Economia&Finanza

Raffaele Mattioli, ultimo grande del Rinascimento

Non è un titolo fuori luogo, sebbene appaia fuori tempo.  Raffale Mattioli (Vasto 1895, Roma 1973) fu banchiere, umanista quanti altri mai dal Rinascimento in quà l’Italia abbia conosciuto soprattutto avuto. 

Cerco di rappresentarlo con la modestia necessaria, avendo avuto il privilegio di conoscerlo e  preso da Lui con considerazione e, soprattutto, con affetto. L’occasione per qui ricordarlo mi è data dal simposio “Raffaele Mattioli il banchiere umanista” svoltosi oggi (sabato 28 settembre) a Lanciano nell’ambito  de “Le giornate di economia” promosse dall’amdc (l’associazione degli amici di Marcello De Cecco, illustre economista abruzzese scomparso da qualche anno).

Avevo in animo, come ogni anno, di salire a Milano e recarmi all’Abazia di Chiaravalle per porgere un pensiero di riconoscenza e di affetto sulla tomba che ne accoglie la memoria. Spinto da mio figlio, Paolo, ho colto l’occasione di cambiare programma e presentarmi, pur senza invito, al convegno di Lanciano. 

Prima di ricordare per quel che posso Raffaele Mattioli nella complessità della sua figura e della sua presenza nella storia nazionale per ininterrotti quarant’anni del ‘900 (dagli anni ’30 al 1973),  debbo dire che, non avevo ancora vent’anni, fui preso da Lui personalmente alla Banca Commerciale Italiana ed ebbi in seguito, per oltre un decennio, la possibilità di andare a salutarlo due o tre volte l’anno a Palazzo Colonna, Piazza SS. Apostoli, dove aveva sede la rappresentanza della direzione centrale della Comit, senza preventivo appuntamento e sempre accolto con affetto oltre la gentilezza e la signorilità che lo contraddistinguevano.

Non debbo aggiungere altro riguardo al mio rapporto.

Raffaele Mattioli

Ma, perché “don Raffaele” è universalmente riconosciuto quale ultimo grande personaggio del Rinascimento? La risposta è di una ovvietà sconcertante. Mattioli fu innanzitutto uno dei principali, se non il più principale, data l’intuizione lungimirante  che egli ebbe all’inizio degli anni ’30, quando la “grande crisi” approdò in Italia e mise a nudo l’impossibilità del sistema bancario nazionale, cresciuto sul modello di banca mista, di sopravvivere senza una rottura di continuità. Egli comprese che le grandi banche, la Comit in particolare che aveva in portafoglio qualcosa come il 25 per cento dell’industria italiana, dovevano liberarsi di quel fardello e  tornare al mestiere di pura banca. La Comit si liberò di quei pacchetti azionari attraverso due passaggi, prima con una finanziaria poi con la costituzione dell’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale). Si appoggiò ed ebbe l’appoggio di personaggi quali Beneduce e Menichella, che insieme riuscirono a far  navigare e salvare  il sistema pur tra le  maglie del fascismo, rispetto al quale non ebbero alcuna simpatia, semmai una necessaria presa d’atto. Come ricordò più tardi Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca, più o meno “Mattioli era intelligente e i  fascisti fessi, Mussolini che fesso non era capì che, almeno in quel caso, era necessario affidarsi a uomini intelligenti”.

Tornare a fare la “banca pura”, in quel frangente, non era semplice, poiché non esistevano più, se mai c’erano stati, riferimenti e regole adatte. Le regole furono ristabilite proprio sotto la guida di Mattioli, e trovarono sponda nella legge di riforma del sistema bancario del 1936 che separava le banche di credito ordinario da quelle di credito speciale o investimento a lungo termine.

La personalità di banchiere  emerse a tutto tondo. Man mano venne poi in evidenza la sua capacità di economista “sul campo”,  non accademico, anche se aveva  dimestichezza con le nuove grandi tendenze keynesiane, frequentazione e amicizia fraterna con Piero Sraffa, il maggior economista italiano del’900.

A questa complessa attività nel settore finanziario Mattioli unì una costante presenza nel campo letterario, dove fu ispiratore e mecenate di una serie di riviste alle quali presero parte personaggi come Bacchelli, Schiaffini, Solmi, Contini ed altri. 

Fu legato a Benedetto Croce e ne proseguì l’attività all’istituto di studi storici a Napoli. Di Croce tracciò poi un ritratto che che è anche e  più ancora il ritratto di sé stesso: “amava le liete compagnie, la conversazione tra persone di spirito… aveva sempre pronto un frizzo, un aneddoto da raccontare e di cui era il primo a divertirsi e ridere; come il dottor Faust, solo tra gli uomini si sentiva uomo, e socraticamente  provava la sua filosofia fra la gente di ogni rango, nella vita di ogni giorno.  

