recente evento milanese a intitolare semplicemente “1979”. Come cantava Enzo Jannacci, “per vedere l’effetto che fa”.
In un circolo fondato dall’ex-sindaco di Milano Paolo Pillitteri a Porta Vigentina e animato da suo figlio Stefano, siamo stati chiamati a dare tre diverse letture, io sui caratteri politici generali di quell’anno, Franco D’Alfonso sul significato degli eventi per una generazione allora ventenne e Ivan Cattaneo sulla “colonna sonora liberatoria” di quel fine anni settanta (in cui, ai confini con il tema musicale, ci fu anche il rapimento di Fabrizio De Andrè).
In quello stesso giorno, anzi più o meno nella stessa ora, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Piccolo Teatro a Milano, ha tributato la riconoscenza del Paese per “l’eroe borghese” (definizione di Corrado Stajano), l’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso appunto in quel 1979 per non essersi scansato di fronte alla responsabilità di smascherare una gigantesca collusione illegale tra banchieri e mafie.
E – nell’elenco di omicidi della mafia e soprattutto del terrorismo – il nome di Guido Rossa, potremmo dire “un eroe operaio”, sta anche certamente nella prima pagina di quell’anno per non essersi scansato di fronte all’infiltrazione delle Brigate Rosse nel sistema di fabbrica.
Sì, bisognava tirar fuori l’Italia dalla pozza insanguinata del terrorismo. Così come bisognava tirarla fuori dalla velenosità dell’inflazione che raggiungeva in quel 1979 il 22%. E più ancora da un sistema di incertezza della nostra democrazia che nel corso del decennio si era bloccata attorno alla guida democristiana per poi tentare, dopo il caso Moro dell’anno prima, una formula di “compromesso storico”, ovvero di coinvolgimento dei comunisti nel governo centrale, che aveva un volto di drammatica diversità dal congelamento del processo democratico fatto da un governo con chiari propositi ben inteso controllato da una opposizione con altrettanti chiari intenti.
Presidente della Repubblica, allora da un anno, Sandro Pertini. Che proprio nel 1979 diede segnali sullo sblocco del processo democratico. Due “incarichi di consultazioni” per formare il nuovo governo a Ugo La Malfa (PRI) e a Bettino Craxi (PSI). Non ci saranno ancora le condizioni. DC e PCI non ne vollero sentir parlare. Si formerà invece un governo Cossiga, con l’astensione sia dei socialisti che dei repubblicani, in cui tuttavia il PSI mise due ministri tecnici per segnare elementi di svolta nella politica di riforma dello Stato (con Massimo Severo Giannini alla Funzione Pubblica) e Franco Reviglio alle Finanze, che produssero progetti e classe dirigente.
Proprio il tema della classe dirigente in quel 1979 comincia a cambiare posto in agenda per avere basi vere per un nuovo indirizzo del governo. Su questo si è concentrato il mio contributo.
In particolare per i socialisti (che quattro anni dopo, nel 1983 – dopo la sperimentazione del governo Spadolini – ricevettero da Pertini la più consolidata proposta di guidare il governo, inizia una fase di progetto e lavoro di profondità sulla classe dirigente che si rivelerà determinante. Tra l’altro nel 1977 Giuliano Amato aveva aperto su Mondoperaio (il laboratorio più interessante della riprogettazione) un famoso saggio sui temi della riforma istituzionale. Il nodo ereditato dal centro-sinistra degli anni ’60 che si era infranto per tante ragioni, anche per la guerra politico-parlamentare da sinistra e da destra, ma certamente per le insorgenze extraparlamentari e giovanili di fine decennio contro tante cose che non funzionavano, tra cui l’apparato dello Stato. Quella “grande riforma” prese poi l’etichetta del “presidenzialismo”, ma in verità – come ricorda ora Luigi Covatta, che guida 40 anni dopo il laboratorio di Mondoperaio vivo e vegeto – il presidenzialismo fu presto abbandonato, ma non le varie altre questioni: voto segreto, rapporto governo-parlamento, legge elettorale, rapporti tra istituzioni, politica ed economia. Eccetera.
Metafora di un conflitto politico e culturale del 1979 fu anche il varo della terza rete televisiva della Rai (azienda di cui ero allora dirigente e consigliere di Paolo Grassi, presidente espresso dai socialisti ma proprio a causa di quella “terza rete” con loro in frizione). Era prevista dalla legge di riforma del 1975, soprattutto per diminuire il centralismo della Rai e dare spazio sia tematico che produttivo ai territori.
Ma il clima di orientamento al compromesso storico ne faceva – in una azienda che era battistrada dei cambiamenti politici nazionali – un banco di prova per associare pariteticamente i comunisti nell’orientamento dei contenuti del potente sistema radiotelevisivo nazionale.
Una rete guidata dalla DC, una dal PSI e la terza? Questo il terreno di scontro una volta che si era imboccata la via di tentare la democrazia dell’alternanza. Mai un tema “pubblico” aveva espresso tanta convegnistica, tanta stampa, tanti tentativi di mediazioni. Ci provò, poi, la tecnostruttura stessa della Rai (in cui emergeva come nuovo leader Biagio Agnes) a trovare un punto di equilibrio. La rete si sarebbe fatta, sarebbe partita con un depotenziamento tecnico, non sarebbe stata guidata in partenza da un comunista, avrebbe contenuto molto decentramento e molta programmazione “educational”. Tutti avrebbero potuto dichiararsi vincitori. Ma il vulnus di quel dibattito rimase aperto e da lì a breve si tradusse da un lato nell’accelerazione dell’avanzata della tv commerciale (che, con l’emergere del progetto di Berlusconi, doveva anche liberare un’ingente quantità di risorse pubblicitarie inespresse) e dall’altro lato nella maggiore politicizzazione della stessa Rai3 in cui in tempo due si affermò un gruppo dirigente espresso dal PCI.
Il 1979 interpretò lo sguardo al futuro ma con il freno ancora tirato. In un certo senso era l’ultimo di alcuni anni di un decennio rimasto tuttora mal decifrato. Ma in cui – per dirla con il sociologo, mio amico e spesso partner di analisi e di scrittura, Nadio Delai – la politica ha per lo più guardato indietro “mentre una certa imprenditorialità nascente stava progettando un milione di nuove imprese”.
Resta comunque quell’anno, il 1979 – trenta anni dopo la Costituzione, quaranta anni prima dei nostri giorni, un tempo lungo che mentre scrivo mi pare un lampo – straordinariamente simbolico dei grandi passaggi tra frenate e continuismi (come li chiamerebbe Giuseppe De Rita) e il rilancio di un decennio che – almeno per un buon tratto – tornerà a respirare. Facendo emergere, soprattutto grazie ai socialisti, temi nuovi: il salto di qualità dell’europeismo, la ripresa del riformismo (che chiede sempre tempo e metabolizzazione), la costruzione in molte direzioni di una classe dirigente più moderna, il tentativo di mettere mano alla modernizzazione delle istituzioni, un nuovo sguardo sull’identità nazionale competitiva.
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