Al maestro scultore Giacomo Manzù non mancò mai l’appoggio e il sostegno di Mattioli per il quale scolpì l’angelo con il quale voleva adornare la tomba del suo mecenate ed è tutt’ora all’interno dell’Abazia di Chiaravalle.

Questo per dire succintamente come il personaggio esca in pieno dalle pagine dell’umanesimo. Un uomo che che aveva il dono, soprattutto lo esercitava, della connettività delle culture, classica, scientifica, economica, artistica, letteraria. 

C’è dell’altro che di Mattioli poco si racconta, la sua grande e non decantata passione per la politica intesa come contributo attivo e morale alla causa della società italiana. Egli fu un autentico “civil servant” nel senso pieno di questo termine. Non già perché fu vicino ad Antonio Gramsci e gli garantì le cure mediche quando il fondatore del  Pci moriva lentamente in una clinica romana dopo gli anni del confino e della galera fascista. Fu una delle anime fondanti del movimento che diede vita al Partito d’Azione, fu  – come lo commemorò alla sua scomparsa  il direttore dell’Avanti! Gaetano Arfè – un  liberale conservatore.

Io personalmente (e mi scuso di apparire con l'”io”) avendone talune volte raccolto alcuni accenni, lo definirei un liberale anarchico, nel  senso bello delle parole, cioè di un uomo il cui giudizio non era sottoposto né agli impulsi esterni e tanto meno alle mode. Era severo con sé stesso e sarcastico. Una volta che ebbi l’ardire di chiedergli come si sarebbe comportato nei confronti di un tentativo di corruzione, mi rispose testualmente: “Ah, io sono come tutti gli altri, solo che costo sempre una lira in più di quanto possono offrirmi.”  Una lezione che mi sarebbe servita molto negli anni a venire. 

Ancora parlando  del suo atteggiamento verso la politica, merita di ricordare lo scambio di battute con Palmiro Togliatti, segretario del Pci, a proposito della poderosa opera letteraria  promossa con la editrice Riccardi per la realizzazione di una collana di classici italiani (Letteratura italiana, storie e testi).  Togliatti gli chiese che significato potesse avere, si era nel 1951, quello sforzo editoriale. Mattioli replicò che con quella collana voleva “alzare un muro e che solo quando i comunisti avessero conquistato anche questo muro sarebbero potuti diventare classe dirigente.”

Il tema della formazione della classe dirigente, civile e politica, Mattioli aveva idee assai chiare, “occorrerà introdurre – sostenne –   quest’ultimo termine nel suo significato più ampio, facendovi dunque rientrare tutti coloro che, al governo o all’opposizione, nel parlamento o fuori di esso,  muovendosi in una sfera ufficiale, ovvero entro spazi propri ed autonomi ed addirittura alternativi, abbiano svolto, svolgano o si preparino a svolgere compiti che vanno al di là del puro esercizio di un mestiere, d’una professione.”

Investire in conoscenza, fu un assioma della sua vita. Il lavoro ben fatto, fu uno stile di vita proprio di quella grande scuola che fu la Comit di Raffaele Mattioli.

Da ultimo, va ricordato il suo apporto a quella che si potrebbe definire “economia di  strada” la strada di ogni giorno e del continuo evolvere delle situazioni, nazionali e  internazionali. Capire i segnali predisporre gli strumenti per affrontare gli avvenimenti successivi. Un  economista “sensitivo”, piuttosto che un accademico. 

Così descrisse il “paradosso dei paesi sottosviluppati”: “in verità al ritmo attuale del progresso tecnico, tutti i paesi sono cronicamente sottosviluppati, e quindi anche economicamente più o meno arretrati, quando non riescano a correre più degli altri e mettersi decisamente alla testa di ogni miglioramento nei metodi e negli strumenti di produzione.”

Ma, quel genere di economista che fu Raffaele  Mattioli dava fastidio, specie a chi doveva guidare l’economia italiana. Così nel 1972, allorchè un’azione congiunta di culattoni, politici e piduisti né impedì il nuovo mandato come presidente della Banca Commerciale, in tanti tirarono sospiri di sollievo, forse anche all’interno della Banca d’Italia, dove “le sue lezioni” furono spesso indigeste.

C’è un modo, a me sembra, di ricordare Mattioli nell’interezza della sua personalità multiforme, usando per Lui quelle parole con le quali Lui ricordava Benedetto Croce: “le grandi lezioni della sua vita: la semplicità, la serena indifferenza ai titoli e agli onori, l’aborrimento d’ogni retorica, lo scrupolo assiduo del lavoro ben fatto che importa la costante disposizione a rimetterlo sul telaio, l’impavida ricerca e soprattutto l’impavida accettazione del vero.”

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Gianfranco Salomone

Giornalista - Già Direttore Generale Ministero del Lavoro

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